25/06/2010

Morte del Rinascimento: la tragedia dell’architetto

La fine dell’era degli Stati Nazione è stata dettata dal graduale avvento della attuale globalizzazione industriale che, come ogni fase che ha caratterizzato il costante progresso civile della civiltà ‘Occidentale’, ha travolto ogni vecchio confine geopolitico che limitava il potenziale ormai maturo di crescita della ricchezza. Un potenziale che l’applicazione delle scoperte scientifiche offre ai capitalisti dell’epoca fornendo loro nuove conoscenze tecnologico-organizzative che consentono di soddisfare l’avidità che li muove pur di saperne fare un uso prudente e competitivo con gli altri soggetti di diverse provenienze ‘nazionali’ che invadono il nuovo scenario in cui si svolge il gioco della produzione-consumo-risparmio-consenso.

È proprio grazie a questa stretta relazione di ruoli che ispira le scelte individuali di protagonisti, caratteristi, generici, figuranti e spettatori nel mercato geopolitico a imporre l’egemonia del progresso industriale su ogni precedente difesa di privilegi che pateticamente ogni elite di governo cerca di difendere per un ‘naturale’ comportamento di conservazione del proprio status contro l’altrettanto ‘naturale’ comportamento di avida crescita del proprio status che anima invece le elite emergenti. Si tratta di un gioco che inevitabilmente viene gestito dalle elite che possiedono le risorse umane, materiali e intellettuali per agire ma che inevitabilmente impegna quelle elite a raccogliere sul nuovo scenario il consenso umano necessario per stabilirvi i criteri della nuova governance lungo la fase di transizione dal contesto geopolitico ormai obsoleto a quello non ancora stabilizzato le cui regole devono essere ‘negoziate’ tra le elite sulla base della loro reciproca credibilità e peso gerarchico. Senza stabilità le nuove opportunità di crescita industriale risultano incerte e precarie non in grado di assorbire nel gioco del progresso civile i protagonisti di schiera inferiore alle elite più audaci che ne hanno inaugurato l’estensione. Le risorse disponibili per estendere i nuovi confini geopolitici ad includere produttori-consumatori-risparmiatori di seconda e terza schiera provengono proprio da queste schiere più prudenti in quanto meno garantite e animate quindi da un grado di avidità più compensato ma non minore di migliorare il proprio status personale. È evidente che la regina Isabella di Castiglia non avesse remore ad ‘investire’ nell’avventura di Cristoforo Colombo le tre risorse come capitale di rischio alla luce del potenziale enorme di crescita del proprio status mondiale. È altrettanto evidente che Cristoforo Colombo stesse invece ‘investendo’ nella stessa intrapresa ogni sua risorsa spinto dalla sola avidità ed arroganza intellettuale che lo spinse a inaugurare l’era coloniale e delle compagnie mercantili che ha caratterizzato il consolidamento della civiltà ‘Occidentale’ su uno scenario geopolitico globale nell’era degli Stati Nazione. In analogia quella fase di estensione dei benefici della civiltà industriale (‘Occidentale’) è stata consolidata da un lungo periodo di lotte tra protagonisti industriali sostenuti dai rispettivi Stati Nazione e dalle relative elite di governo. Fu il libero mercato di scambio dei beni estratti e prodotti a consentire la negoziazione di un sistema quasi stabile di governance globale nel cui ambito ogni Stato Nazione potette manifestare la propria crescita di benessere e di competitività industriale per modificare la propria collocazione rispetto alla precedente gerarchia di status politico. Il Regno Unito crebbe, la Spagna, il Portogallo e la Francia soccombettero mentre Paesi Bassi, Belgio Danimarca e Svizzera seppero conservare una propria posizione di potenze secondarie ma preziose per dare una governance condivisa al mercato comune nel nuovo contesto geopolitico.

