24/02/2009

1.Pseudo-crisi-globaale

Qualche considerazione esplicativa in merito alla cosiddetta ‘crisi globale’ che, secondo alcuni critici, dovrebbe dimostrare la irreversibile crisi del capitalismo e del ‘libero mercato’ che pertanto dovrebbe essere ‘regolato’ in modo da renderlo meno ‘selvaggio’.

A mio modo di vedere l’attuale ‘crisi globale’ è invece la dimostrazione dell’assoluta efficienza del libero e ‘selvaggio’ mercato finanziario che ha travolto ogni vecchio schema istituzionale radicato all’ormai defunto regime degli Stati Nazione.

La ‘crisi’ esiste già per quelle istituzioni liberal-democratiche ma obsolete che devono rapidamente concordare i nuovi ruoli nazionali nel contesto del mercato globale.

Quelle istituzioni ‘democratiche’ sono ‘costrette’ rapidamente a spartirsi gli oneri di riassorbimento graduale e concordato dell’esposizione debitoria del Nord generata per consolidare il trasferimento delle produzioni Manpower intensive al Sud.

Ne abbiamo beneficiato tutti, Nord e Sud, grazie a scelte assunte dalla vecchia Wall Street che ormai ha consolidato i suoi nuovi confini di una ‘Wall Street Globale’ che riesce efficacemente ad esercitare le nuove funzioni di ‘lobbying’ presso i vari vecchi legislativi nei diversi Stati Nazione.

I vecchi legislativi sono obbligati ad assumersi l’onere-sostenibile di assorbimento del debito accumulato nel Nord solo per evitare altrimenti le inevitabili reazioni elettorali delle varie Main Street che destabilizzerebbero la continuità delle elite nazionali (dai sindacati ai partiti e capobastone connessi) senza poter rispondere efficacemente alle aspettative che ormai Main Street in tutto il mondo e sotto qualsiasi regime pone loro in termini di partecipazione alla crescita economica.

Ciò che accade quindi non è né una ‘crisi industriale’ (che verrà evitata per le sue globali conseguenze), né una ‘crisi finanziaria’ (infatti i titoli spazzatura che hanno consolidato la globalizzazione possono essere riassorbiti assorbendone i contenuti selettivi di rischio-politico).

Ciò che avviene è una ‘crisi istituzionale e politica’ in quanto le vecchie istituzioni e relazioni internazionali stanno sotto pressione senza alternative tra concordare rapidamente un Nuovo Ordine Globale (inevitabilmente ispirato alla liberal-democrazia solo in quanto è stato generato dal ‘selvaggio’ libero-mercato) oppure subire globalmente, inutilmente e solo temporaneamente una fase recessiva industriale fonte di ‘sangue e lacrime’ ma destinata a ricostruire la corrente globalizzazione industriale sotto l’egida delle economie più solide, flessibili e competitive e sotto l’egemonia politica dei Paesi più credibili in quanto a capacità di reazione e riadeguamento istituzionale.

Per grandi linee posso indicare le ragioni per cui ritengo soprattutto strumentale l’allarme per la ‘crisi’ globale in corso.

Intanto una crisi che colpisce contemporaneamente e in modo strettamente correlato l’intero globo terraqueo dimostra l’ormai consolidato carattere soprannazionale dell’economia industriale.

Questo fatto di per sé segnala che di fatto esiste una ‘crisi’ solamente per le istituzioni politiche che si devono riorganizzare definendo procedure comuni e ruoli di peso reciproco commisurati alle individuali credibilità e prospettive di loro importanza nel nuovo contesto del mercato globale. 

Abbandonare deliri di onnipotenza nutriti dai singoli Stati Nazione costituisce certamente un tipo di ‘crisi’ che tuttavia nulla ha a che fare con qualsivoglia analogia delle crisi economiche di un passato che faceva riferimento al ‘peso militare-industriale’ dei singoli stati nazione.

Né d’altronde questa ‘crisi’ politico-istituzionale permette di essere elusa con forme di chiusura in forme di economia autarchica. Gli stati nazione che rifiutassero di superare questa ‘crisi’ negoziando un più sostenibile nuovo ordine globale sarebbero destinati a subire periodi di impoverimento e perdita del loro attuale livello di competitività per doversi reinserire quindi successivamente in condizioni peggiori e più penalizzanti.

L’impossibilità di eludere la negoziazione di accordi che complessivamente attribuiscano ai singoli stati ruoli e pesi la cui sostenibilità risulti commisurata nel medio termine all’effettiva affidabilità dei loro sistemi industriali conduce altresì a considerare poco significativa l’esistenza di valute diverse. In realtà il meccanismo unitario che presiede allo sviluppo industriale globalizzato ha già definito le quote di peso reciproco delle varie monete circolanti: il dollaro USA, la Sterlina, l’Euro, lo Yen e il Renmimbi.

