26/03/2008

 

La guerra in Iraq: vittoria politica dell’Occidente

L’attuale conflitto in Iraq è stato ormai vinto dagli USA anche se la stampa della sinistra radical-chic rifiuta questo ‘fatto’. Mai si è vista una guerra con così pochi caduti sul campo: 4000 in 5 anni. Mai si sono viste così forti accelerazioni di espansione su piano geo-politico delle finalità che ne avevano costituito le ragioni politiche. La guerra si è dimostrata di nuovo un efficace strumento della politica e non un’estensione della politica con altri mezzi come affermato in periodi pre-terroristici globali. L’intero continente asiatico è ormai coinvolto in cambiamenti politici non guerreggiati provocati da quell’iniziale e limitato intervento armato. Il Pakistan sta velocemente organizzando la propria crescita democratica, la Corea del Nord è costretta a modificare il proprio regime, la Cina comunista è entrata in grandi difficoltà di fronte alla pressione delle domande di cambiamento interne e internazionali e i Paesi arabi stanno dividendosi tra quelli che cercano un cambiamento delle proprie istituzioni coerente con le esigenze di ‘libera religione in libero stato’ (sulla traccia delle esperienze di Paesi musulmani ma di cultura non semita come la Turchia) e quelli invece ‘arroccati’ sulla ‘sharia’, una visione integralista delle proprie istituzioni (chi spalleggia il terrorismo anti-occidentale prima che non anti-Israele – Siria, Iran, Sudan). Tra questi ultimi Paesi integralisti pro-terrorismo si sono accelerate inoltre forti fratture che hanno portato ad accogliere le istanze della convivenza internazionale col mondo moderno (la Libia ne è un esempio emblematico). Tanto successo ha conseguito la vittoria sul campo da trascinare gli iracheni sia sunniti che sciiti a stipulare accordi sempre più solidi tra loro e con le altre minoranze del Paese tali da avviare una affermazione dei nuovi principi democratici ‘manu militari’ (la guerra) anche all’interno del Paese come è attualità di questi giorni. Tanto successo ha avuto quella guerra locale ormai vinta nelle sue ripercussioni globali da sconvolgere su base mondiale interessi finanziari e connesse relazioni politiche dall’estremo oriente fino all’America Latina. Chavez cerca di stabilire nuovi legami con Paesi ‘destabilizzati’ tra i produttori di petrolio (Iran) ma si deve avvalere di basarli sulla linea di demarcazione tra filo-terroristi e anti-Israeliani o liberal-democratici e filo-occidentali. Anche in questo campo della rivoluzione geo-politica che è stata avviata dall’iniziativa politica della guerra locale in Iraq si può osservare il formarsi rapido e solido di un ‘nuovo ordine mondiale’ distinto con chiarezza tra ‘intolleranza integralista e terroristica’ e ‘liberalismo istituzionale e industriale’. Anche qui il ‘concetto’ di Occidentale appare chiaro e vincente a chi non sia animato da preconcetti ideologici tanto masochisti