23/11/2009

Storia e Cronaca

L’Italia ha un suo grandissimo ruolo nella Storia che si trova radicato nell’abbinamento della sua cultura popolare di due visioni profondamente condivise: un “provincialismo” quasi inossidabile che continua da secoli a generare l’innovazione artistica, scientifica e filosofica irrorando il mondo di spirito rinascimentale e un’ispirazione “cattolica” (cristiana) che caratterizza universalità alla sua scoppiettante eminenza culturale e le garantisce il credibile ed attrattivo status di Paese Museo (una sorta di Disneyworld stabile e nobile per beneficio culturale di chiunque ami la civiltà ‘Occidentale’). La Chiesa di Roma e l’industriosità locale sono da sempre i fattori che hanno caratterizzato la vitalità e lo spirito italiano e la sua fertilità nel mondo come agente capace di convertire i barbari alla civiltà ‘Occidentale’. Da Marco Polo, Cristoforo Colombo, Matteo Ricci, Martino Martini, Giovanni da Verrazzano fino a Giuseppe Tucci e agli odierni imprenditori del Nord Est, grazie a quella legione di “provinciali” innamorati del mondo e dei diversi, l’Italia ha diffuso nel mondo la sua visione di rispetto per i valori fondanti della sua civiltà Romana e cristiana garantendo alla Chiesa di Roma di riuscire gradualmente ad attualizzare quei valori fondanti (libera Chiesa in libero Stato) di Roma Imperiale senza cercare di imporli manu militari. Mentre gli Stati Nazione sono stati costretti ad occupare regioni geografiche per motivi di potenza nazionale e non per motivi di proprie specificità culturali.

L’Italia è quindi un Paese che rifiuta il ruolo di Stato Nazione che quel concetto di Nazione legittimamente sostituì alla forma istituzionale di Stato “globale” (l’Impero Romano ) che aveva assicurato l’esportazione universale della civiltà ‘Occidentale’ fino ai suoi confini geografici più avanzati dell’epoca pre-coloniale. L’era degli Stati Nazione è stata solo un’inevitabile fase di distacco dai criteri della Roma Imperiale per poter stabilire una stabile presenza e stabilità militare nelle colonie più distanti sotto Stati Nazione animati da un identico spirito ‘Occidentale’. È stato un processo di temporanea invasione dei Paesi barbari sulla traccia di ciò che era avvenuto all’interno dell’Impero Romano a suo tempo. Un processo lungo e traumatico sia per le colonie che per lo stesso ‘Occidente’ che, una volta conclusa l’occupazione militare, si è trovato a dovere fare i conti con gli interessi dello sviluppo industriale sia all’interno dell’Occidente che, gradualmente, nei confronti dei confini esterni ai tradizionali Stati Nazione europei nati dalla disgregazione del governo globale di Roma Imperiale. Dapprima le “colonie” nel Nord America, poi il Commonwealth e, oggi, i Paesi in via di industrializzazione con la costante, graduale estensione dell’“internazionalizzazione” dell’economia liberista.

L’Italia è il Paese che ha originato la civiltà ‘Occidentale’ fondandola sulla sua universalità incentrata sul concetto di adesione libera di ogni “barbaro” alle sue leggi. Leggi che trovano legittimità nella condivisione del progresso affidato alla pura competizione tra uomini nell’impegno individuale di costruire e difendere la crescita del benessere con l’eccellenza dell’innovazione tecnologica al di là di ogni settarismo ideologico. Questa Italia nei secoli è rimasta saldamente ancorata al duplice carattere della sua “cultura” che la rende universale e vitale (e che si estrinseca nella sua definizione emblematica di “Occidentale”); un inossidabile e radicato “provincialismo” e una visione “universale” dei suoi difetti e pregi provinciali che traspone nelle sue offerte culturali al di là di quegli angusti confini e che si trovano in sintonia con le aspirazioni universali di ogni uomo in ogni epoca. Individualismo integrato da relazioni umane ispirate a reciprocità di sostegno.

