28/01/2011

Vitalità culturale, canzoni provinciali e botteghe rinascimentali

Uno degli indicatori della vitalità culturale che caratterizza le singole comunità ‘locali’ è l’effervescenza della loro creatività culturale più spontanea.

Questa creatività si traduce in forme di cultura locali con contenuti dialettali ma con i mezzi universali della poesia, della pittura, della scultura e della musica ma anche con i mezzi, altrettanto universali, delle arti e dei mestieri che caratterizzano le botteghe artigiane e gli studi professionali.

La creatività canora e teatrale ha caratterizzato le aree di maggiore fertilità della cultura ‘italiana’ nei secoli, gli stornelli romani e fiorentini, le canzoni napoletane e venete sono state tutte accompagnate dalle danze;  espressione delle culture popolari.

I racconti, le favole, le ballate e le poesie dialettali sono state sempre associate alle forme teatrali più radicate nella cultura provinciale italiana; commedia dell’arte, teatro delle marionette, teatro dei pupi.

I canti sacri e folcloristici regionali hanno costituito il materiale sul quale si sono consolidate l’opera e le opere buffe italiane che hanno integrato il bel canto, il balletto, la musica da camera, sinfonica e operistica la scenografia, la decorazione di interni, l’architettura, la sartoria dei costumi e gioielli e la decorazione con dipinti e sculture; un’integrazione consolidatasi ben prima che si costituisse in Italia uno Stato Nazione.

La musica sacra, da camera e sinfonica hanno fornito grandi stimoli all’invenzione di strumenti musicali altamente innovativi nell’arco dei secoli. Un patrimonio artigiano che ha arricchito il mondo di strumenti e know how ricco di creatività e ben radicato nelle botteghe artigiane provinciali e nelle scuole musicali e del canto italiano. Dal mandolino, alla chitarra, dalla zampogna, all’oboe, dalla spinetta, al pianoforte, dai liuti, al violino, alla viola d’amore, alla viola da gamba, dal marranzano, alla fisarmonica l’industria musicale ha costruito un patrimonio capace di elevata competitività sul piano globale. Un potenziale industriale di alta qualità fondato su ‘innovazioni’ tecnologiche e costruttive di carattere ‘artigianale’.

Questa tradizione che ha accumulato un capitale di prodotti e conoscenze artigianali e professionali tale da acquisire su base globale un elevato livello di visibilità e protagonismo in tutti i secoli, non è stato favorito né ostacolato dall’esistenza di uno Stato Nazione che gli fornisse sostegno. È stato un fenomeno creato dalla più individuale abilità degli ‘artigiani’ italiani per passione e motivazioni assolutamente individuali coltivato nel segreto delle loro botteghe, scuole o studi professionali.

Si tratta di una peculiarità industriale alimentata dalla scarsa mobilità, tipica delle province italiane, che ha consentito di trasferire le soluzioni ‘locali’ ad altre province in cui le innovazioni hanno costituito lo stimolo suggestivo di ulteriori diversificazioni di prodotto. È una peculiarità dell’osmosi che trova riscontro in altri comparti industriali in Italia (e in Germania) e che ha generato nicchie di altissima competitività produttiva nel comparti più vari; nautica, idraulica, motoristica, auto, trasporti su rotaia, trasporti a fune, teleferiche, giostre, aeronautica, armi e armamenti, chimica di sintesi, idrocarburi, farmaceutica, macchine numeriche, strumentazioni di bordo, etc..

La struttura della produzione industriale ha conservato questa molteplicità di piccole imprese locali di scarsa mobilità, elevata specializzazione che, all’avvento dell’industrializzazione di massa, ha composto l’’indotto’ dei pochi grandi gruppi industriali che la cultura ‘ingegneristica ed organizzativa italiana è riuscita a creare con le limitate risorse finanziarie disponibili in un paese fondamentalmente rurale fino agli anni trenta.