quanto scarsamente ‘scientifici’. La realtà oggettuale è sotto i nostri occhi di cittadini comuni le ubbie ideologiche deformano invece le analisi prospettiche suggeriteci dalle ‘menti sottili’. Come ultima annotazione posso citare un fatto che mi sembra spesso sia trascurato anche nei suoi risvolti più ‘locali’ e pragmatici. Il ‘terrorismo’ di stato si manifesta sempre con il sostegno di un uso criminale o quantomeno illiberale di fondi finanziari provenienti dalla gestione in modo monopolista-monocratico di materie prime altrove irreperibili (petrolio) o illegali (coca e oppio). Tale terrorismo per sostenersi ha da un lato assoluto bisogno di distribuire e vendere nell’Occidente liberal-democratico (in cui i consumi di droga sono addirittura legittimati e i consumi di energia sono fondamentali) e d’altro lato deve investire e riciclare nello stesso Occidente le risorse finanziarie raccolte vendendo in Occidente le produzioni di quelle sue ‘commodities’. Per distribuire le commodities dai Paesi anti-occidentali ai Paesi trasformatori e consumatori occorre disporre di canali illegali. Altrettanto illegali sono i canali necessari per raccogliere le risorse finanziarie provenienti dalle vendite e per riciclarle convogliandole nel sistema dei servizi finanziari occidentali. Questi due canali illegali sono denominati benché in modo storicamente improprio ‘mafia’, un’istituzione criminale pienamente occidentale (il ‘mercato nero’, che è illegale anche se la domanda che lo sostiene ne ‘legittima’ l’esistenza agli occhi dei consumatori) che è stata fino alla guerra in Iraq il canale ‘illegale’ ma accettato anche dal capitalismo occidentale. Non a caso, dalla vittoria sul campo della guerra in Iraq, quei canali sono diventati in prospettiva di intralcio ai flussi finanziari globali che potranno evitare, per alimentare lo sviluppo dell’economia globale in modo più efficiente, di pagare gli onerosi ‘mark up’ imposti dai ‘servizi mafiosi’ su quel bene scarso ed appetito globalmente che è la risorsa finanziaria. Non è quindi un caso se possiamo riscontrare dalla cronaca quotidiana un ‘fatto’ apparentemente indipendente dal successo della guerra locale in Iraq: le vittorie conseguite dalle forze di polizia su base internazionale nella ‘lotta alla mafia’. Non sono state improvvise migliorie organizzative, tecnologiche o professionali dei quadri di polizia a condurre alla repentina serie di vittorie sul campo contro la criminalità organizzata, bensì lo spostarsi ‘intelligente’ degli interessi finanziari legati ai traffici criminali e illegali ad interrompere il loro finanziamento alle loro lobby politiche sempre efficienti in ogni Paese (da Petrosino pover’anima a Dalla Chiesa e Falcone) infatti anche in Italia, in aree politiche ove era necessario il sostegno ‘mafioso’ osserviamo a un forte calo di attenzione nei confronti di quel tipo di fiancheggiamento e scambio di favori.