Questo carattere provinciale e universale riesce a generare quella scoppiettante, meravigliosa innovazione sia nelle arti che nella scienza, nella tecnologia e in filosofia che ha caratterizzato la civiltà italiana in ogni epoca (anche se spesso all’estero e sotto regimi di Stati Nazione opposti alla sua visione “globale” della civiltà).

Non per niente l’unica istituzione universale rimasta in Italia è la Chiesa di Roma tra i protagonisti della “globalizzazione” in corso e non per nulla l’Italia non ha mai trovato ragioni condivise dalla maggioranza della sua gente per istituire uno Stato Nazione. Pur convinti della condivisione di un unico “volgare” dopo il decadere del “latino” da lingua popolare, gli italiani si sono sempre sentiti “partigiani” della loro provincia e della sua “superiorità” rispetto ad ogni altra. Tutti si sono però sentiti rappresentati dall’eccellenza dei capo-lavori generati dalle nicchie provinciali della sua cultura nazionale. Napoleone, Colombo, Eugenio di Savoia, Tucci, Depero, Balla e perfino Mozart sono percepiti fare parte della cultura italiana in piena continuità nei secoli.

L’Italia non ha mai avuto l’auto-percezione di Stato Nazione perché quel concetto è servito ai “barbari” per “liberare” i loro Paesi dall’obbedienza alle leggi dell’Impero Romano origine della civiltà ‘Occidentale’ fondata sulla sua universalità incentrata sul concetto di adesione libera di ogni “barbaro” alle sue leggi che trovano la loro legittimità nella universale condivisione di affidare il progresso alla pura competizione tra uomini nel costruire e nel difendere la crescita del benessere con l’eccellenza dell’innovazione tecnologica e nel rifiuto di un governo della cosa pubblica che si ispiri alle teorie di ideologie astratte.

Questa Italia ha conservato la consapevolezza e l’orgoglio di appartenere alla stessa cultura nazionale ma non ha mai tradito la sua convinzione di appartenere alla civiltà di Roma senza mummificare la Storia ma valutandone le evoluzioni in modo scettico, cinico e distaccato nella convinzione che la propria vitalità sia radicata nel proprio “locale”.

Il tardivo tentativo di creare un artificiale Stato Nazione nel Paese che ha originato la civiltà ‘Occidentale’ e la sua universalità è fallito quindi non solo in quanto in conflitto con la sua ispirazione “culturale” romana e cristiana ma soprattutto in quanto antistorico. Gli Stati Nazione infatti erano già alle soglie della loro fine per partorire, con lungo travaglio di quasi due secoli di sanguinosi conflitti (che hanno distrutto il concetto stesso di Stati Nazione), l’attuale era globalizzata della civiltà ‘Occidentale’ che vede negli USA l’unico Paese che non è uno Stato Nazione e che, abbracciati tutti i criteri filosofici di Roma Imperiale è oggi legittimato a stabilire la nuova “governance” globale nel contesto di un mercato industriale libero dalla sottomissione a qualsiasi regime ideologico e fondato su astratte teorie intellettuali.

Dopo questa premessa che illustra la mia visione della “Storia” e del fondamentale ruolo che hanno svolto gli italiani nel suo ambito in un modo costante e fondamentale, vorrei esprimere una considerazione su ciò che ci illustra la “cronaca” politica in merito a quanto è in corso in Italia oggi per concludere una fase della “storia” nazionale più recente, insignificante per la “Storia” della civiltà anche se traumatica e drammatica per chi vi si è trovato esposto.

