26/03/2010

Alternative politiche: il “mercato” oppure lo “stato”

Prosegue il tentativo di recuperare credibilità per le ideologie ispirate alla programmazione dello sviluppo aggrappandosi alle manifestazioni di disagio conseguenti del trionfo del paradigma di “libero mercato” che ha imposto a tutto il mondo di accettare la fase finale dell’estensione su base globale dei benefici prodotti dal capitalismo liberista al di la d’ogni immaginazione previsionale e capacità di resistenza da parte dei detentori delle vecchie posizioni di privilegio (gli stati Occidentali).

Ovverossia il semplice, efficientissimo, creativo e a-ideologico meccanismo del capitalismo-liberista (della costante ricerca di massimo profitto per gli investimenti delle sempre scarse risorse finanziarie disponibili) ha abbattuto ogni confine che, nel corso del progresso civile, ha caratterizzato le tappe di consolidamento e di resistenza all’ulteriore estensione della civiltà ‘Occidentale’ al di la dei paradigmi di privilegio che hanno sempre cercato di opporre altri criteri decisionali di poteri “ideologici” (nazionalismo, marxismo, fascismo, etc.) cui il capitalismo-liberista non porta rispetto se non obtorto collo per puro opportunismo.

Questo abbattimento di confini non è solo funzionale a gratificare l’intrinseca molla del meccanismo della produzione e distribuzione del benessere alla luce delle disponibilità di risorse e soluzioni tecnologiche e delle aspettative di una domanda sommersa e inespressa proveniente da un mercato sempre più ampio, esso è anche lo strumento di espansione del benessere e della sua diffusione sociale che, annullando le resistenze dei regimi precedenti, costringe anche le istituzioni politiche ad adeguarsi alle esigenze di una società più vasta e caratterizzata da più grandi diversità sulla quale risulta sempre meno possibile imporre criteri selettivi che non siano funzionali alle pure capacità dei singoli individui di scambiare le proprie abilità professionali su un “mercato” che risulta quindi sempre più “libero” da pregiudizi di razza, religione, lingua, cultura, genere ed apparenza. Anche le istituzioni politiche quindi devono adeguarsi, trainate dall’imprevedibile, “selvaggio” prepotere del capitalismo-liberista, a gestire le loro competenze di governance-liberale su uno scenario geo-politico sempre meno propizio a tutelare posizioni di privilegio parassitario.

L’abbattimento dei confini perciò coincide con la graduale estensione globale della liberal-democrazia.

Detto ciò, è naturale che i detentori delle vecchie posizioni parassitarie in tutti gli Stati Nazione cerchino di difenderle, difenderle, difenderle terrorizzati dalla perdita annunciata del loro ruolo egemone su scenari che la globalizzazione sta cancellando con grande velocità.

La difesa delle posizioni (tutte sempre meno utili e quindi sempre più “parassitarie”) politiche interne agli Stati Nazione (sindacati, corporazioni, poteri-istituzionali) debbono arroccarsi dietro il paradigma (obsoleto, fallimentare ed abusato) della programmazione dello sviluppo industriale e dell’associata programmazione dei redditi. Entrambe programmazioni che hanno un senso solo creando argini difensivi all’avvento della globalizzazione che viene quindi sempre stigmatizzata per gli aspetti di disagio “locale” e ignorata per tutti i benefici di cui anche la società “locale” fruisce grazie alla globalizzazione. Sono posizioni politiche quindi di grande parzialità e sterilità per l’incapacità e l’indisponibilità di strumenti che possano agire contro un progresso economico che crea aspettative non più irreggimentabili dalle obsolescenti istituzioni nazionali stesse. È una lotta che abbina in modo reciprocamente delegittimante le ali estreme dei vecchi scenari politici i nazionalismi fascisti, i protezionismi industriali, i sindacalismi internazionalisti e perfino le dottrine sociali più solidariste.

Questi protagonisti nazionali sempre meno connessi con le ragioni del nuovo contesto geopolitico globale si sforzano di recuperare credibilità al paradigma della programmazione centrale dello sviluppo industriale.

Sembra utile a questa rubrica indicare poche considerazioni in merito alla legittimità liberal-democratica di questo tentativo. Abbiamo già illustrato infatti le ragioni della sua sterilità nei precedenti paragrafi.

L’irruenza irrefrenabile con cui si manifesta il progresso industriale (che traina con sé il progresso civile sia sul piano del benessere che su quello delle libertà individuali e istituzionali) risiede da sempre nella creatività dei singoli capace di immaginare sempre nuove soluzioni tecnologiche capaci di soddisfare aspettative che i consumatori non riescono ancora a gratificare.

La molla risiede quindi nell’invenzione del nuovo che non può essere “programmata” centralmente perché nessun sinedrio accademico riesce a produrre le scintille dell’innovazione. I sinedri ragionano nell’ortodossia di ieri e irridono la presupponenza arrogante dei “maverick”, spesso incolti e self-made.

Il successivo meccanismo che contribuisce a creare il “progresso industriale” è l’altrettanto individualista apporto dell’imprenditore (il capitalista) che, a suo rischio personale, investe risorse per industrializzare le innovazioni tecnologiche e ricavarne profitti grazie alla vendita su un mercato libero. Il mercato delle innovazioni è libero per definizione proprio in quanto non può essere “programmato centralmente” come le innovazioni che distribuisce. Spesso infatti il “libero mercato” è costretto dalla programmazione industriale dei sinedri ad assumere il carattere di marginalità o di illegalità (mercato nero, contrabbando, etc.).

Finalmente, qualora l’imprenditore abbia scelto di lucrare scegliendo la soluzione tecnologica più appetita dai consumatori e più competitiva con analoghe offerte, il mercato dei consumatori (legale, marginale o illegale che esso sia) impone al sinedrio responsabile della “programmazione centrale” di prendere atto della novità e di adeguare i suoi comportamenti formali alla nuova realtà.

Non c’è bisogno di esaminare il processo speculare a partire dal sinedrio che legittima il paradigma della programmazione centrale dello sviluppo industriale e civile per comprendere quale dei due paradigmi sia il più liberal-democratico e quale il più autoritario. Il loro rapporto di efficienza e inefficienza produttiva è già descritto dal modo in cui la Storia procede nel corso dei secoli affermando questa nostra egemone civiltà ‘Occidentale’.