La produzione di massa richiedeva infatti la disponibilità di un ampio mercato nazionale sul quale fosse possibile ammortizzare gli investimenti ma, soprattutto, richiedeva la disponibilità di professionisti capaci di presiedere all’organizzazione e gestione del lavoro in catena di montaggio con maestranze meno creative e individualiste di quanto non siano ancora quelle disponibili in Italia a impegnare le proprie risorse psichiche con la sola aspettativa di compensi monetari. Gli ‘artigiani’, ad ogni livello di preparazione professionale, non si aspettano gratificazioni monetarie e di tempo libero ma aspirano alle soddisfazioni che solamente una organizzazione del lavoro da ‘bottega rinascimentale’ potrebbe garantire anche a scapito del reddito e dell’impegno orario.

Ciò è quanto continua ad avvenire negli studi professionali più diffusi in Italia. Dagli studi di architettura più noti e recenti, agli studi di ingegneria impiantistica, agli studi di prospezioni geologiche, agli studi della consulenza aziendale più vari (immagine e comunicazione, marketing, indagini di mercato, stilisti, etc.), alle botteghe artigiane più diverse (orafe, arredamenti, etc.).

La globalizzazione ha creato una nuova opportunità di inserimento di questo tipo di cultura industriale nel mercato della produzione soprannazionale. Infatti la delocalizzazione degli impianti ha costretto a rivedere la struttura organizzativa della suddivisione internazionale del lavoro affidando a piccole unità produttive ‘locali’ i compiti di produrre componenti, apparati, sottoinsiemi destinati ad essere assemblati in insiemi finali secondo progetti unitari presso impianti che ne curino il collaudo per l’utenza finale.

Ogni fase della produzione si presta ad essere affidato ad unità produttive altamente specializzate in cui le conoscenze professionali di natura ‘artigianale’ possono essere meglio impiegate con reciproca soddisfazione per chi rifiuta la mobilità territoriale e chi commissiona le singole fasi di produzione.

Anche la fase dei progetti possono essere affidate a studi specialistici; è solo un problema di organizzare la produzione industriale decentrata. Un problema che oggi è reso agevole dal potente ed efficiente sostegno che i servizi di comunicazione digitali offrono all’ingegneria industriale e all’economia aziendale.

Sembra possibile rivalutare il potenziale di creatività specialistica delle ‘botteghe artigiane’ di un tempo e di porlo al servizio di una competizione industriale di qualità soprannazionale.

I benefici non sarebbero solamente quelli di carattere economico (minimizzare le dimensioni degli impianti, ridurre i costi ‘overhead’ imposti un tempo dalla concentrazione di maestranze, aumentare la competizione tra subfornitori, aumentare il potenziale di innovazione di prodotti e processi, etc.) ne potrebbero emergere ridotte esigenze di mobilità obbligate dalle pure esigenze della produzione e maggiore affezione al lavoro in piccole aziende di alta specializzazione professionale capaci di assumersi le proprie parti di rischio aziendale garantendo una maggiore flessibilità e partecipazione ad assorbire le oscillazioni cicliche del mercato.

La globalizzazione sta forse ponendo fine alla goffa organizzazione del lavoro che ha caratterizzato sia la fase taylorista paleo-industriale, sia la fordista dell’industria di massa, sia la deminghista della qualità totale e offre forse una nuova opportunità alle piccole medie imprese ‘locali’ di alta specializzazione, flessibilità e creatività innovativa. Una sorta di nuova era rinascimentale di dimensioni globali.

L’Italia è tra i paesi più dotati in questo senso solo che la formazione professionale fosse restituita al mondo industriale invece che essere monopolizzata da accademici astratti consulenti di diritto del lavoro ed estranei a qualsiasi sensibilità produttiva o commerciale. È emblematica la sterilità e nocività del diritto del lavoro in Italia incentrato sul consociativismo centralista para-fascista e recentemente contestato con il caso Fiat.