Orbene la fase storica “insignificante” e che quindi meriterebbe solo l’attenzione dei cronisti, è partita dalla metà dell’ottocento con un’operazione patetica e anti-storica che cercò di imporre al Paese un’unità sulla traccia degli Stati Nazione ormai alle soglie della loro fine. Il processo venne astrattamente concepito da una minoranza di intellettuali che erano tra l’altro espressione di sistemi politici tra loro incompatibili e diversi e che vennero sostenuti nell’implementazione del loro progetto da uno Stato ispirato da valori alieni alla stra-grande cultura cristiana e autoritaria prevalente nel Paese. Il Piemonte era stato infatti contaminato in modo profondo dai valori giacobini e massonico-scientisti della rivoluzione francese e, successivamente, da quelli della restaurazione del terzo impero che erano totalmente alieni alla cultura preponderante in Italia. Gli unici altri Stati che avrebbero potuto dare, con maggiore ragione e legittimità culturale, unità al Paese erano esclusi per diverse ragione. Infatti la Repubblica Veneta era stata distrutta dall’invasione napoleonica e l’Impero Austro-Ungarico era l’emblema opposto allo Stato Nazione col multi nazionalismo in continuità col Sacro Romano Impero, lo Stato Pontificio sarebbe stato una regressione verso la ierocrazia e ripristino di unificazione tra Stato e Chiesa mentre il Regno delle due Sicilie era troppo collegato alle dinastie borboniche e absburgiche, oltre a non essere mai stato rappresentativo della cultura “romana” o “italiana”. Altri Stati che erano forse più rappresentativi della cultura “italiana” erano troppo deboli o marginali al gioco politico, come il Granducato di Toscana, per poter implementare la riunificazione con una filosofia “federativa” (alla Carlo Cattaneo). Sempre anti-storica ma aperta alle successive evoluzioni verso l’Unione Europea e verso la globalizzazione della governance di oggi.

Concepito da una minoranza senza seguito popolare e sostenuto militarmente da uno Stato determinato ma “alieno” allo spirito cristiano e poco rappresentativo della cultura “italiana”, quel disegno anti-storico, dopo il successo sul campo grazie all’abilità di poche “menti sottili” (Cavour e Giolitti tra i più dotati) e di qualche scalmanato (i poveracci della spedizione di Sapri suggestionati dal sempre prudentemente esule Mazzini e in seguito Garibaldi e i suoi Mille picchiatori), ha fallito a realizzare l’unificazione italiana che ha sempre visto il “Mezzogiorno” restare tra i problemi insoluti. Non per mancanza di risorse investite ma per l’assenza di prerequisiti consensuali. Mussolini, per pure ragioni di politicante, dovette assumere il potere legittimato da aspettative di rilancio dell’orgoglio nazionale che giustificasse un forte governo centrale capace di garantire a tutti gli italiani un domani sereno e luminoso (la solita promessa demagogica di lacrime e sangue oggi in prospettiva del paradiso domani – infatti Lui era de-sinistra). Mussolini effettivamente costruì le strutture di uno Stato capillare (scuole, strade, bonifiche, acquedotti, trasporti, sanatori, colonie, INPS, INAIL, INA, IRI, etc.) ma fu costretto a cavalcare l’antistorico obiettivo di costruire in Italia l’ultimo Stato Nazione con la pretesa della Guerra tradita e del diritto a spazi vitali scimmiottando la realtà di tradizionali Stati Nazione che erano ormai giunti alla frutta in quanto a capacità di soddisfare le aspettative di sbocchi per le industrie se fossero state ancora limitate ai mercati nazionali. Il nazionalismo doveva avere radici storiche sulle quali rifondarsi ed esse vennero facilmente trovate nella grandezza di Roma Imperiale. Ciò richiedeva una politica estera che rivendicasse un “posto al sole” per distribuire ai coloni terre di proprietà da coltivare per elevare il proprio reddito familiare e per alimentare la nazione. Era un disegno che oltre a risultare costoso in quanto a spese militari e diplomatiche, sollevava reazioni da parte dei Paesi industriali concorrenti, imponeva anche grandi risorse finanziarie e tempi medio-lunghi prima di garantire un ritorno sull’investimento. Il consenso a quella politica da parte dell’industria nazionale fu assicurato dalla partecipazione di “sciaboletta” ai ritorni sia economici che di status (Imperatore d’Italia, di Eritrea, Re di Albania). Il consenso popolare fu ottenuto dalle innovazioni effettive che vennero percepite diffusamente tramite la propaganda (welfare state, colonie, bonifiche, trasporti, sport, successi industriali navali, automobilistici, aeronautici, EIAR, Cinecittà). Tutto ciò unito al simbolismo di Roma Imperiale e dell’urbanistica connessa, garantì una formale partecipazione popolare al programma di costruzione dell’ultimo Stato Nazione (in realtà l’ultimo a nascere è stato Israele che infatti sta incontrando analoghi limiti anti-storici). La partecipazione fu solo superficiale. In realtà il consenso era per le migliorie socialmente percepibili più che non alla mobilitazione convinta verso obiettivi nazionali alieni alla cultura profonda del Paese (che restò al fianco della Chiesa in atteggiamenti spesso di “fronda” politica o seguì in modo scettico e con formalismi cinici le “mobilitazioni” del regime). Non appena il conflitto diede dimostrazione dell’inadeguatezza del Paese, la “fronda” divenne ostilità e il regime terminò il suo sforzo sterile di costruzione dell’ultimo Stato Nazione alle soglie della crescente internazionalizzazione industriale.

