18/02/2011

Real-politik e Guerre-civili

Al di la dei demagogici atteggiamenti da anime-belle scandalizzate delle opposizioni (che sono, in genere, ‘de sinistra’ e ‘progressiste’) la Storia si sviluppa nel corso delle generazioni attraverso regimi, sempre illiberali, ma che si avvicendano in una successione di crescita nei contenuti liberal-democratici che ne ispirano le istituzioni che presiedono alla governance del sistema industriale.

Messe da parte le considerazioni demagogiche di ‘progressisti’ de-sinistra i quali storicamente hanno sempre sostenuto regimi sanguinari da Stalin coi suoi interventi armati in paesi dell’Europa dell’Est a Castro con il suo regime di polizia di oggi, possiamo esaminare la situazione che si è propagata – secondo peculiarità che distinguono i diversi paesi – innescando forme di ‘regime change’ nell’Africa del Nord e in Medio Oriente.

Regime changes che possono essere agevolati o accelerati con interventi esteri (neo-imperialismo) o lasciati liberi di svilupparsi secondo le ‘naturali’ evoluzioni culturali accettandone il ‘change interno’ (real politik).

Questa graduale transizione attraverso regimi sempre più ispirati alla liberal-democrazia avviene grazie alle pressioni che il sistema industriale nazionale esercita sul regime del momento costringendolo a cambiare (il ‘regime change’) in modo negoziato o violento (i ‘golpe’ e le ‘guerre civili’). È una delle poche considerazioni valide espresse dal sesto dei fratelli Marx (come chiave integrativa) per leggere gli sviluppi gli eventi storici.

Questo processo storico avviene indipendentemente dal tipo di ideologia che legittima il regime del momento e procede a senso unico come guidato da un inspiegabile filo rosso (il ‘disegno intelligente’) proprio grazie al fatto che l’elemento che crescendo esercita pressioni sempre più ingovernabili sulle ‘resistenze’ oligarchiche dei regimi occasionalmente gestori della governance, è un elemento ‘impermeabile’ ai criteri ideologici che si limita ad agire in funzione dei soli criteri ‘naturali’ che ispirano gli ‘individui’ nei loro impegni quotidiani di produrre, risparmiare, spendere ….. e ‘fornire consenso’ al regime vigente; il capitalismo-liberista.

Il capitalismo-liberista, per quanto visceralmente – quindi inutilmente - deprecato o amato possa risultare ai modelli dottrinari secolari o religiosi che ispirano i regimi illiberali, è ‘naturale’ in quanto si fonda sulle motivazioni ed aspettative che animano l’animale-uomo come individuo dotato di doti peculiari e irripetibili (avidità, ambizione, egoismo, dedizione, carità, furbizia, etc.). Il mix di queste doti ‘naturali’ che animano i singoli individui può variare nel corso delle generazioni in funzione del patrimonio culturale individuale e sociale che include anche l’abbattimento del muro di diffidenza che ciascuno erge attorno al proprio nucleo più ‘privato’ e che include tutta la gerarchia di istituzioni che esorbitano dalla ‘famiglia’. Ogni regime deve fare i conti con questa ‘naturale’ diffidenza che garantisce la persistenza del ‘libero mercato’ in forme più o meno ‘legali’ a seconda del grado di liberalismo che ispira il regime del momento tramite le più fantasiose ma efficaci forme (lavoro nero, contrabbando, mercato nero, evasione, elusione, corruzione, concussione, etc.).

La crescita del benessere e degli scambi di comunicazioni multimediali, associate alla composizione dell’età delle popolazioni dei paesi in questione hanno costruito le premesse di diffuse aspettative sociali verso un cambiamento di regime che possa aggregare ‘dal basso’ il consenso politico necessario per garantire regimi istituzionalmente stabili succedanei più ‘democratici’ di quelli attuali che in genere governano ‘dall’alto’ in modo autoritario.

Questa destabilizzazione è avvenuta come in ogni altro paese ed epoca per ragioni esogene alla politica grazie all’accelerazione imposta dalla ‘internazionalizzazione industriale’ (globalizzazione) che ha abbattuto ogni barriera eretta dalle vecchie oligarchie a tutela dei propri privilegi ormai insostenibili ed invisi.