Quel paradigma ha condotto a una costante diminuzione dell’utilizzo degli impianti industriali e alla perdita di competitività del sistema stato-industria fondato sulla programmazione dei redditi gestita sulla base di contratti nazionali in luogo dei tradizionali contratti aziendali che, in altri paesi, hanno invece consentito di promuovere rinnovi contrattuali più flessibili ed adattivi alle esigenze ambientali.

L’eliminazione del contratto di lavoro fondato sul ‘cottimo’ ha tolto agli addetti alle mansioni di prima linea l’unica concreta ragione di dedizione a tipi di lavoro meno auto-motivanti (sportellisti, telefonisti, vigilanti, autisti, montatori, verniciatori, etc.). La caduta di dedizione al lavoro si è tradotta in minire utilizzo degli impianti e in loro minore grado di efficienza. Questa caduta di utilizzo degli impianti ha causato il minore livello di redditività complessiva dei processi industriali. Il risultato è che, benché il costo industriale delle manovalanze negli impianti più moderni oggi sia ridotto a livelli inferiori al 10% dei costi complessivi, la scarsa produttività degli addetti si riverbera in costi industriali enormi dovuti al crollo della produttività complessiva del capitale investito. Ricorrere alla soluzione di sostituire con robot gli addetti alle mansioni meno remunerate, oltre a creare problemi sociali laddove è abbondante l’offerta di lavoro meno qualificato, richiede massicci investimenti e tempi lunghi per il loro ritorno e ciò rende meno interessante la soluzione rispetto alla delocalizzazione degli impianti più ‘maturi’ in contesti socialmente più poveri anche per le virtuose conseguenze di questa soluzione per la crescita del reddito complessivo prodotta a beneficio di un mercato del lavoro e dei consumi più redditizio rispetto al capitale investito. Aumenta il reddito di masse di maestranze di bassa qualificazione che accedono al mercato dei consumi sollecitando la crescita economica complessiva ben più di quanto non sarebbe congelando gli investimenti in robot o in aumenti distribuiti agli addetti nei vecchi impianti gestiti sotto vincoli troppo rigidi per la flessibilità industriale che sarebbe invece richiesta per conseguire una redditività competitiva tra le due soluzioni.

La maggiore rigidità contrattuale europea (e italiana in particolare) presenta virtuose conseguenze sul piano sociale allargato ad abbracciare i paesi in cui gli impianti vengono de localizzati; ciò dovrebbe gratificare le aspettative etiche proprie della dottrina sociale cristiana ma non soddisfa certamente quelle della dottrina sociale marxista. Da ciò le attuali divisioni tra confederazioni operaie in Fiat.

È triste vedere come l’individualismo che ha caratterizzato la creatività del lavoro in tutta Europa sia stato tarpato nel corso del ‘900, grazie alla gestione corporativa centralizzata e autoritaria degli Stati Nazione, fino a causare conseguenze deteriori su tutto il sistema stato-industria più avanzato esistente al mondo.

Si può parlare con ottimismo dell’esistenza anche nella società di un ‘disegno intelligente’ che, non ostante la stupidità arrogante degli intellettuali (Marx, Keynes, Moro, etc.), riesce ad abbattere i corporativismi più imperialisti conducendoli alla loro stessa morte rispetto allo sviluppo economico e sociale dei più diseredati paesi; un tempo loro ‘colonie’.

Questa ‘serendipity’ della programmazione centralista dell’economia, grazie alla libera circolazione dei capitali e alla loro appetibilità da parte di ogni regime indipendentemente dal suo livello di modernità, accade nonostante ogni capacità coercitiva delle governance nazionali più autoritarie; anche la Cina subirà questo processo di crescente perdita di controllo centrale sulla società. Il capitalismo-liberista, alimentato dalla sola avidità individuale dei produttori-consumatori-risparmiatori riesce ad espandere le frontiere del benessere materiale oltre i confini eretti dalle oligarchie più reazionarie (sindacati datoriali e prestatoriali e loro lobby sulle istituzioni legislative) e, grazie a questa crescita di benessere, riesce ad abbattere gradualmente ogni resistenza illiberale delle istituzioni costituzionali più settarie, autoritarie e partigiane.