Ciò avviene ad ogni fase di estensione del progresso civile e del benessere industriale ‘contro’ i vecchi regimi politici egoisti ed egemoni. È un processo che, abbattendo i vecchi privilegi, riceve maggiori dosi di consenso politico presso le popolazioni escluse dal gioco o ridottevi a puri figuranti. Le nuove fasce di partecipanti al gioco riescono a soddisfare meglio dosi delle proprie aspirazioni inappagate dando la loro adesione all’offerta di lavoro esistente sul nuovo e più ricco mercato permesso dal nuovo e più esteso mercato produttivo. Ogni tipo di professionalità riceve migliori e maggiori opportunità e riesce a ricavarsi spazi e ruoli di vario tipo di gratificazione; economica, intellettuale, artistica, scientifica, spirituale. Si tratta di scegliere tra le offerte esistenti quella opportunità più congeniale a gratificare le proprie aspirazioni individuali che ci muovono ad intraprendere spinti dalle diversissime forme in cui si estrinseca l’avidità individuale. Quella spinta ad agire deve essere contemperata con le altrui spinte di egoismo e avidità sostenute da diversi gradi posseduti di status sociale, economico e corporativo. Ciò colpisce tutte le professionalità in ogni epoca e ‘nihil sub sole novi’ i committenti sono le oligarchie che conducono in egemonia il governo della transizione. Oligarchie prudenti riescono a negoziarsi spazi di sopravvivenza e di diverso peso e ruolo politico negli assetti della nuova governance, oligarchie meno prudenti soccombono al progresso della civiltà industriale senza poter partecipare alla gestione del nuovo mondo.

Insomma sono le oligarchie a disporre sempre del peso politico in via di obsolescenza e di poterne negoziare coi nuovi protagonisti emergenti la redistribuzione fondata sul bilanciamento dei benefici che deriverebbero dalle diverse ripartizioni di nuovo peso politico. È ciò che è sintetizzato da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e che si ripete in ogni epoca in cui occorre ricomporre una governance più vasta dopo una ‘catastrofe locale’ degli assetti politici precedenti; leggere la tesi di laurea di Kissinger ‘Diplomazia della Restaurazione’.

Durante i periodi di quasi stabilità il sistema sociale in costante criticità auto-regolantesi riesce a lasciare che l’investimento delle risorse prodotte dal sistema industriale si concentrino, invece che sulla negoziazione dei nuovi assetti della governance, su iniziative d’innovazione intellettuale (artistica, urbanistica, scientifica, etc.). Sono sempre le elite oligarchiche ad avere disponibilità di risorse ridondanti le strette necessità primarie e poterne dirottare ‘ad libitum’ e secondo la gerarchia del loro benessere porzioni sullo sviluppo di quei settori di loro strettissima individuale preferenza.

Questo processo ha creato le realtà strutturali e tecnologiche in ogni epoca dando a ciascuna di esse una forma dettata dalle esigenze delle elite egemoni a tutelare la stabilità del sistema produttivo in cui esse erano le responsabili oligarchie. La forma quindi è sempre stata dettata dall’esigenza di conservare la stabilità in un contesto geopolitico i cui confini erano soddisfacenti per conservare il consenso politico interno. Con l’avvento di nuove soluzioni tecnologiche (sollecitate dal progresso delle scienze e dell’arte promosso dalle stesse oligarchie per proprio appagamento intellettuale nelle fasi di stabilità politica) il potenziale produttivo trascendeva gradualmente i confini geopolitici precedenti e l’insofferenza dei produttori nei confronti dei limiti imposti politicamente dalle oligarchie ‘proprietarie’ spingeva a sollecitarne l’attenzione nei confronti di ulteriori mercati promettenti di maggiore benessere e potere pur di trascendere la legittimità della vecchia governance geopolitica.

È la tecnologia industriale ad abbattere i confini delle oligarchie di governo convincendole a cavalcare il potenziale l’innovativo, sostituendole con fasce di protagonisti emergenti all’interno del sistema politico o ignorandone le resistenze in connivenza con protagonisti esteri meno conservatori o reazionari nei confronti della esigenza di negoziare nuovi assetti di stabilità per la governance globale.

