25/03/2011

Regime Changes ed Ecoterrorismo per un Nuovo Ordine Globale

Ora la frittata è stata fatta senza avere costruito una debita preparazione di accordi internazionali sulla cui base poter fondare l’evoluzione verso un NOG condiviso ampiamente per ottenere la generale convergenza geo-politica su forme di regimi nazionali compatibili con la gerarchia dei nuovi interessi industriali ormai ben consolidati sul mercato globalizzato.

Anzi la fretta con cui si è posto mano alla decisione di intervenire manu militari in Libia, è stata motivata dal rifiuto di Francia (e Regno Unito) ad accettare un ruolo di secondaria importanza nello scenario inter-nazionale in via di celere consolidamento attorno ai due protagonisti egemoni (USA e Cina).

Per pure ragioni di politica interna i due governi ‘conservatori’ hanno anticipato i tempi intervenendo in Libia senza avere chiaro quale ordine interno potrebbe garantire un paese stabile e più compatibile con gli sviluppi della globalizzazione industriale. Entrambi i paesi non hanno più interessi diretti in Libia e sono già in passato intervenuti per tentare di ritardare o frenare il tracollo delle loro tradizionali aree di egemonia in Africa del nord al tempo della crisi di Suez.

L’immagine di tradizionali potenze colonialiste sia della Francia che del Regno Unito, rende inaccettabile la loro attuale iniziativa quale elemento guida per una più vasta azione di regime change in tutti i paesi del Nord Africa in cui si sono manifestate crescenti forme di ribellione a regimi sostenuti dall’Europa nell’era degli Stati Nazione; dall’Egitto, alla Tunisia, all’Algeria fino ai paesi del golfo di Arabia dall’Arabia Saudita, agli Emirati ed allo Yemen.

L’azione militare è stata intrapresa dalla Francia grazie alla tradizionale grandeur che ne ispira la politica estera ed ha poi trascinato a partecipare tutti i paesi ‘Occidentali’ anche se ispirati da interessi nazionali e da convinzioni strategiche diverse o non ancora ben consolidate. Comunque l’intervento privo di adeguata riflessione sugli sviluppi e sugli obiettivi che si prefiggeva, è risultato legittimo per le ragioni umanitarie che hanno costituito una sorta di ricatto politico ed una perfetta giustificazione rispetto all’urgenza con la quale Sarkozy s’è trovato costretto per pure ragioni elettorali personali ad accelerare l’intervento unilaterale contro ogni ragionevole rispetto per le ragioni di partecipazione alle istituzioni soprannazionali che ora devono dimostrare e ribadire la loro insignificanza se non come sterile copertura alle più velleitarie istanze dei vecchi Stati Nazione che le hanno istituite senza avere oggi la capacità né la chiarezza di idee che ne mutino i ruoli alla luce della nuova governance imposta dalle aspettative di stabilità necessaria per sostenere la crescita del sistema industriale ormai globalizzato.

Sarkozy doveva dimostrare l’autonomia da decisioni imposte dall’estero per riaffermare il suo ruolo di tutore della grandeur nazionale e sapeva di rischiare quell’opportunità di immagine politica verso il più nazionalista elettorato nazionale per l’analoga necessità incombente su Barack Obama negli USA; una analogia tuttavia moderata dal rischio per Obama di esporsi come promotore dell’estensione delle guerre in un’area geografica in cui ‘W’ Bush ha inserito gli USA e dalla quale invece la sua promessa di recesso è già stata abbondantemente smentita nel corso del primo mandato elettorale in scadenza imminente.

Questo ‘astuto’ gioco in puro stile machiavellico ha dettato le scelte di ‘intervento umanitario’ che permette in quanto umanitario di giustificare l’urgenza e l’assenza di finalità condivise che ne giustifichino la logica.

Il tutto si è tradotto in una decisione in stile formalmente ‘napoleonico’ da cui sarebbero derivati, sul piano militare immediato (tattico), effetti sicuramente analoghi a quelli conseguenti le scelte di quel genio militare senza averne, in apparenza, alcuna evidente ispirazione espansionista (strategica); una vera e propria astuta iniziativa politica.

Obama è invece molto più esposto al rischio politico a causa della sua campagna elettorale contro la recente storia precedente di Reagan e Bush nella tradizione decisionista di ‘carota & bastone’ propria del GOP che ha ‘giustificato’ la sua campagna del ‘change we can’ poi gradualmente smentita dalle circostanze concrete che esistono sullo scenario reale e non su quello virtuale della politica buonista e relativista. Inoltre Obama deve limitare ulteriori coinvolgimenti militari oltre a quelli nei quali si trova già impegnato ma che sono dettati dagli interessi diretti degli USA.