La capacità delle ‘istituzioni’ di pubblico interesse – create gradualmente dal capitalismo-liberista per potersi sviluppare storicamente in modo autonomo da ogni tentativo ‘locale’ o ‘settario’ di impedirgli la ‘libera crescita’ (libera da ogni ideologia secolare o religiosa) – di abbattere costantemente i confini opposti dalle istituzioni politiche (sempre ‘settarie’, anche se anche se involontariamente in regimi di liberal-democrazia, per il loro carattere di ‘conservazione’ degli equilibri passati) è irresistibile e mirabile nei suoi effetti pratici. Non appena l’innovazione tecnologica e organizzativa consente di concepire ‘soluzioni industriali’ capaci di generare maggiori dosi di reddito estendendo i confini del ‘libero mercato’, le istituzioni capitaliste danno la dimostrazione della loro creatività operativa e del loro carattere di diffuso pubblico interesse abbattendo le resistenze opposte dalle vecchie oligarchie geo-politiche e mettendone in crisi i meccanismi istituzionali che tentano di conservarne i privilegi.

È ciò che sta accadendo oggi con la globalizzazione e che, le vecchie oligarchie delle corporazioni istituzionali (sindacati e partiti in primis e le loro braccia operative statali nazionali e soprannazionali poi), cercano di frenare presumendo effetti deteriori derivanti dalla internazionalizzazione stessa dell’economia, diffondendo una demagogica percezione di ‘crisi economica’ indotta dal fenomeno a spese di tutte le economie dei vecchi Stati Nazione.

Ciò viene confutato dalla realtà dell’economia industriale.

Infatti la globalizzazione ha generato una crescita del prodotto lordo complessivo soprannazionale senza nuocere alla crescita del prodotto interno lordo dei vecchi Stati Nazione che, pur essendo costretti a rivedere i loro comportamenti ‘egoistici’ che si erano ricavati grazie ad un ruolo di privilegi parassitari a spese dei paesi meno industrializzati (ed a soffrire pertanto di semplici e congiunturali ‘crisi locali’ di benefici non più sostenibili nell’ottica d’un uso efficiente delle risorse finanziarie disponibili a sostegno del ‘nuovo potenziale’ di crescita occupazionale globale), hanno visto crescere il loro prodotto interno lordo ed hanno visto crescere in modo precedentemente inimmaginabile il loro mercato potenziale internazionale – seppure sottoposti ad un regime di maggiore ‘libera competizione’.

D’altronde la globalizzazione si è tradotta in tassi di crescita del reddito individuale in Stati Nazione privi di opportunità di crescita del prodotto interno lordo prima che quel fenomeno soprannazionale abbattesse le frontiere dei privilegi nazionalisti. Il reddito individuale non ha solo prodotto migliori condizioni di vita ma, inoltre sta generando crescenti aspettative di maggiore rispetto per i diritti civili individuali che creano le premesse politiche di profonde innovazioni istituzionali interne ai regimi anche i più illiberali dei paesi che si sono coinvolti ‘liberamente’ nel processo dell’industrializzazione globale.

Sotto questo profilo è encomiabile riconoscere il carattere non ideologico né settario che caratterizza le istituzioni (di interesse pubblico) che ha fondato il capitalismo-liberista (aziende di corporate services, dei servizi finanziari, dei servizi bancari, del lobbying industriale, del litigation extragiudiziale, etc.).

Infatti quei corporate services operando dinamicamente e creativamente al di fuori delle rigidità istituzionali degli Stati Nazione, riescono a promuovere nuovi servizi che siano più congeniali alle aspettative di crescita nutrite dall’industria su mercati di dimensioni che eccedono i vecchi confini doganali. Quei servizi sono proposti a consumatori e risparmiatori che aderiscono ‘liberamente’ al loro acquisto animati dalle loro ‘responsabili’ motivazioni individuali (avidità, prudenza, diversificazione, etc.). Si tratta transazioni ‘libere’ e scambiate in un ‘libero mercato’ (libero in quanto spesso perfino ignoto agli stessi legislatori nazionali).