L’abbattimento dei confini egoistici dei privilegi passati conduce sempre a maggiore livello di benessere economico e a maggiore redistribuzione del benessere prodotto per catturare il consenso politico di fasce sempre più vaste dei partecipanti al processo globale di produzione-consumo-risparmio. Ciò conduce in modo inevitabile la civiltà industriale ad estendere in modo graduale ma crescente i diritti civili a fasce di figuranti che in precedenza non contribuivano alla produzione della ricchezza ed erano escluse dal fruire di diritti riservati solo ai partecipanti al sistema istituzionale garante della stabilità necessaria a quello industriale. Le istituzioni cioè si democratizzavano come conseguenza della crescita del potenziale tecnologico che a sua volta imponeva di estendere i benefici a fasce di derelitti esclusi dalla precedente governace. I diritti politici sono sempre stati consustanziali con le esigenze della stabilità politica. Questa è la lezione della civiltà ‘Occidentale’ rispetto a ogni altro paradigma inventato dall’uomo; il libero mercato e la tecnologia industriale privi di confini ideologici riescono a utilizzare la somma degli egoismi per costringerli ad accettare assetti in cui le libertà sono sempre più estese e ricche di contenuti. In breve le istituzioni della liberal-democrazia sono frutto del capitalismo-liberale che può arricchire i partecipanti al processo solo se vengono abbattuti i confini ‘intellettuali’ dei privilegi acquisiti. Ne è lezione attuale la pretesa di conservare in Italia i privilegi del posto fisso e dello statuto dei lavoratori negando lo sviluppo del benessere congiunto di paesi in via di industrializzazione e di quelli in cui le produzioni manpower-intensive risultano non più competitive (e quindi non contribuiscono ad aumentare la ricchezza complessiva prodotta ma anzi ne riducono il potenziale di sviluppo sottraendo risorse allogabili in modo più redditizio, efficiente e solidale.

Così come la tecnologia industriale crea l’avanzamento del progresso civile estendendo le istituzioni liberal-democratiche a beneficio di popolazioni sempre più vaste al di la dei patetici confini protettivi che le oligarchie erigono a difesa dei loro privilegi, la stessa tecnologia industriale forgia le tecnostrutture organizzative e normative che legalizzano l’avvento di nuove governance più aperte all’apporto di idee e creatività che esaltano il ritmo della crescita delle conoscenze scientifiche e la loro applicazione pratica in economia. Per agevolare queste esigenze del sistema industriale la tecnologia ha innovato in modo costante le strutture abitative, urbanistiche e le reti di comunicazione dei beni materiali, di quelli immateriali e delle informazioni. Questo compito è stato da sempre delegato dalle oligarchie agli architetti sia in tempo di pace sia in periodi bellici di espansione sui mercati esteri. L’urbanesimo ha trasformato gli insediamenti umani dell’alto medioevo in cui le conoscenze si erano ritirate in strutture fortificate attorno a ristrette minoranze armate e organizzate in coalizioni (castelli, repubbliche marinare, conventi, etc.) per conservare le scarse risorse dal crollo dell’Impero Romano fino al mille. Dal mille alla scoperta dell’America gli Stati Nazione hanno organizzato i propri sistemi produttivi industriali entro confini geopolitici adeguati alle capacità delle tecnologie produttive del tempo e l’urbanesimo agevolò la concentrazione delle conoscenze finalizzate alle applicazioni artigianali e agli scambi via mare. Il Rinascimento condusse quella forma di urbanizzazione al suo massimo livello di ricchezza industriale legittimata dall’ancien régime fondato su economie industriali autarchiche o coloniali capaci di alimentare cerchie oligarchiche molto ristrette d’un capitalismo latifondista in cui le tecnologie erano incentrate sulla supremazia militare e sul benessere delle elite. Il progetto dei centri urbani e delle residenze estive era affidato a architetti interessati a gratificare l’immagine dei committenti più che la funzionalità delle loro occupazioni. La ridondanza di spazi e decorazioni era una delle aspettative del committente e la qualità di vita dei sottoposti all’assistenza degli aristocratici proprietari dei palazzi-castello in città o nel contado non era un elemento di interesse per la progettazione di residenze e interni. Gli artisti erano chiamati a decorare palazzi capaci di proiettare il peso gerarchico del proprietario. Gli architetti erano chiamati a curare l’immagine dei committenti e assicurare una vita gradevole e sicura alle loro famiglie. Il carattere artigianale dell’industria manifatturiera suggeriva di organizzare la residenza stabile di maestranze necessarie per garantire servizio all’oligarca e alla sua famiglia estesa nelle esigenze di una vita confortevole e per garantirne la sicurezza contro le minacce occasionali e nelle azioni programmate.

