27/03/2010

Individualismo e associatività

Nasciamo soli, moriamo soli e percorriamo la vita alla ricerca della felicità. Una ricerca che si riassume nel soddisfare una gerarchia di bisogni che ci impongono di stabilire relazioni tramite le quali gratificare una serie di aspettative che ciascuno pone verso se stesso, verso il nucleo più intimo d’interlocutori cui vogliamo appartenere e verso l’insieme di soggetti più estranei coi quali siamo obbligati ad intrattenere relazione.

Questa scala di bisogni da soddisfare viene animata da tipi di aspettative che sottoponiamo costantemente a modifica per ciò che riguarda le priorità e i criteri di scelta tra i pesi che influiscono sulla nostra capacità di negoziare priorità nell’appagamento.

Ogni livello di relazione ci impone di scegliere il linguaggio tramite il quale formulare le nostre aspettative e segnalare la nostra disponibilità a riceverne la gratificazione in cambio dell’assunzione di comportamenti che riteniamo adeguati a conseguirne il riconoscimento.

Il linguaggio nel quale scegliamo di esprimere la nostra disponibilità alla negoziazione s’incentra sui carismi più peculiari di cui siamo dotati e che raffiniamo costantemente sul campo delle relazioni.

Anche il più asociale o il più autistico tra noi adotta strategie personalissime per raggiungere una forma di felicità che viene gratificata solo dalle peculiari relazioni che egli decide di coltivare in modo coerente verso sé stesso, verso il nucleo del “noi” e nel contesto più alieno degli “altri”.

Anche il più altruista e ascetico tra noi deve esercitare un costante esercizio di controllo su sé stesso e verso il nucleo di interlocutori con cui intrattiene le relazioni più affettivamente privilegiate.

Non possiamo dedicare le nostre energie psichiche a raffinare le relazioni verso gli altri sublimando le nostre aspirazioni alla felicità più “trascendente” le nostre esigenze più contingenti e auto-riferite fintanto che non siamo riusciti ad abbattere i confini difensivi e protettivi della nostra insicurezza intima che ci inibisce nella esternazione delle nostre attitudini comportamentali a beneficio altrui. La nostra sicurezza rende più ricche le relazioni e le conseguenti gratificazioni che ci consentono di riscontrare sempre meno netti gli originari confini tra il sé stesso, il noi e l’esclusione degli altri. La sicurezza in se stessi rende più liberi nell’espressione delle nostre attitudini e nell’intrattenere relazioni sempre più aperte dalle quali conseguono tipi sempre più vari di stimoli. Una varietà che cresce al crescere dell’accettazione nel nucleo del “noi” di profili umani che un tempo avevamo escluso tra gli “altri”.

Qualunque siano i peculiari carismi di cui riteniamo di essere dotati, cerchiamo di le nostre relazioni ai tre diversi livelli, impiegandoli nella formulazione di nostre espressioni e intelligibili per poter essere apprezzate da noi stessi in tempi e contesti diversi, dal nostro nucleo più affettivamente accettato e dall’insieme degli interlocutori più estraneo. Le motivazioni cambiano ma il linguaggio impiegato e le forme di espressione del nostro comunicare restano affettivamente legate ai carismi più personali ed auto gratificanti.

Mentre la crescita della sicurezza e della conseguente armonia psico-fisica derivano dalle relazioni e dalle gratificazioni che ciascuno di noi riesce a stabilire con se stesso (stile di vita a fronte del proprio profilo umano), la crescita della sicurezza associativa discende dalle gratificazioni che riusciamo ad ottenere dal gruppo in cui scegliamo di esporci a critica-apprezzamento. La coppia, la famiglia, il team dei compagni di scuola, il team di lavoro, l’azienda, la comunità locale, la rete di interlocutori cui riconosciamo affinità elettiva. Si tratta di una gerarchia di entità cui siamo disposti (grazie alla crescente maturazione della auto-stima) di riconoscere un grado di affettività adeguato ad esternare a critica i nostri comportamenti più originali e personali.

Le prestazioni che eroghiamo a beneficio dei comuni interessi del gruppo diventano sempre più libere dai vincoli dell’aggressività e l’assertività prevale nel travaso di nostre energie psichiche nelle relazioni sociali. Dalla originaria scelta di esprimere i nostri carismi nelle relazioni per costruire gradualmente la nostra sicurezza, l’auto-stima e il riconoscimento di appartenenza al gruppo, costruiamo il nostro profilo umano e professionale che riesce a conseguire i tipi di gratificazione che derivano dal comunicarne le ragioni e i fini (nel nostro ruolo di “maestri” in famiglia, a scuola, in azienda o sui media) o dal ricavarli sul mercato in cui si ha il coraggio di proporne le dimostrazioni pratiche che ogni professione permette grazie ai meccanismi di libero apprezzamento. 

In definitiva si può dire che ogni professione è motivata da esigenze di comunicazione delle proprie abilità per ricavarne gratificazioni che solo secondariamente sono quelle più strettamente economiche. La ricerca di status sociale non viene soddisfatta dal poter dimostrare maggiore benessere. La dimostrazione di maggiore benessere può essere la conseguenza di un livello di apprezzamento delle proprie capacità professionali che si è riuscito ad ottenere dal contesto sociale nel quale siamo riusciti a farci conoscere.