Infatti, terminato il conflitto, si avviò rapidamente un processo di internazionalizzazione dell’’Occidente’ coi trattati di Roma (simbolismo di appartenenza alla civiltà di Roma Imperiale), con l’Unione Europea e caduto del muro di Berlino, con l’attuale globalizzazione.

Orbene, dato questo grossolano escursus “storico”, possiamo esaminare ciò che sta accadendo nella nostra meschina “italietta” sul piano della cronaca più mendace ed ipocritamente commentata dalle “menti sottili” sui media nazionali.

Prima della “caduta del muro”, pochi lungimiranti statisti si erano resi conto dell’assoluto provincialismo del duo Moro Berlinguer che, con la loro politica consociativa, cercavano di sfruttare lo spazio offerto al Paese dalla situazione geopolitica della “guerra fredda”. L’Italia infatti aveva il partito cattolico più forte e il partito comunista più forte del blocco occidentale. La convinzione dei due leader politici era che la situazione internazionale sarebbe restata bloccata nella situazione della guerra fredda per lungo tempo. Convinti di ciò e controllando il 70% del potere governativo (IRI, ENI e Confindustria) e di opposizione (CGIL e PCI) i due “statisti” facilitarono una politica di destabilizzazione delle istituzioni statali che li costringesse formalmente a ristabilire una pace sociale con un governo di unità nazionale (sulla traccia di ciò che era stato ipotizzato alla nascita della Costituzione Repubblicana coi governi Parri fino all’esclusione del PCI e avvio del “miracolo economico” capitalista liberale).

La strada della destabilizzazione fu lunga e si avviò con graduali infiltrazioni nelle istituzioni di stampo liberale o autoritario (tesoro, interni, esteri, difesa, RAI) di “menti sottili” organiche al disegno di Gramsci. Il sessantotto avviò una graduale preparazione della società ad accogliere il governo di solidarietà nazionale in massa. A partire da quella data i partiti più liberali e gli elettori meno facili al plagio dei 2 partiti principali avviarono un loro graduale distacco dai partner precedenti e una loro resistenza a quella strategia illiberale. La DC raccoglieva voti a destra per andare a sinistra mentre il PCI reprimeva ogni tentativo di autonomia a sinistra. Così avvenne in occasione di grandi eventi nazionali e internazionali (invasione di Ungheria e della Cecoslovacchia, accordi ENI con Libia e Iran, esclusione del MSI dall’”arco costituzionale”, etc.).

Il PSI avviò una sua strategia politica che sfruttasse lo spazio esistente in politica estera e interna tra i due partiti principali DC e PCI. Il “riformismo” avviato dal PSI cerava costante disturbo non solo sul piano della cattura del consenso elettorale ma anche su quello del potere economico. La partecipazione del PSI ai governi e in CGIL costrinse sia PCI che DC a cedere porzioni di potere, quindi a ostacolare il tragitto verso il governo di solidarietà nazionale. Ogni resistenza da parte dei poteri esclusi o danneggiati dalla strategia di Moro e di Berlinguer (solo sinteticamente espressione di una linea politica che li trascende ma che è saldamente legata a concreti interessi parassitari) colse ogni occasione per esprimere il proprio “dissenso” anche in modi che erano finanziati illegalmente da organismi internazionali i quali non avevano interesse al rilancio dell’Italia sul piano internazionale. Ciò avviò fenomeni quali l’incidente di Enrico Mattei, bombe di “stampo fascista”, sabotaggi a “gatto selvaggio”, attentati dimostrativi de-sinistra contro giudici e industriali, graduale sbocco terrorista del conflitto ideologico sessantottino (i “cattivi maestri”) il tutto finanziato da servizi segreti e mafie più meno tradizionali ma sempre parassitarie rispetto allo sviluppo industriale del Paese. Ù