Fino all’epoca della scoperta dell’America il territorio restò organizzato sulla base di centri autonomi sia per la sussistenza in pace che per la difesa in guerra. Città-stato guidate da un principe e coalizzato con altri di pari interesse economico con cui fosse agevole la comunicazione e gli scambi di mutuo interesse. La crescita degli Stati Nazione e degli scambi commerciali condusse alla nascita di un’industria manifatturiera capace di volumi di produzione adeguati a soddisfare la domanda di altri oligarchi in altri Stati Nazione sia per ciò che concerneva la qualità di vita in pace sia per sostenerne le esigenze della sicurezza in impegni bellici. I tessili, i carpentieri, i costruttori edili, i costruttori di armi, i commercianti crebbero in giro d’affari e le loro ricchezze costituirono una fonte di finanziamento per lo sviluppo territoriale degli Stati Nazione. I banchieri nacquero erogando risorse finanziarie agli oligarchi impegnati a vincere guerre di occupazione coloniale per assicurare al proprio Stato Nazione spazi vitali necessari per l’egemonia del sistema industriale e per la sicurezza degli scambi commerciali nazionali. I commercianti e gli industriali erano i detentori di un credito che mancava invece alle oligarchie latifondiste fondate sull’economia agraria coi suoi cicli e la sua limitata produttività. Le compagnie mercantili si affiancarono alle vecchie oligarchie imponendo nuovi criteri di governance fondati sulla competitività del sistema economico nazionale. Il protezionismo mercantile e il sostegno al commercio avviarono un’urbanistica e architettura incentrate sulle esigenze delle oligarchie industriali. Gli architetti e gli urbanisti vennero impegnati a rendere sicuri ed efficienti gli impianti che avevano finalità produttive. Il funzionalismo industriale prese gradualmente corpo pur ancora gestito dalle oligarchie industriali che scimmiottavano le elite del passato ancien régime e gli associati gusti artistici di un passato-remoto “rinascimentale”.

La sensibilità artistica e umanistica degli architetti ed urbanisti al servizio delle oligarchie che li assoldano è sempre anticipatrice di soluzioni funzionali che sempre più tengono in considerazione la qualità di vita e la razionalità delle aspettative (magari “sommerse”) dei produttori-consumatori-risparmiatori coinvolti.

Giunti a quella fase di industrializzazione della civiltà ‘Occidentale’ le popolazioni coinvolte nei processi economici hanno costruito una dimensione soprannazionale degli interessi economici cui sono connesse le aspettative sempre più diffuse di reddito. Le oligarchie eredi dell’ancien régime hanno gradualmente mutato i criteri delle loro decisioni industriali. I confini degli Stati Nazione che avevano fino ad allora legittimato le politiche nazionali sono diventati sempre più sterili sul piano della crescita del benessere e sempre più invisi per il loro carattere di conservazione di privilegi delle oligarchie corporative e istituzionali dei vari paesi.