Costituzione ‘avanzata’ o ‘risibile’?

Mi trovo spesso da cittadino comune in contrasto con molti specialisti in materia costituzionale. Quelle ‘menti sottili’ pretendono di convincermi infatti con l’adozione di un sofisticato gergo e con elaborate considerazioni ‘tecnico-giuridiche’ sul carattere ‘avanzato’ e positivo della nostra carta costituzionale rispetto ad altre ‘meno avanzate’ vigenti in Occidente. Le mie considerazioni contrarie invece si basano sul qualunquistico ‘buon senso’ che anima ogni cittadino ‘soggetto’ alla costituzione e che ne può apprezzare il grado di adeguatezza dai risultati pratici che essa manifesta riferiti alle sue esigenze di vita da non-specialista. In questo senso affermare che la costituzione repubblicana sia tra le ‘più avanzate’ in Occidente è semplicemente ridicolo e contribuisce ad allargare la diffidenza esistente tra cittadini e Stato, oltre a consolidare il sospetto che esista una connivenza perversa di interessi tra la ‘casta’ dei politici e le ‘menti sottili’ di specialisti che accettano di essere ‘organici’ con quegli interessi. Infatti credo di poter dividere le mie convinte critiche alle due parti distinte della nostra costituzione repubblicana. L’inadeguatezza della prima parte risiede solo nella sua astrattezza e banalità ideologica. Dall’essere ‘fondata sul lavoro’ (come se non fosse ‘lavoro’ anche quello nero, speculativo in borsa valori e perfino quello di attività para-criminali come contrabbando, gioco d’azzardo e imprenditoria in materie tecnologicamente innovative ma almeno inizialmente ‘illegali’ come le TV-libere), al ‘rifiuto della guerra’ (come se questa non sia solamente una delle fase delle relazioni politiche internazionali che in piena reciproca continuità consentono di prevenire eventi più catastrofici di quanto non possa essere un conflitto armato ma capace di disinnescarne altri più temuti – vedi le costanti capitolazioni fino a Monaco al tempo di Hitler). Le affermazioni di principio inoltre risultano ‘decodificabili’ in modi assolutamente equivoci se poste alla luce di visioni incompatibili della convivenza civile – la laicista-socialista e la religiosa-liberista con tutte le varianti interne del caso. La seconda parte poi cura la meccanica istituzionale e potrebbe quindi essere valutabile in modo molto concreto anche ai non-specialisti in ‘scienza costituzionale’. Sotto quest’aspetto la costituzione repubblicana ha dimostrato la sua assoluta inadeguatezza lungo tutto l’arco del periodo storico che ha ispirato le ‘menti sottili’ delle due parti ideologicamente incompatibili che hanno concorso alla sua stesura: fronte popolare e liberal-cattolici. Alla caduta del muro a Berlino la costituzione mai era stata tradotta in pratica. Dalla lenta e mai decollata ‘istituzione’ del CNEL (un mero ‘parcheggio’ per la ‘casta’), al mancato riconoscimento di personalità giuridica a partiti (i ‘padroni’ della politica concreta) e sindacati (i ‘padroni’ dei diritti dei lavoratori in spirito illiberale e di ‘arco costituzionale’), al ‘monopolio’ dell’IRI (altro mix tra ‘economia pianifica’ e parcheggio di ‘manager di casta’) tutto ha concorso alo sfascio della nostra economia fino alla sconfitta della RAI fino al consolidarsi extra-costituzionale delle TV libere (vedi l’attuale ‘conflitto di interessi’ – un elemento che dovrebbe essere stato previsto in una carta costituzionale nata in piena era di sviluppo industriale post-bellico). A questi (e altri fallimenti-inadempienze – come quella delle norme ‘transitorie’ ridicolmente sopravvissute per oltre mezzo secolo) si aggiunge la ‘obsolescenza’ graduale (ma giustificabile alla luce della turbolenza dello sviluppo del Paese e del contesto) che ne richiede ormai la totale sostituzione (tra cui il ‘federalismo’ che è contestato dalle ‘menti sottili’ in quanto non si tratterebbe di ‘federalismo’ bensì di ‘decentramento’, ‘regionalismo’ o ‘confederalismo’ eludendo le aspettative nutrite ormai da ogni cittadino in materia di autonomia impositiva e di tutela degli interessi delle economie locali nell’era della ‘devoluzione’ di competenze – verso l’UE da un lato e verso gli ‘enti locali’ dall’altro). Naturalmente viene proclamato il ‘successo’ della nostra costituzione repubblicana in quanto avrebbe impedito che si istituisse un ‘regime totalitario’. Un fatto che però il nuovo contesto politico internazionale avrebbe impedito mentre certamente ha impedito che il Paese beneficiasse di un ‘esecutivo’ stabile e forte altamente necessario per indirizzare le ‘politiche nazionali’ a tutela degli interessi quantomeno industriali (quelli che possono dare sostegno a qualsiasi politica) in epoca di ricostruzione, di nascita dell’UE e di globalizzazione. Il risultato è l’attuale situazione carente di credibilità politica e di scarsa competitività sul piano internazionale. Evviva la costituzione ‘più avanzata’ d’Europa, speriamo che la prossima sia meno ‘avanzata’ e più concretamente utile agli interessi reali del Paese.