D’altronde ogni astensione degli USA dal suo ruolo di protagonista nei cambiamenti di regime promossi dal processo della globalizzazione industriale rischia di essere supplito per ragioni opportuniste di ogni natura da altri protagonisti politici con iniziative che rischiano di destabilizzare il progresso verso una condivisa nuova governance globale anche se apparentemente ‘locali’ e gerarchicamente insignificanti; come quella del regime change in Libia.

Questa iniziativa assunta frettolosamente ed autonomamente dalla Francia ha coinvolto infatti altri paesi ed ha sollevato sospetti e resistenze in altri costretti ad intervenire o ad ostacolare per poterne influenzare gli sviluppi politici; UK, Italia, Germania, Turchia.

L’intervento francese ha costretto quindi il premio Nobel Obama ad una tardiva rincorsa per recuperare il ruolo-guida in un evento direttamente connesso ad altri scenari adiacenti sintetizzabili nel medio-oriente e nelle relazioni col mondo islamico.

Infatti l’intervento deciso in autonomia da Francia (e Regno Unito) in un paese in cui è tradizionale la storia prioritaria degli interessi italiani (coloniali prima e petroliferi dell’ENI poi), ha costretto l’Italia ad assumere una posizione critica circa le motivazioni politiche di fondo che potessero giustificare e legittimare l’azione bellica. Le obiezioni e le giustificazioni originarie infatti erano deboli e puramente formali per entrambi i protagonisti della querelle; l’articolo 11 della costituzione per l’Italia e l’aiuto ‘umanitario’ per la Francia.

Le proteste (Italia e Turchia), le resistenze (Regno Unito, Lega Araba e USA) ed i rifiuti (Germania) alla iniziativa autonoma e frettolosa della Francia hanno condotto a ricondurre l’evento in un ambito multi-laterale e secondo procedure di istituzioni soprannazionali politicamente condivise anche se ormai anch’esse inefficaci; ONU, NATO. La risoluzione dell’ONU ha legittimato l’intervento armato riportandolo a iniziativa collettiva anziché puramente nazionale e definendone la legittimità nell’ambito di limitati confini umanitari, disinnescando ogni ulteriore estensione verso un regime change inaccettabile sia per la Lega Araba (di paesi i cui regimi sono tutti analoghi o perfino peggiori di quello libico), sia per la Turchia (membro islamico della NATO che condivide sempre più la percezione del confronto tra ‘Occidente’ cristiano e ‘Islam’ in cui governa la sharia e quindi ritiene ‘sacro’ il territorio musulmano e dissacrazione il calpestarlo da parte degli infedeli.

In altri termini l’assenza di una salda guida politica dell’’Occidente’ per il rifiuto di ‘change-we-can’ Obama a definirne gli scopi ed i comuni interessi di una governance globale condivisa, ha condotto alla sconsiderata fuga in avanti della Francia che, pur incentrata su un paese di marginale peso geopolitico, ha rapidamente innescato una serie di sensibilità politiche più diffuse che hanno aiutato a etichettare l’iniziativa goffa e non meditata di simbolismi ideologici altamente influenti sull’attuale scenario globale; neocoloniali, religiosi, etc.

La sostituzione di quelle forti sensibilità politiche alle fievoli ragioni umanitarie e legaliste iniziali, ha dato avvio alle negoziazioni multilaterali sostenute da istituzioni già di per sé pienamente destabilizzate dalla travolgente globalizzazione industriale; oltre che da sempre inefficaci sul piano effettuale – come ONU, Lega Araba e NATO. L’UE come al solito è restata totalmente assente come istituzione soprannazionale proprio a causa del costante rifiuto storico ad istituire una Comunità Europea di Difesa.

Il contributo del caso di studio Libia è stato di evidenziare l’esigenza di un ruolo protagonista politico degli USA in qualsiasi contesto e manifestazione in cui si formula il disagio politico ‘locale’ per il cambiamento di aspettative economiche e sociali indotto dalla globalizzazione industriale e dalle comunicazioni sociali verso le donne e le nuove generazioni e evidenziare altresì l’inadeguatezza delle vecchie istituzioni soprannazionali a garantire la stabilità degli assetti politici internazionali nel corso delle modifiche necessarie all’interno dei singoli paesi destabilizzati; ossia nel corso dei necessari ‘regime change’.