La tecnologia suggeriva soluzioni industriali sempre meno difendibili con le obsolete barriere protezioniste nazionali e le oligarchie in fieri iniziarono a stabilire relazioni soprannazionali per sollecitare i vecchi vincoli a investimenti che potevano soddisfare bacini geopolitici e coinvolgere popolazioni sempre più vaste.

Le giovani generazioni sono sempre meno ancorate a parametri affettivi nelle loro scelte di residenza e di vita professionale e la mobilità sul territorio travalica ogni limite posto da stati che hanno sempre minore disponibilità di mezzi per imporre politiche economiche ‘nazionaliste’. Le vecchie oligarchie istituzionali si devono ricavare nuovi ruoli o devono soccombere di fronte al travolgente consenso soprannazionale dello sviluppo industriale sempre più ‘globalizzato’.

Il graduale e inesorabile coinvolgimento di grandi masse di produttori-consumatori-risparmiatori nei nuovi processi industriali costringe le oligarchie a tenere sempre più in conto le loro diffuse aspettative che, in quanto soprannazionali, sono sempre meno connesse ai vecchi paradigmi ‘ideologici’ che hanno legittimato le istituzioni dei vecchi Stati Nazione (nazionalismi, razzismi, colonialismi, mercantilismi, etc.). L’esigenza delle nuove oligarchie di trovare nuova legittimazione per le scelte di propria convenienza senza intralciare l’avvento della ‘globalizzazione’ ha condotto gradualmente ad aderire alla costruzione di una governance soprannazionale caratterizzata da criteri di reciproca soddisfazione per le popolazioni ‘locali’, per quelle di maggiore mobilità transnazionale e per le oligarchie politiche in grado di garantire la necessaria stabilità ai nuovi assetti industriali e finanziari.

Questa fase è stata provocata dall’esplosione nell’ottocento dell’industria grazie alla disponibilità delle nuove fonti di energia che hanno liberato la civiltà ‘Occidentale’ dai limiti della precedente fase agraria e mercantile per sviluppare un assetto che ha gradualmente liberato masse enormi di derelitti e diseredati privi di voce e di diritti sociali. Ciò ha condotto a liberare l’uomo dalle funzioni più animali, passive e disagiate d’un tempo e ad attribuirgli gradualmente ruoli di sempre maggiore responsabilità professionale. I minatori, i contadini, gli artigiani sono stati sostituiti da macchine o da piccoli imprenditori che hanno apportato notevoli dosi di valore aggiunto alla produzione globale del reddito. È stato un lungo e sofferto percorso che, iniziato per la esistenza di soluzioni sostitutive dei vecchi processi produttivi, ha attraversato tre conflitti mondiali prima di inaugurare l’estensione del benessere e del consenso a masse di diseredati oppressi da Stati Nazione sulla base di paradigmi ideologici e settari di conservazione di privilegi insostenibili e irragionevoli sul piano della liberal-democrazia. I ‘licenziamenti’ e i ‘fallimenti’ industriali hanno liberato l’uomo da mansioni servili e scarsamente remunerabili ma hanno nel contempo inserito nel processo produttivo masse di esclusi dalla produzione e dalle relative ricadute sul reddito personale. Il secondo conflitto mondiale ha inoltre aperto alle donne la piena partecipazione ai processi produttivi e decisionali ed ha definitivamente distrutto l’ultimo baluardo di resistenza degli Stati Nazione, le ‘colonie’, alla ricerca disperata di conservare i propri privilegi nazionali a spese delle masse di diseredati asiatici, africani e sud-americani.

L’interesse sempre crescente per i nuovi produttori-consumatori-risparmiatori al fine di costruire la stabilità del nuovo contesto geopolitico soprannazionale ha costretto anche le oligarchie nazionali a tenere conto del consenso elettorale. Strumento insostituibile per il consenso in liberal-democrazia. La cattura del consenso di quelle masse ha arricchito i diritti-doveri dell’individuo indipendentemente dalla sua attuale collocazione dai tradizionali diritti-doveri di produttore-consumatore-risparmiatore a quelli di produttore-consumatore-risparmiatore-elettore.