Questa resistenza del PSI costò enormi cifre che, non avendo gli stessi canali di finanziamento “indiretto” (CIA, KGB ma anche cooperative, patronati, aziende parastatali) dei due competitori politici, costrinsero il partito a ricorrere in modo crescente a canali di finanziamento ottenuti in un processo perverso di tangenti ottenute con accordi consensuali di corruzione/concussione nei confronti soprattutto dei nuovi industriali emergenti che, in genere, soffrivano del consociativismo la loro esclusione a goderne dei benefici riservati ai grandi gruppi industriali del parastato o comunque ricattabili tramite banche e sindacato.

Craxi fu il leader politico di maggiore successo del PSI. Il suo finanziatore e amico fu Berlusconi che diede grandi risorse a sostegno delle campagne politiche del PSI.

Crollato il muro di Berlino apparve evidente la sconfitta del consociativismo e dell’”inciucio” PCI/DC e il successo, per differenza, del riformismo socialista. Il PCI fu costretto a scatenare i suoi infiltrati nelle varie branche dello Stato e la sua “meravigliosa macchina da guerra” con il sostegno dell’ala de-sinistra della DC delle “menti sottili” convinto che gli fosse aperta l’ultima chance di governare il Paese. Lo sforzo di Occhetto avrebbe certamente avuto successo se il PCI avesse avuto la lungimiranza di celebrare la sua abiura del marxismo prima della caduta del muro al tempo del congresso di Bad Godesberg dei socialisti tedeschi. Invece gli elettori erano ancora convinti del carattere illiberale e anti-capitalista che animava la strategia dei DS ex-PCI e fu sufficiente che Berlusconi (costretto solo dalla difesa del suo patrimonio industriale) entrasse in politica tre mesi prima delle elezioni, per condurre il bluff (o wishful-thinking) di Occhetto al fallimento.

Fallito quel tentativo, ogni ulteriore tentativo dietro etichette diverse e fantocci di comodo, fu destinato a fallire (anche la “vittoria del 2006” in realtà fu solo un mezzo successo e per poche migliaia di voti frutto tra l’altro dei meccanismi della legge elettorale) ed a confermare agli occhi dell’elettorato non de-sinistra che Berlusconi (indipendentemente dalla sua storia di industriale o di amico e finanziatore di Craxi) fosse la diga contro il successo del vecchio blocco consociativo (e fonte del disastro economico post-miracolo economico) DC/PCI.

Siamo allora giunti a oggi e possiamo leggere a cuor leggero tutte le ipocrisie che illustrano i tentativi di superare la stasi istituzionale in Italia con la cancellazione di una Costituzione mai applicata completamente e obsoleta sia ideologicamente che rispetto alla realtà geo-politica di oggi.

La nuova Costituzione potrà essere facilmente scritta in pochi mesi qualora il vecchio e perdente blocco di interessi parassitari DC/PCI/CGIL rinunciasse definitivamente a perseguire la speranza di successo tramite l’azione estranea alla politica (terrorismo ricattatorio prima e magistratura ad-personam oggi). Gli italiani sarebbero disponibili a destinare il proprio voto a due blocchi politici che fossero entrambi credibili come liberalismo filo industriale. Ciò richiede solamente un atto politico preliminare da parte dei due blocchi al parlamento; la tutela ad-personam di Silvio Berlusconi ope legis “contro” ogni protesta di magistrati e delle lobby parassitarie (sindacali e confindustriali).

Ogni altra illustrazione “tecnica” delle cose risulta appunto solo “tecnica” e quindi estranea alle ragioni della politica che deve ripartire dalla cancellazione dell’”inciucio” de-sinistra che poteva avere sue ragioni prima della caduta del muro ma che è ormai anti-storica e radicata sulle tutele parassitarie delle corporazioni ottocentesche nate sotto lo Stato Nazionale già vecchio all’atto della sua nascita in Italia.