È evidente che la vecchia ‘governance’ e tutti i protagonisti che la gestivano possano risultare disturbati nei loro interessi (‘privati’ anche se svolti nell’ambito di procedure e istituzioni dello Stato Nazione) e che quindi possano sollevare obiezioni ed opporre resistenze, resistenze, resistenze.

Ciò non toglie che le istituzioni del capitalismo liberista siano di diffuso interesse pubblico, siano ‘libere’ da vecchi privilegi corporativi, siano più efficienti nell’allocazione dei capitali (la vera risorsa scarsa rispetto al potenziale di crescita economica) e siano certamente più efficaci nel promuovere l’estensione del benessere e dei diritti liberal-democratici oltre i confini settari difesi dalle ideologie secolari o religiose in ogni epoca.

Affidando l’estensione della civiltà liberale alle sole scelte individuali ispirate dal ‘responsabile’ consumo di beni e servizi a misura del proprio ‘libero arbitrio’.

Che le istituzioni del capitalismo liberista siano (fortunatamente) pre-ordinate agli interessi settari degli Stati Nazione è dimostrato storicamente dal costante superamento dei confini geo-politici anche degli imperi più autoritari.

Non solo il crollo dell’URSS è stato dettato da una graduale penetrazione di aspettative di maggior benessere in tutto l’impero comunista, anche ciò che avviene oggi nel mondo dell’islam e in Cina offre l’evidenza della destabilizzazione graduale ma inesorabile che la crescita del reddito interno provoca sulle istituzioni anche di regimi più ideologicamente rigidi.

Ma anche nell’ambito della storia della civiltà ’Occidentale’ esiste l’evidenza dell’autonomia delle istituzioni del capitalismo liberista rispetto agli Stati Nazione egemoni in ogni epoca. La Spagna ha visto crollare il suo ruolo egemone nel mondo a causa di una inadeguatezza delle sue istituzioni industriali e finanziarie a ben impiegare le risorse che il suo impero globale le avrebbero consentito di utilizzare per rafforzare l’egemonia.

Ma anche le più efficienti istituzioni finanziarie e assicurative del Regno Unito (le banche, finanziarie e assicurazioni della City di Londra) hanno visto gradualmente trasferire il peso politico di quello Stato Nazione verso centri più soprannazionali che ne hanno gradualmente integrato il sistema stato-industria con quello di altri paesi (i corporate services e servizi finanziari di Wall Street e di Chicago).

Ma già da qualche decennio l’egemonia decisionale dei gruppi industriali soprannazionali (dalle ‘sette sorelle’ all’industria delle comunicazioni, dell’informatica e della logistica industriale) sta sottraendo porzioni di egemonia decisionale al duo City-Wall Street per integrarne i servizi di pubblico interesse con altri centri in via di crescita e consolidamento per quanto concerne la credibilità ‘liberale’. Hong Kong, Singapore e Dubai si sono ormai integrati con City-Wall Street-Zurigo per offrire finalmente sostegno alla crescita industriale globale servizi con decisioni dettate solo dall’efficienza di allocazione delle risorse scarse e che siano prive di vincoli di ordine politico ideologico di regimi ‘locali’ inevitabilmente espressione di percezioni settarie.

Anche l’Impero Britannico non è stato in grado di conservare il monopolio della sede delle istituzioni che presiedono alla governance dell’economia mondiale e ne ha dovuto accettare lo spostamento di peso a New York ed a Chicago.