La cattura del consenso elettorale è diventata la primaria missione degli oligarchi prima di poter negoziare i nuovi criteri della governance del sistema industriale globalizzato. La celerità con cui progredisce il processo della globalizzazione crea aspettative sociali diffuse e in grado di nuocere alla stabilità del sistema industriale soprannazionale. Un crollo del sistema nuocerebbe sia alle vecchie oligarchie, sia ai nuovi oligarchi, sia alle nuove masse di partecipanti alla catena produttiva.

Le elite che governano con i loro interessi la ricerca di una nuova e condivisa governance non chiedono quindi più all’architetto e all’urbanista prodotti tradizionali per le vecchie relazioni tra mecenate-principe e artista-cortigiano. Le belle ville possono risultare perfino controproducenti per l’immagine e il consenso che restituiscono al committente. Beneficiare di lusso in paesi esteri ma dimostrare un’assoluta ‘democraticità’ nel proprio bacino elettorale può essere una strategia vincente. Le comunicazioni sono sempre strumentali a pubblicità commerciale e propaganda politica ma la raccolta del consenso trascende i vecchi confini elitari che consentivano al principe di servirsi di intellettuali di profilo accademico eccellente e si è trasformata in ricerca di accattivante immagine per la propria azienda o per la propria persona presso un’opinione pubblica di scadente livello culturale e animata da interessi il cui appagamento risulta redditizio sul piano politico. L’editoria esclusiva, il giornalismo dotto o erudito, i dibattiti culturalmente elevati sono tipi di prodotti che hanno audience sempre meno ampie e comunque politicamente marginali. L’architetto è relegato sempre più a svolgere ruoli e mansioni di sostegno alle strategie di politica industriale. I media sono sempre più chiamati a suggestionare le audience tramite spettacolarità e divertimento che gratifichi le aspettative di fruizione del benessere nel tempo libero.

Gli architetti che da sempre sono stati l’interfaccia tra il principe e le oligarchie, si trovano ormai a dovere servire con la loro sensibilità pratica (urbanistica) e artistica (residenziale e arredamento) non più gli influenzabili principi-mecenati (da Nerone ai Medici a Guggenheim) ma incolti burocrati incaricati di implementare la strategia di committenti politici il cui consenso ha scadenze biennali o al più quadriennali mentre sono ispirati da interessi economici ancorati a scadenze trentennali con cadenze quinquennali.

Gli architetti avvertono come sempre per primi tra i professionisti, l’umiliazione della cultura elitaria imposta dalla sostituzione del principe-mecenate (inviso anch’egli a suo tempo) con la pubblica opinione che privilegia le nuove casette luminose e ariose decorate da litografie o poster rispetto alla restaurazione delle case di famiglia che per lo più sono scomode, cupe ed arredate (nel migliore dei casi) con mobilia cadenti e ‘antiquate’. Analogo tragico destino hanno le missioni affidate all’architetto. ‘Architettura’ diviene una professione che è destinata a curare l’immagine del committente nel breve termine e quindi deve dedicarsi a dare organicità a un assemblaggio di prodotti immateriali ma da proporre alle audience di interesse per il committente. Le serie televisive sono lo strumento capace di suggestionare durante le pause del tempo libero ampie fasce di nuovi consumatori educandoli ad ispirare i propri comportamenti a schemi consistenti con le esigenze industriali del contesto geopolitico globalizzato.