Problemi e soluzioni ‘semplici’ nella globalizzazione

I problemi se sono realmente compresi sono semplici nella loro descrizione, sono le soluzioni a poter essere semplici o complesse a seconda del contesto in cui vengono collocate e delle rigidità strutturali e culturali con le quali le si vogliono affrontare. Soprattutto in epoche caratterizzate da ‘cambiamenti’ esogeni massicci e da turbolenza del contesto geo-politico come quella attuale e in modo particolare per Paesi obbligati a riconfigurare il proprio ruolo nazionale nel contesto della globalizzazione forzata dell’economia, i problemi debbono essere descritti nella loro semplicità rifiutando qualsiasi rigidità di formulazioni ‘politically correct’ e debbono essere affrontati con ‘spirito leggero’ pur di collocarli con coraggio nella prospettiva più favorevole alla loro soluzione. Le soluzioni proponibili possono risultare facili o complesse in funzione della rigidità culturale ed organizzativa con le quali le si affrontano e si gestiscono. Le rigidità possono derivare da reali carenze di flessibilità e adattabilità dei comportamenti del corpo sociale. Cosa inesistente in Paesi che, come l’Italia, hanno dimostrato di saper affrontare con coraggio ed accettazione i molti cambiamenti interni dell’economia post-bellica che hanno mutato la struttura dei comparti produttivi e i loro apporti relativi alla produzione del reddito nazionale (da 70% rurale al 70% industriale-terziarizzato) e, anche in precedenza (nel corso di una lunga epoca di lento sviluppo industriale) ha dimostrato un coraggio e intraprendenza con l’accettazione di massicce fasi di emigrazione che hanno visto gli italiani assumere immediati ruoli di protagonisti nei Paesi scelti. Più spesso le rigidità e le resistenze all’adattamento derivano invece da vincoli imposti dalle tradizionali (e vecchie) strutture secondo le quali si struttura il ‘potere decisionale’ nel Paese in tutti i suoi più diversi comparti. Si tratta delle ‘istituzioni’ (statali o private) che raccolgono le istanze sociali, amministrative e produttive in crescente grado di ‘obsolescenza’ e che quindi mentre un tempo erano ‘legittimate’ dal loro valore aggiunto alla produzione di reddito risultano di tendenziale crescente ‘inutilità’ rispetto alle nuove esigenze e aspettative che le rende ‘parassitarie’, benché ancora ‘legali’, rispetto alle ‘legittime’ nuove esigenze del Paese. È lo scollamento tra ‘Paese Legale’ e Paese Reale’ a creare quelle ‘resistenze’ al cambiamento frapposte dalle vecchie lobby che impediscono la conversione degli assetti produttivi su schemi più redditizi a varare le soluzioni più semplici ed efficaci. Ciò obbliga il Paese approcci meno convenienti per tutelare i legittimi interessi ‘conservando’ assetti istituzionali incompatibili con le esigenze del cambiamento. Appesantendo le possibilità dello sviluppo con costi parassitari e difficoltà aggiuntive rispetto a quanto sarebbe necessario per cogliere le nuove opportunità di crescita qualora le si affrontassero con maggiore libertà e coraggio. Statisti del calibro di De Gasperi, Einaudi e Mattei in Italia nell’immediato dopoguerra seppero farsi carico di proposte semplici e capaci di decollare grazie alle sole risorse autonome nazionali con l’apporto di risorse estere sempre disponibili ad investire in intraprese caratterizzate dalla crescita di redditività. La carica di ottimismo intrinseca alle proposte semplici ma coerenti con le aspettative sociali e con le prospettive del mercato sono in grado sempre di assicurare il successo a tali scelte coraggiose. Le energie psichiche a tutti i livelli che tali scelte sanno mobilitare costituiscono il ‘valore aggiunto’ del Paese al successo delle soluzioni attivate. Il ‘sogno’ si traduce in ‘realtà fattuale’ senza richiedere guida e programmazione da parte dello stato che è sempre inadeguato a sostenere le esigenze del ‘domani’ coi suoi ‘servizi’ a-misura della realtà di ieri. È come le guerre che vedono sempre eserciti addestrati agli scontri sulla base di dottrine vecchie e che vengono quindi sconfitti spesso grazie a innovazioni geniali e semplici che disorientano i rigidi schemi coi nuovi apporti di efficacia, efficienza e flessibilità operativa. Politici ‘pessimisti’ del calibro di Moro sono destinati a essere sconfitti non tanto dai loro interlocutori tradizionali verso i quali sanno gestire con maggiore abilità e intelligenza le negoziazioni ma dalla storia che è destinata a ‘sorprenderli’ con i suoi inattesi sviluppi tecnologici o politici nello scenario più ampio di quanto essi non possano sperare di esercitare controllo. È per questo che statisti anche apparentemente ‘sempliciotti’ come la Thatcher (contro il sindacato dei minatori) o Blair (con l’accettazione delle politiche di mercato) nel Regno Unito, Schroeder (con la svolta di Bad Godesberg) in Germania o Reagan (col licenziamento in tronco dei controllori del traffico aereo e con l’iniziativa strategica – guerre spaziali) negli USA hanno saputo prendere semplici iniziative politiche che sono risultate fertili di conseguenze nazionali ed estere ben al di là del pianificabile.