Gli sviluppi possibili di queste destabilizzazioni sono forme di regime certamente più ‘democratiche’ (cioè bottom up) delle attuali (monarchie, dittature o oligarchie top down) tuttavia nessuno può garantire (la vita è ‘precaria’ per sua natura così come la ‘storia’) che l’evoluzione interna del ‘regime change’ assuma il carattere di maggiori ‘contenuti’ liberal-democratici; essi potrebbero limitarsi ad assumere ‘forme’ liberal-democratiche (come le ‘democrazie popolari’ sconfitte dalla Storia della civiltà ‘Occidentale’ o le ‘democrazie islamiche’ della ‘sharia’ Iraniana).

Qualora in campo ‘Occidentale’ si decidesse di abbandonare l’atteggiamento della ‘real politik’ prevalso dalla fine del secondo conflitto mondiale col crollo del ‘colonialismo’ per agevolare un ‘regime change’ che agevoli l’avvento di maggiore liberal-democrazia nei paesi destabilizzati occorrerebbe adottare la linea proposta da ‘W’ Bush in politica estera; cioè ‘esportare la democrazia’.

È ciò che sta gradualmente accettando ‘change-we-can’ Obama dopo avere aderito alla politica militare e anti-terrorismo di ‘W’ Bush (Guantanamo, Iraq, Afghanistan, Bob Gates, Petraeus, etc.).

Questa ‘svolta’ rispetto alla ‘real politik’ europea contraddistingue la superiorità liberal-democratica USA rispetto alle oligarchie dei regimi liberal-democratici europei ed impone forme di intervento diretto sul tipo di cambiamento ‘da auspicare’ in ogni paese. È un’evidente forma di neo-imperialismo ‘giustificata’ dalla consapevolezza della ‘superiorità’ della civiltà ‘Occidentale’ rispetto ad ogni altra e del suo maggiore rispetto per i diritti umani e di libertà individuali oltre ogni confine geografico, di genere, di religione, di cultura, di etnia o di credo politico. È la civiltà cui ambiscono i migranti da ogni paese autoritario da sempre.

Questa convinzione sostituisce lo spirito ‘relativista’ della real politik europea post-coloniale. Una filosofia priva di ‘certezze’ e quindi di poter stabilire criteri di definizione della gerarchia tra valori nel corso delle negoziazioni che impone la politica internazionale.

Sostituire i due criteri-guida in politica internazionale è essenziale oggi alla luce delle negoziazioni ormai in corso di una nuova governance soprannazionale e delle relative istituzioni e procedure che ne legittimino la efficace e condivisa operatività. Le aspettative delle masse elettorali si ispirano a sempre più alti contenuti di libertà individuali. Gli interessi delle oligarchie nazionali si arroccano dietro la tutela di peculiarità nazionali definite astrattamente da dottrine sociali imposte dall’alto e controllate nell’ortodossia.

Intervenire militarmente per imporre la sostituzione d’un Milosevic in Serbia, d’un Hussein in Iraq o d’un Khomeini in Iran sono iniziative ‘giustificate’ dalla volontà ‘umanitaria’ di esportare la liberal-democrazia e non sono compatibili col ‘non interventismo’ della ‘real politik’ che comunque esercita diverse forme di intervento (anche militare) per garantire la stabilità nelle relazioni coi ‘regimi legali’ al governo di paesi non (o meno) civili.

Le vie intermedie costituite dalle ‘sanzioni economiche’ non hanno mai risolto il dilemma, se non nel modo farisaico che ha agevolato ogni opportunismo politico, militare e commerciale.

Sostenere i regime change verso sviluppi auspicati richiede una salda gestione gerarchica della governance internazionale e ciò impone una potenza egemone (Roma Imperiale, Regno Unito nell’epoca delle compagnie mercantili) o una coppia di potenze egemoni (USA-URSS nel periodo della ‘guerra fredda’, USA-Cina oggi) in grado di negoziare ciò che risulti ‘accettabile’ a entrambi in un’evoluzione consensuale dell’ordine globale.

Come in ogni periodo storico la crescita in liberal-democrazia non raggiunge mai coronamento completo e deve negoziare il progresso coi regimi egemoni della governance del momento.