Queste monete devono ridefinire i loro relativi rapporti di cambio in modo non rigido ma tale da evitare che la ‘crisi politico-istituzionale’ si traduca in ‘crisi economico-industriale’ che cioè lo sviluppo della economia industriale globalizzata debba subire inutili periodi di rallentamento o di blocco che sarebbero globalmente perniciosi senza evitare comunque di affrontare il processo di riassestamento degli equilibri internazionali.

I tassi di cambio dovranno accettare di rifinanziare i diversi sistemi economici nazionali nelle esposizioni finanziarie da loro accumulate al solo scopo di avviare e consolidare il meccanismo più progredito che la civiltà ‘Occidentale’ ha donato al mondo: la ‘globalizzazione’.

Si tratta infatti di un mercato unico ispirato ai criteri del libero scambio e garantito da una ‘governance’ di tipo liberal-democratico che oltre a mettere efficientemente a frutto tutte le risorse disponibili per la crescita del reddito individuale su base globale, tendenzialmente riconduce i conflitti emergenti nel corso dello sviluppo a negoziare tipi di soluzioni non belliche proprio per il generale e comune interesse a non ledere la suddivisione internazionale del lavoro al di là dei ristretti confini nazionali e quindi ideologici o confessionali.

Gli accordi che verranno definiti per rapporti di cambio che garantiscano la stabilità dello sviluppo non congeleranno d’altronde stabilmente i ruoli e i pesi reciproci dei singoli stati. Infatti l’economia subirà evoluzioni dietro la pressione di interessi soprannazionali di ottimizzazione della collocazione delle risorse disponibili. Ciò in regime di libero mercato avviene in relazione ai reciproci livelli di solidità e di competitività dei diversi sistemi industriali interconnessi. La ‘moneta unica’ sarà una graduale tappa del processo di sviluppo globale del reddito.

Il problema residuo quindi è definire oggi, sulla base dell’esposizione debitoria accumulata dalle singole economie, quali tassi di cambio convenga definire nell’interesso comune. È un fatto che ‘mette in crisi’ le istituzioni ma che la Wall Street Globale impone tramite le diverse lobby industriali sulla politica che non può evitare di accettarne le indicazioni.

Mi spiego. L’economia globalizzata potrebbe bloccarsi qualora l’economia USA smettesse di aumentare le sue importazioni. Ciò provocherebbe esiziali arresti produttivi di India, Cina, Corea e Giappone con esiti insostenibili di ordine sociale e politico. Ciò inoltre condurrebbe all’arresto delle importazioni di materie prime negli USA e nell’UE con risultati assolutamente insostenibili sia in Russia che nei Paesi produttori di petrolio e di minerali critici per la produzione industriale.

Se i Paesi meno industriali non accettassero di finanziare il graduale e pluriennale ‘rientro’ dal debito USA insomma si destabilizzerebbe l’intero sistema produttivo globale. Il risultato sarebbe tanto più oneroso quanto meno competitivo e consolidato fosse lo specifico sistema nazionale in questione. Né lo sbocco in conflitti militari sarebbe una soluzione in quanto la potenza militare e quella logistico-industriale dei singoli Paesi è strettamente correlata.

L’eventuale ondata di destabilizzazione industriale che dovesse colpire in modo indiscriminato il sistema industriale attuale condurrebbe a periodi di temporanea austerità e tendenziale autarchia oltre che a fasi di temporaneo autoritarismo politico e dirigismo economico-finanziario. Cose già viste anche nei Paesi più democratici e meno traumatiche ivi che non in quelli a regimi autoritari.

Il risultato di queste considerazioni è che ritengo sia interesse politico comune definire tassi di cambio che indirettamente accettino di sostenere l’economia USA chiedendo in cambio l’eventuale accelerazione della ‘delocalizzazione’ di fasi produttive ‘manpower-intensive’ sia nell’UE che in Asia. Il periodo in cui tale insediamento di ulteriori fonti di reddito al Sud potrebbe avvenire è un arco di tempo tra 3-10 anni il finanziamento del debito USA (e UE) potrebbe limitarsi a 3-5 anni senza creare le altrimenti inevitabili perdite di valore delle riserve accumulate comunque al Sud.

La ‘crisi’ non esiste sul piano reale la stabilità della globalizzazione non è in discussione tranne se gli stati che si sentissero eccessivamente ridimensionati o ghettizzati non ponessero in essere iniziative di ricatto nei confronti di Nord e Sud industriale al solo fine di poter negoziare migliori condizioni per il proprio sistema politico-istituzionale interno. È ciò che avviene in Russia con azioni patetiche ma di effetto su UE e USA. È anche ciò che avviene nell’America Latina con azioni invece inefficaci e farsesche.