L’architetto è chiamato a strutturare nuovi tipi di ‘ambienti’ immateriali in cui si possa sviluppare una cultura sostitutiva di quella dell’urbanesimo che è stata necessaria nell’era pre-industriale, paleo-industriale e della maturità industriale ma che, in piena era della industrializzazione terziarizzata, richiede oggi di agevolare il formarsi di una cultura comportamentale e di aspettative compatibili col potenziale di servizio portato dalle nuove soluzioni tecnologiche e organizzative in ogni comparto di industria; dalla sanità, alla finanza, al credito, alla logistica industriale, al trasporto di beni e persone, etc. – col prerequisito di una accessibilità universale a consumi e produzione.

L’architettura delle reti tecnologiche infrastrutturali fondate sul flusso delle informazioni agevola l’uso del ‘latino’ del terzo millennio ed il formarsi di abitudini e relazioni soprannazionali libere dagli schemi e dalle censure imposte ‘localmente’ dalle oligarchie degli Stati Nazione. Ciò genera comuni aspettative di libertà d’espressione nelle nuove generazioni e le stimola ad inserirsi in comuni ambiti educativi e professionali che saranno la premessa per la nascita di aziende adeguate a sfruttare appieno il potenziale innovativo offerto dalla globalizzazione alla crescita economica diffusa in modalità personalizzate a soddisfare le esigenze e le aspettative delle più varie diversità culturali.

L’architettura dei programmi informativi dalle serie televisive, agli spettacoli etnici, al turismo di massa, ai nuovi quotidiani elettronici, all’editoria informatica, ai programmi di documentari educativi a quelli della formazione professionale agevola il formarsi di quella nuova popolazione di produttori-consumatori-risparmiatori-elettori dalla quale potranno emergere le nuove oligarchie soprannazionali capaci di mediare tra le esigenze dettate dalle più ampie diversità culturali ‘locali’ (caratterizzate da scarsa mobilità e diversità linguistica) e le esigenze di alimentare una governance industriale globale fondata sulla stabilità politica.

È evidente che l’architetto abbia le sensibilità e la cultura umanistica adeguate a consentirgli il progetto di massima di soluzioni tecnologiche e organizzative credibilmente implementabili da un lato e d’altro lato ad adeguare le soluzioni tecnologiche e organizzative a soddisfare le aspettative del committente.

Il dramma psicologico dell’architetto è l’aumentata distanza culturale tra il committente di oggi e quello di ieri. L’attuale essendo in genere un homo novus (self made man) dotato di molto intuito e grandi capacità dialettiche necessarie per creare il nuovo nel nuovo contesto geopolitico privi delle remore che incombono su intellettuali e vecchie oligarchie nazionali ancorati a stili di vita e comportamenti che solo i giovani sono in grado di sostituire con una nuova cultura compatibile con il mercato e la governance globale.

Gli architetti, al vertice degli intellettuali che danno forma all’innovazione industriale, devono oggi dare servizio agli emergenti oligarchi dotati di scarsa affezione per gli assetti del passato. È evidente la loro frustrazione ma è anche evidente la loro arroganza caratteristica delle elite di corte di vecchie oligarchie che si sentono degradati a servire l’avvento del nuovo al servizio di oligarchie emergenti e meno colte e raffinate in quanto più democratiche ed animate da aspettative e motivazioni più ‘primitive’. Anche gli architetti, per primi, patiscono personalmente il costo dell’abbattimento dei vecchi privilegi elitari generato dal progresso industriale. La democratizzazione estende la liberal-democrazia ed il benessere ma pretende che le vecchie elite non si arrocchino in difesa reazionaria dei privilegi di casta che altro non fa se non ritardare l’avvento del nuovo e più democratico domani. Nessuno, per snobismo o arroganza intellettuale, ha diritto di imporre la conservazione di ciò che non viene liberamente accolto tra le generazioni. Occorre accettare che anche in campo culturale la storia si sviluppi anche con l’estinzione dei dinosauri o dei cartaginesi e delle ideologie incompatibili con l’evoluzione del contesto geopolitico industriale che estende i confini della civiltà ‘Occidentale’ fino a permettere di partecipare al benessere e alla libertà con pari diritti-doveri di popolazioni fino a ieri diseredate.