‘Il meglio è nemico del buono’ sembra essere la regola di buon senso seguita dal progresso della civiltà in modo indipendente dal criterio seguito nelle relazioni internazionali; ‘real politik’ o ‘regime change’.

Ciò che cambia sono le conseguenze ‘umanitarie’ per le popolazioni dei singoli paesi; sia in ‘Occidente’ sia negli ‘emergenti’.

Infatti l’intervento diretto impone all’’Occidente’ i costi economici e militari dei conflitti armati e, ai paesi sotto regime autoritario, costi sociali che ne accelerano il crollo interno. La ‘real politik’ invece agevola la crescita industriale a spese dell’arricchimento delle oligarchie, spesso sanguinarie, nei paesi autoritari ed a spese dell’immagine che l’’Occidente’ proietta di sé nelle popolazioni oppresse in quanto ‘connivente’ dei più invisi regimi ‘a spese’ delle istanze liberali nazionali. Ciò indirettamente privilegia l’adesione consensuale degli oppressi a ideologie tradizionali (anche se integraliste e medievali) in quanto escluse dal regime che opprime la nazione e estranee contemporaneamente ai principi di un ‘Occidente’ che collabora col regime oppressore attuale.

In definitiva ogni ‘real politik’, oltre a mancare di criteri che privilegino una scelta sulle altre (il ‘relativismo’ politico e culturale) agevola anche l’avvento di regimi ispirati dall’integralismo religioso (il più saldamente arroccato alle peculiarità delle tradizioni nazionali).

Queste elementari considerazioni fanno propendere ogni vero liberal-democratico per l’alternativo criterio del ‘regime change’ nella gestione delle relazioni internazionali. È così che l’’Occidente’ ha esteso i suoi confini nel mondo da sempre. Roma conquistò i nemici con le armi ma li convertì in fedeli ‘cives romani’ in piena condivisione di diritti e doveri. Londra conquistò all’’Occidente’ l’Asia, l’Australia,

L’adesione al criterio del ‘regime change’ è sostenuto dagli idealisti sia al vertice delle istituzioni o autonomi protagonisti (Teddy Roosevelt, Ronald Reagan, Giuseppe Garibaldi, Che Guevara, Giuseppe Mazzini).

L’adesione invece a criteri di real politik sono tipici delle oligarchie conservatrici (Neville Chamberlain, John Kennedy, Richard Nixon, Charles Maurice Talleyrand, Camillo Cavour).

Entrambi i criteri richiedono notevoli dosi di cinismo per poter essere sviluppati con coerenza ed efficacia per conservare la credibilità agli occhi degli interlocutori nelle negoziazioni.

Al di la di queste considerazioni non esistono criteri che permettano di definire la superiorità etica tra le due ispirazioni nella gestione delle relazioni politiche internazionali. Inoltre chiunque gestisca il vertice politico gerarchico della governance globale si trova inevitabilmente a negoziare con interlocutori nei cui confronti deve intrattenere criteri di real politik se la stabilità costituisce lo scopo privilegiato. La diplomazia infatti impone l’uso di carote e bastoni ma nell’ambito di negoziazioni che non costituiscano ‘ultima spiaggia’ per i due a confronto. È stato ciò che ha suggerito a Kennedy la gestione delle relazioni con Cuba e il rientro di Krusciov dal braccio di ferro tra due interlocutori egemoni dello scenario geopolitico della ‘guerra fredda’.

È stata la stessa ragione che ha animato Nixon ad autorizzare Kissinger ad intraprendere un nuovo processo di real politik verso la Cina per uscire dal binomio USA-URSS che ‘bloccava’ la diplomazia nello scenario di avanzante globalizzazione.

È stata invece la scelta di regime change a ispirare Ronald Reagan a scatenare il riarmo dello ‘scudo spaziale’ come ‘bastone’ minaccioso verso l’economia ormai fallimentare dell’URSS che rendeva per essa insostenibile accogliere la sfida; inaugurando l’avvio istituzionale della globalizzazione industriale oltre i vecchi confini di Yalta.

È stata la stessa scelta idealista a suggerire a ‘W’ Bush di inaugurare la strategia della coalition of the willing delle democrazie liberali contro l’asse del male dei paesi integralisti islamici.