Paradossalmente la catastrofe naturale in Giappone invece ha contribuito positivamente ad adeguare la cooperazione soprannazionale rivitalizzando le vecchie istituzioni ormai totalmente insignificanti; come l’Euratom e la IAEA. Infatti il carattere straordinario dell’evento naturale che ha colpito il Giappone e le sue centrali ha dimostrato l’assoluta sicurezza dell’energia nucleare proprio grazie alla sproporzione tra l’evento e il livello delle tecnologie di prima generazione colpite dall’evento rispetto alle conseguenze, drammatiche ma non incontrollabili – soprattutto se confrontate con l’ecatombe causata dalla catastrofe naturale capace di travolgere tecnologie come le dighe foranee ben più consolidate e usate anche in altri paesi come l’Olanda.

Tuttavia, l’elevata ondata di emotività sostenuta e alimentata da demagogici allarmi mediatici ed iniziative politiche come i referendum in Italia (paese privo di centrali nucleari sia di prima che di seconda e di terza generazione) ha aiutato le leadership politiche e industriali ad avviare la ricerca di una maggiore governance di quel comparto industriale di sicuro interesse soprannazionale. Si è immediatamente promossa una serie di iniziative presso la IAEA e presso la UE stabilendo che durante una ‘fase di riflessione’ si procedesse a dare mandato ai ‘tecnici’ di condurre un’analisi sulla sicurezza degli impianti industriali del settore per eliminare quelli ormai obsoleti, per definire le condizioni di impiego di quelli sicuri e per valutare il grado di sicurezza di quelli più avanzati o in studio – conducendo quindi anche alla dilazione o cancellazione dei referendum in quella materia.

Si tratta di iniziative che vedono delegare le valutazioni ad istituzioni tecnicamente adeguate e politicamente soprannazionali capaci quindi di evitare gli impatti politici nazionali più emotivamente rischiosi per la governance di un comparto obbligato sul piano industriale ma fortemente soggetto all’emotività del ‘not in my backyard’ che non rimuove il rischio (come dimostrano Chernobil, Three Miles Island e Fukushima) e non risolve la carenza di fonti energetiche economicamente sostenibili a sostegno dello sviluppo industriale.

Tutti gli eventi cui stiamo osservando costringono i protagonisti politici ad assumere le responsabilità che loro competono nella gerarchia di peso economico che caratterizza il paese di cui sono leader; al di la del loro interesse politico nazionale o delle loro convinzioni ideali – come è il caso di Obama, di Sarkozy e come si spera possa avvenire anche nei regimi più immediatamente destabilizzati dalla travolgente globalizzazione.

Infatti anche nel mondo dell’Islam la destabilizzazione dei regimi preindustriali e satrapici che si fondano sui principi della sharia stanno prendendo coscienza dell’inadeguatezza del sistema tribale d’antan di appagare le crescenti aspettative di condizioni di vita ‘Occidentali’ nutrite dalle donne e dalle nuove generazioni. Ciò suggerisce i leader di quei paesi a negoziare una sequenza di passi di regime change capaci di garantire gli interessi delle oligarchie al potere dagli assetti monocratici attuali, a quelli oligarchici più idonei a cooptare le nuove fasce professionali e imprenditoriali del paese a quelli più democratici necessari perché quei paesi sì riescano a costruire dei sistemi industriali nazionali – oggi totalmente assenti – che siano integrati appieno sul piano competitivo con i sistemi nazionali concorrenti.

Probabilmente si tratta di un wishful thinking destinato a fallire per le resistenze opportuniste che i regimi autocratici riescono sempre ad organizzare, in tal caso assisteremo ad una serie di occasionali, sanguinose e ‘libere’ catastrofi dei regimi nazionali che costruiranno la liberal-democrazia in quei paesi in pieno spirito di laissez faire sotto l’indiretta governance già solidamente organizzata dai paesi più industrialmente avanzati del globo – G2, G8, G20, etc..

La libertà progredisce anche se in ‘sangue e lacrime’, anzi si consolida negli animi umani proprio grazie alle tragedie che ne fanno percepire la ‘superiorità’ rispetto a qualsiasi ideologia paternalista di regimi buonisti sia secolari che religiosi. Non è cinismo ma consapevolezza scientifica sul comportamento umano ispirato dalla Natura in cui è difficile che l’intelligenza prevalga sulle altre pulsioni psichiche che, in ogni comparto, ispirano le iniziative dei singoli e le aggregano in sistemi complessi animati da costanti dosi di instabilità; in una incomprensibile ‘ricerca della felicità’ che solo a posteriori riesce ad evidenziare la crescita del suo livello di qualità lungo un filo rosso; il ‘disegno intelligente’!.