Ogni professione insomma è animata dalla ricerca di soddisfare una scala di bisogni di contenuto psichico che ispirano la ricerca di costruire un linguaggio di comunicazione adeguato a scambiare relazioni con un contesto umano di sempre crescente apertura dal se stesso nella ricerca di sicurezze sempre più solide, al noi in cui entro un ambiente affettivamente accogliente emergono aspettative di gratificazione professionale fino al loro cui vendere le nostre percezioni della vita e della professione.

Una recente presentazione accademica ha proposto la professione dell’architetto come coerente insieme di ricerca artistica di un equilibrio del “maestro costruttore” nella sua fase di auto-educazione con la sempre dinamica osservazione d’un ambiente naturale o artificiale che è mutevole in quanto cambiano la sensibilità e le aspettative di gratificazione dell’osservatore (luci-ombre, pieni-vuoti, colore/bianco-nero, linee-volumi, strutture-decorazioni, funzione-armonia, uomo-natura, protesta-proposta, sociale-privato, etc.).

La presentazione, con grande sensibilità psicologica, evidenzia la fotografia come strumento comunicativo che si colloca nella tradizione della grafica potenziandone le capacità di espressione ed esaltandone l’efficacia del linguaggio. La fotografia come mezzo capace di veicolare suggestioni più che non letture della realtà in cui l’architetto è chiamato ad esercitare il suo impegno di armonizzare le aspettative dell’uomo e la capacità di gratificazione dell’ambiente. Due entità solo apparentemente estranee ma intimamente connesse dalla sensibilità di lettura dell’armonia con cui può essere stabilita la continuità tra entità dotate di diversi gradi di mobilità, di espressione, di stabilità; la natura “inanimata” apparentemente oggettiva ma capace di stabilire la drammaticità del contesto in cui vive la natura “animata” e apparentemente dotata di maggiore soggettività. In realtà si tratta di un costante scambio di relazioni tra diversi aspetti in cui si manifesta la vita nel cosmo. Relazioni che i “viventi” hanno, nel stesso interesse della loro qualità di vita, la possibilità di affinare con una costruzione di sempre maggiore sensibilità per l’armonia della convivenza.

Un’armonia che costringe evidentemente l’architetto a costruire per primo in se stesso la sensibilità che gli permette di studiare gli insediamenti umani più adeguati ad agevolare il rispetto congiunto delle aspettative umane e delle esigenze ambientali. Un rispetto che non può trascurare la sensibilità sociale prevalente, le capacità economiche, le aspettative e lo stile di vita dell’utente. Tutti parametri inadeguati a gratificare la sensibilità del “maestro costruttore” ma che le sue “opere d’arte” possono riuscire a soddisfare ed affinare proprio grazie alla suggestione che esercita la rappresentazione “accademico-fotografica” della percezione che l’architetto ha maturato con l’osservazione dell’ambiente in cui vive con i fruitori dei suoi lavori.

In definitiva la fotografia come tutti gli strumenti di comunicazione soprattutto non verbali di cui dispone l’artista “architetto” permette a lui stesso di costruire un processo di auto-maturazione della sensibilità che non escluda l’uomo né il suo ambiente, permette nello stesso tempo ai suoi fruitori di estrarre dalla stessa fotografia letture diverse a misura delle diverse sensibilità individuali per ricavarne suggestioni capaci di provocarlo a riflessioni costruttive di maggiore sensibilità verso un’armonica convivenza con l’ambiente e gli permette infine di “fare scuola” senza plagiare né prevaricare l’autonoma dote di carismi umani e doti professionali dei suoi allievi. Come avveniva tradizionalmente nelle “botteghe artigiane” dei maggiori geni in ogni professione liberale.

Questo è l’insegnamento che la presentazione di Giorgio Stockel fornisce al di la dei suoi specifici interessi accademici, umani e professionali che possono averlo spinto a riversare in un libro le sue considerazioni di artista-architetto; il mondo accademico in tutte le sue discipline ha smarrito la componente “formativa” dei nuovi professionisti.

La componente filosofico-olista delle conoscenze di ogni comparto disciplinare è un elemento essenziale per riuscire a conservare armonia nel corso di uno sviluppo tecnologico di grande mirabilite come quello che ha ricevuto un’accelerazione iperbolica grazie alla crescita degli scambi informativi da Gutenberg in poi.

La funzione delle università è sempre stata quella di assicurare la formazione umanistica delle nuove leve di eccellenza culturale. Le maestranze possono specializzare le loro mansioni appiattendole sulle funzioni esecutive. I “maestri” devono essere messi in grado di adeguare la loro sensibilità alle esigenze della società, al potenziale delle tecnologie e alla ricettività di un ambiente naturale sempre più minacciato dall’assenza di adeguata “formazione”.

Come in architettura un Le Courvoisier è nocivo come capo-scuola rispetto agli anonimi costruttori di cattedrali, in fisica un Faraday è più fertile di progressi scientifici di quanto non siano tutti i premi Nobel assegnati a Marconi, Edison o Rubbia.

Senza una classe dirigente dotata di adeguata “formazione” umanistica le tecnologie vengono inserite in soluzioni di vasto impatto economico, umano, sociale e ambientale prive della necessaria sensibilità verso l’ambiente e quindi foriere delle reazioni lente ma drammatiche che possiamo osservare dai media a seguito di insediamenti umani privi della adeguata tutela che l’uomo ha dimostrato invece di saper strutturare in ambiti esposti a minacce naturali. Caso emblematico sono gli tsunami di oggi confrontati con i polder nei Paesi Bassi o alla magistratura delle acque che Venezia istituì (con diritto vitae ac necis) a tutela della laguna e della Serenissima.

Grazie al professor Giorgio Stockel