Anche la superpotenza industriale USA ha visto gradualmente spostare le sede della governance globale da Wall Street e Chicago verso gli attuali co-protagonisti asiatici. Si può dire che, mentre le istituzioni statali che curano la governance politica dei singoli paesi conservano stabile la loro sede, il loro peso sulle decisioni industriali varia in funzione del contributo che il loro sistema produttivo offre al complessivo sistema della produzione industriale globalizzato. Il peso delle loro decisioni invece contribuisce alla governance globale del sistema tramite iniziative decise nel sistema delle istituzioni e procedure soprannazionali che risulta in una certa misura autonomo dalle strapotenti lobby nazionali conservative. Tutti i paesi in definitiva sono costretti a rinunciare alla conservazione del loro vecchio ruolo di protagonista per negoziare di continuo il loro peso decisionale in funzione della effettiva partecipazione alla crescita del comune sistema industriale.

Un sistema che non essendo caratterizzato da ispirazioni ideologiche astratte risulta politicamente equo per ogni partecipante indipendentemente dal tipo di regime nazionale. Ogni tentativo di sottomettere quindi le istituzioni della governance soprannazionale alle decisioni politiche degli Stati Nazione ridurrebbe sia il carattere liberale del capitalismo-liberista, sia la sua intrinseca efficacia in termini globali di produttività e di redditività. Inoltre il carattere non ideologico di partecipazione al sistema industriale globalizzato consente a ogni paese di proporre i suoi contributi garantendone la compatibilità culturale nazionale e, quindi, la conservazione di stabilità del consenso politico nel corso della crescita del reddito nazionale.

L’attuale globalizzazione industriale offre alla cultura ‘provinciale’, individualista e creativa, italiana una incredibile occasione di rivitalizzare forme locali di ‘botteghe artigiane’ e ‘studi d’arte’ neo-rinascimentali che offrano i loro servizi remoti all’organizzazione del lavoro secondo fasi molto flessibili e ‘delocalizzate’; una sorta di ‘indotto’ locale di gruppi industriali remoti in cooperazioni professionali altamente dinamiche e interconnesse tramite servizi di comunicazione a valore aggiunto personalizzato alle esigenze e potenzialità del committente. Una vera innovativa ‘logistica industriale’ può nascere grazie alla diffusa partecipazione ai servizi produttivi e di manutenzione dei molti comparti dell’industria manifatturiera senza penalizzare il gruppo produttivo centrale dei costi fissi associati alla prontezza di assistenza agli utenti finali. Le soluzioni ‘usa e getta’ non sono accettabili in materia di manutenzione di impianti e sistemi complessi, l’elevato tasso di obsolescenza di quel tipo di impianti e sistemi consente di ipotizzare soluzioni di manutenzione gestite ‘localmente’ da team di specialisti assistiti da una rete di servizi telematici in grado anche di assicurare la ‘manifattura’ remota di componenti di elevata qualità senza richiedere l’onerosa disponibilità di inventari e trasporti fisici di componenti industriali. La fattibilità di una rete logistica industriale ‘virtuale’ è consentita dai progressi che dimostra l’industria delle comunicazioni e dell’edu-tainment; tri-dimensionalità, giochi-di-ruolo, etc.. La dispersione del mercato degli utenti e la disponibilità remota di maestranze addette ad erogare una vasta gamma di servizi di assistenza locale permette di evitare i massicci esodi umani verso i centri urbani che sono spesso fonte di sradicamento culturale e genesi di tensioni sociali. Trasferire servizi moderni in periferia migliora la qualità di vita locale conservandone il radicamento culturale. Ridurre la catena della logistica industriale sostituendo le vecchie esigenze di trasferimenti fisici di materiali e di addetti, consente di tagliare i costi industriali e rendere con ciò disponibili in tempi accelerati le risorse necessarie per aumentare la produzione di beni e servizi da vendere nelle più remote periferie.

La logistica industriale consentirà alla globalizzazione industriale di ottimizzare l’uso delle scarse risorse finanziarie, di ridurre i costi di produzione e distribuzione dei beni e servizi e di offrire nuove opportunità di reddito anche alle più disperse comunità; arcipelaghi, oasi, catene montane, ambienti ostili.