La civiltà ‘Occidentale’ non è giunta al termine della sua costruzione, non ci è stata elargita gratuitamente né è stata esportata contemporaneamente in tempo e luogo. La prima globalizzazione di Roma fu imposta col bastone delle legioni prima di conquistare il consenso con la carota del suo diritto civile e dei suoi servizi di diffuso interesse pubblico. La seconda globalizzazione sta seguendo il processo inverso conquistando un diffuso consenso globale che sollecita le aspettative delle donne e dei giovani ovunque nel mondo e provoca la destabilizzazione di regimi che già beneficiano della carota dello sviluppo industriale globalizzato e che si trovano quindi costretti senza alternativa ad accogliere gradualmente i criteri liberal-democratici per non subire conseguenze nefaste provenienti da bastoni interni (rivolte armate) sostenute in vario modo da quelli esteri (sanzioni e guerre di peace keeping o peace enforcing). Come al tempo della prima globalizzazione di Roma, anche la seconda globalizzazione presenta l’egemone ruolo dell’economia come strumento-pilota del consenso universale. È sempre l’aratro che traccia il solco e la spada che lo difende! Indipendentemente dal fatto che il meccanismo unitario di spada & aratro (bastone e carota) inauguri la sua egemonia globale colla prioritaria azione militare rispetto a quella dello sviluppo economico o viceversa è sempre necessaria una linea politica resa credibile dall’offerta in modo strettamente abbinato di efficaci bastoni e di attraenti carote.

La sola diplomazia (la gamba negoziale della politica) né la sola guerra (la gamba punitiva) possono vincere la sfida del progresso civile se manca una limpida guida politica (la testa pensante) capace di conquistare gli animi con l’evidenza dei risultati sul campo (la crescita di benessere e libertà) prima ancora che con l’offerta di belle ma astratte teorie intellettuali destinate a restare sterili utopie la cui politica è dettata da dottrine e da promesse. Dottrine politicamente corrette in quanto ideologicamente ortodosse anche se le loro promesse restano tali in quanto costantemente irraggiungibili sul piano pratico.

L’attuale globalizzazione è stata realizzata grazie al sistema del capitalismo-liberista che ha travolto senza guerra l’unica alternativa geo-politica del capitalismo di stato il giorno del crollo del muro di Berlino.

Il paradigma ‘Occidentale’ greco-romano-cristiano ha prevalso nuova,mente e in modo definitivo su quello della satrapia asiatica.

La libertà responsabile di intraprendere per soddisfare la propria più squallida visione del concetto di ‘felicità’ che anima la crescita del capitalismo-liberista con l’evidenza permanente dei tycoon (da Onassis, Berlusconi, Bill Gates, Steve Jobs e Mark Zuckerberg) ha dimostrato la sua intrinseca superiorità industriale e attrattiva umana oltre ogni confine di etnia, di cultura e di generazione rispetto ad ogni programmazione dei redditi o pianificazione quinquennale, sempre fallimentari ed invise dai sudditi.

Nello stesso modo il potere responsabilizzante del libero mercato sui tycoon ha sempre dimostrato che la loro stessa responsabile libertà individuale, pur ispirata dalle più avide e squallide pulsioni, riesce a comporsi in un sistema dinamico ed autoregolato di crescente fascino per gli esclusi che ambiscono a parteciparvi per soddisfare analoghe aspettative di ‘felicità’.

L’attuale serie di destabilizzazioni interne in tutti i paesi esclusi dal paradigma ‘Occidentale’ dimostra che le donne e le giovani generazioni oltre che le ristrette fasce di professionisti formati in occidente sono animate da aspettative di benessere e libertà ‘Occidentali’ grazie a scelte consumistiche individuali (dai jeans, alla coca cola, al rap, ai cellulari, a FaceBook, a Twitter, all’uni-sex, al casual, etc.).

Resistere significa irrigidire regimi autoritari già inefficienti e improduttivi attorno a un fondamentalismo religioso contrario alle aspettative di libera e autonoma adesione alla fede che è la caratteristica di ogni setta religiosa in ‘Occidente’ sin dalla separazione tra la sfera di Dio e quella di Cesare avviata da Roma e la prima versione della globalizzazione; in ‘Occidente’ i mormoni, gli amish, i neocatecumentali, i focolarini oltre ai calvinisti, luterani, sciiti, sunniti sono tutti liberi di aderire a propri schemi di comportamento purché ciò non intralci gli altrui stili di vita né imponga limiti a diverse visioni etiche.