25/03/2010

Dalla parte di Israele

La rubrica ha già cercato di offrire una visione della situazione “bloccata” in cui è immerso il medio-oriente e che assorbe gran parte delle energie psichiche dei protagonisti politici nel corso della negoziazione della nuova governance globale.

Quella situazione di blocco e le sue ripercussioni sul consolidamento del Nuovo Ordine Globale, suggerisce di distinguere i prevalenti interessi “globali” rispetto a quelli “regionali” e di “scavalcare” l’impasse medio-orientale identificando altri interlocutori nel mondo musulmano che abbiano interesse e autorevolezza per negoziare il loro ruolo da protagonisti nello scenario geopolitico globale lasciando sedimentare la situazione nella terra santa per tutto il tempo che sarà necessario affinché tutti gli interlocutori di quel problema locale abbiano maturato una percezione compatibile del problema in cui sono immersi per puri motivi geografici.

Tuttavia occorre che, nel corso di questa pausa di attenzione alla “pace in medio-oriente” i singoli suoi protagonisti siano rispettati per il loro peso sulla negoziazione della governance globale che anche essi, pur in un tempo differito, saranno chiamati a condividere.

I produttori di petrolio sono già abbondantemente allineati a percepire la globalizzazione come meccanismo di comune interesse finanziario ed economico indipendentemente dal tipo di regime che li governa e che non può cedere totalmente all’integralismo ideologico pena il fallimento di consenso interno. Ciò vale per l’Iran, per l’Arabia Saudita, per l’Egitto, per l’Iraq che potranno quindi adattarsi alla nuova governance per ragioni politiche attenuando l’integralismo interno magari in modi fortemente illiberali e autoritari.

Le minoranze più ideologicamente integraliste che sono presenti in tutti i Paesi musulmani non rivestono posizioni di governo che non dipendano dai flussi di capitali provenienti dal mondo ‘Occidentale’ o dai Paesi ormai pienamente inseriti nella globalizzazione (‘Occidentale’). Dai Fratelli Musulmani, agli ayatollah più radicali ai seguaci di Osama bin laden tutti aspirano a conservare il loro ruolo di grilli parlanti ma, quando al potere, attenuano i loro comportamenti per non subire sanzioni nocive per i flussi di capitali necessari al loro stesso esistere. Si tratta di minoranze quindi destinate a calare nel tempo col crescere del benessere che la globalizzazione apporta ai singoli Paesi e di minoranze che comunque sono già abituate a valutare la loro capacità di ricattare il sistema industriale globalizzato senza lederne troppo gli interessi che solleciterebbe le conseguenti drastiche azioni di ritorsione (militari o economiche) che limitano fortemente la possibilità di agire nei Paesi ‘Occidentali’ e aumentano il dissenso in quelli di loro residenza (basta osservare il numero di morti causati dal terrorismo all’estero rispetto ai morti prodotti tra i loro connazionali dalle azioni di contro terrorismo). È una logica classica e naturale che costringe ogni “parassita” a limitare il suo saccheggio del sistema produttivo a valori sostenibili dal sistema stesso. Un sistema industriale pienamente globalizzato potrebbe permettersi perfino di alimentare “parchi naturali” o “riserve indiane” di conservazione di gruppi parassitari (figli dei fiori, monaci zen, stiliti, naturisti, ambientalisti ossessivi, vegetariani totali, marxisti impenitenti, etc.) senza eccessivo onere. Sarebbe perfino capace d’alimentare in modo decoroso i suoi “guru” come rappresentanti stabili al parlamento: Al Gore o Agnoletto che siano.

Esiste però un Paese la cui integrità e stabilità politica non può essere rischiata nel corso della negoziazione che dovesse temporaneamente scavalcare le esigenze della “pace in medio oriente”; Israele.

Israele è uno stato pienamente ‘Occidentale’ e perfino radicato nelle sue ispirazioni ideali alle stesse basi della legittimità della civiltà liberal-democratica (greco-romane-ebraiche-cristiane).

Benché si possano criticare le eventuali incoerenze giuridiche e politiche d’Israele anche alla luce della visione geopolitica che legittima la globalizzazione industriale (fine dell’epoca degli Stati Nazione), non è accettabile che la tutela di Israele venga messa in discussione o che Israele venga esclusa dalla partecipazione immediata al sistema di libero mercato che sta gradualmente accorpando Paesi molto meno ‘Occidentali’.

È patetico e sterile che Obama o la Clinton cerchino di delegittimare programmi di crescita interna varati in pieno spirito della globalizzazione dal governo di Israele (costruzione del muro anti-terrorismo, costruzione di stabili abitativi in ogni località in cui si auspica prevalesse una pace tra due popoli, insediamenti rurali di produzioni necessarie per rendere fertile una terra derelitta finché le creatività e determinazione del popolo dei kibbutz non produsse le sue iniziative pacifiche a beneficio dello sviluppo di tutte le popolazioni dell’area etc., etc.).

Israele costituisce già ora saldamente l’avamposto dell’’Occidente’ ai confini di un mondo che affronta un suo adeguamento alla realtà globale che è incompatibile con regimi ispirati da integralismo ideologico. Che Israele aderisca formalmente o meno a trattati di libero scambio i suoi criteri e comportamenti istituzionali sono più ‘Occidentali’ di quelli che ispirano regimi di Paesi che invece già vi aderiscono. I confini geografici dell’Unione Europea sono stati messi in discussione in occasione della possibile adesione della Turchia o di altri Paesi sulla costa meridionale del Mediterraneo e sembra ore ridicolo escludere Israele da un analogo diritto soprattutto per la sua assoluta affidabilità istituzionale occidentale. Spingere Israele con forme di ricatto politico a rinunciare a comportamenti industrialmente benefici per tutta l’area per accettare invece accordi incompatibili con lo spirito e la legalità liberal-democratica nei confronti di gruppi integralisti e non coerenti con i prerequisiti necessari alla governance globale, è un puro atto di opportunismo demagogico che non risolve il problema “regionale” e che inoltre aggrava la soluzione di quello “globale”.

Una vera soluzione ai due problemi deriverebbe invece dalla decisione di un vero statista (né Obama né la Clinton sembrano in grado di esserlo) che sollecitasse l’adesione di Israele all’Unione Europea e alla NATO e lasciasse sedimentare per qualche lustro le negoziazioni in terra santa per concentrarsi invece su una negoziazione più efficace della governance incentrata sugli sviluppi militari e politici dell’Asia Centrale. Una volta consolidati gli accordi in quell’area a-cavallo tra il blocco più industrializzato e liberal-democratico del mondo e quello più densamente popolato orientale, sarebbe naturale che i produttori di petrolio aderissero con maggiore sollecitudine agli accordi per loro profittevoli e che il conseguente sviluppo di benessere riesca a modificare le aspettative diffuse della popolazione in medio-oriente tanto da ridurne l’adesione alle più integraliste proposte politiche e istituzionali.

Il processo inverso rischia di rallentare l’avvento del Nuovo Ordine Globale e di scatenare in medio-oriente conflitti difficilmente gestibili nei quali l’’Occidente’ sarebbe inevitabilmente costretto a parteggiare a tutela di Israele.