È stata la scelta idealista ad ispirare l’intollerante escalation di iniziative diplomatiche e militari da parte di Hitler per affermare il diritto di una nazione oppressa da secoli dalle democrazie liberali mentre Mussolini ha aderito a questa ispirazione per pure ragioni d’una presunta convenienza di ‘real politik’ verso un Terzo Reich ‘inevitabile vincente’ (sostenuto in ciò infatti da Winston Churchill fino a tutto il decorso bellico); che portò l’Italia ad abbandonare la sua posizione di spregiudicato opportunismo nutrito di idealismo verbale ad uso interno per aggregare velocemente consenso politico tra i ceti sociali esclusi dai regimi precedenti e dalle loro istituzioni e di pragmatismo decisionale verso gli interessi internazionali del sistema industriale del paese con gli efficaci meccanismi normativi del Codice Rocco, della Riforma Gentile, della solidità monetaria, del sistema di tutele IRI alla stabilità finanziaria ed a sostegno delle reti tecnologiche infrastrutturali, etc..

È idealismo l’ispirazione delle politiche autarchiche di Allende, di Castro e di Chavez oggi.

È fortemente pragmatico il criterio decisionale che ispira la politica estera e interna della Cina a partire dalla fallita rivoluzione culturale; Piazza Tienanmen si colloca tra le evidenze di questa scelta della real politik che si traduce in repressione dimostrativa verso le inaccettabili forme di dissenso non programmato all’interno del paese.

Oggi un’applicazione accettabile sia nell’ottica idealista che in quella della real politik per aiutare i paesi in cui la globalizzazione sta destabilizzando i vecchi regimi ed impedirvi l’avvento di peggiori regimi islamici integralisti, potrebbe essere negoziare con le spontanee ‘maggioranze silenziose’ disorganizzate in quelle società una loro spontanea convocazione di assistenza umanitaria consistente nell’arrivo di forze militari dell’UE o comunque internazionali (coalition of the willing) che creino delle enclavi militarmente protette in cui i profughi civili non impegnati nella guerra civile in corso trovino assistenza fino al momento in cui si sarà formato il regime sostitutivo.

Questa assistenza umanitaria potrebbe offrire sostegno selettivo a interlocutori ispirati da criteri di governo condivisibili in future relazioni internazionali. Non si tratterebbe di intervento militare diretto ma solo di tutela ai profughi. Eviterebbe che i profughi temporanei debbano trasformarsi in esodi destabilizzanti dal loro paese. Consentirebbe di avviare iniziative di finanziamento a progetti industriali destinati ad offrire applicazioni successive di utilità diffusa per il paese stesso (stazioni desalinizzatrici, impianti di produzione energetica, estrazione di acqua e irrigazione di piccoli appezzamenti, costituzione di centri sanitari locali, etc.). L’immagine dell’UE (o comunque dell’’Occidente’) assumerebbe carattere umanitario. Il costo degli interventi sarebbe inferiore ai costi di assistenza e integrazione delle migrazioni di massa. La sicurezza immediata e quella di lungo termine sarebbero maggiori rispetto al difficile controllo di fenomeni confusi e frettolosi. L’avvio di relazioni politiche con i leader emergenti sarebbe utile per stabilire sin dall’inizio una relazione politica condivisibile dagli interlocutori dei paesi in via di regime change e da quelli della coalition of the willing.

Occorrerebbe tempestività decisionale da parte di raggruppamenti di paesi ‘Occidentali’ che stanno vivendo l’agonia dei loro Stati Nazione e che quindi non hanno ancora consolidato l’efficienza delle istituzioni comunitarie.

Gli USA, che già godono invece di adeguata efficienza operativa e di capacità decisionale, si trovano nella situazione in cui ogni loro iniziativa dovrebbe essere concordata con la Cina e che tuttavia verrebbe malvista per la ‘proiezione’ di un ‘avatar’ nazionale negativo cui sono abituate le percezioni sulla politica estera degli USA presso i paesi in via di sviluppo.

Non resta che tentare di minimizzare gli impatti immediati e di più lungo periodo di un fenomeno cui l’UE non potrà dare alcun indirizzo di evoluzione; cinica che possa essere, questa è la strada che verrà seguita.