23/04/2010

Il Caso Eyjafjallajokull

Il recente Caso sollevato dall’eruzione (imprevista – in quanto “non prevedibile”) del vulcano Eyjafjallajokull in Islanda ci può aiutare a smitizzare molte delle diatribe e valutazioni di segno squisitamente intellettuale che sono in corso sulla stampa. C’è stata eccessiva “prudenza” che ha creato inutili disagi? A chi verranno attribuiti i costi subiti a causa dell’eccessiva prudenza dal sistema economico? Saranno i soliti contribuenti o le avide e imprevidenti aziende?

Intanto può trarsi una conferma circa l’enorme inefficienza del sistema Europa. L’unico organismo dotato di dati tecnici su meteorologia e sull’analisi del “particolato” è stato l’ente britannico preposto (l’unico Paese più integrato con gli USA ed il Commonwealth che non con l’U.E.. Gli enti nazionali preposti alla gestione della sicurezza del traffico aereo hanno dimostrato un mutuo scollamento nelle decisioni assunte, ciò indica in uno dei pochi comparti d’industria saldamente internazionalizzato un’assenza di coordinamento politico e istituzionale che conferma l’assenza di capacità decisionali nelle recenti emergenze finanziarie (caso Grecia) e costituzionali (trattato di Lisbona).

Successivamente merita esporre qualche considerazione di carattere più generale sul caso Eyjafjallajokull.

Il progresso civile viene prodotto dalle innovazioni tecnologiche che si avvicendano in una catena di prove ed errori alla ricerca di migliorare unitamente la sicurezza, la qualità e l’accessibilità delle soluzioni offerte ai consumatori.

Tutti siamo “consumatori”. La Fiat è consumatore di acciaio e di energia, le famiglie sono consumatrici di cibo, viaggi e energia che alimenta quotidianamente i più diversi panieri di consumo familiari.

La sicurezza delle soluzioni tecnologiche non può essere garantita totalmente in sede di progettazione ma viene gradualmente arricchita a spese di “sangue e lacrime”; come, nel caso delle soluzioni aeronautiche, ci insegnano i casi del Comet britannico negli anni ’50 (che crollavano per le microlesioni strutturali prodotte dalle vibrazioni “trattenute” all’interno della struttura portante del velivolo invece di essere lasciate libere di disperdersi nell’aria circostante grazie al fissaggio elastico dei motori alle ali) o quello della previsione del terremoto de l’Aquila (6 Aprile 2009) la cui segnalazione più corretta risulta quella di Giampaolo Giuliani (la regione sarà colpita domenica 29 marzo da un terremoto «disastroso») che ne aveva collocato l’epicentro a Sulmona, in data imprecisa e in ora indefinita.

I modelli scientifici non possono dare previsioni prescrittive ma solo qualitative quando si tratta di sistemi termodinamicamente complessi che in genere risultano solamente quasi-stabili in quanto auto-regolatori secondo la teoria di Ilya Prigogine descritta mirabilmente dal sistema matematico di Per Bak.

In assenza di previsioni che siano complete e prescrittive, la regolamentazione civile che deve assumersi la responsabilità delle scelte politiche nella gestione delle soluzioni tecnologiche fornisce solo dati qualitativi sui quali l’ente politico preposto al governo deve decidere i limiti dell’operatività della soluzione alla luce di fatti che risultano totalmente innovativi nella storia della soluzione stessa e delle conoscenze disponibili dai dati scientifici. Si tratta quindi di decisioni a rischio nel senso deteriore (ma “naturale” secondo il buon senso) del termine. Cioè, contrariamente a quanto il “senso comune” cerca di farci credere, il rischio che affligge ogni scelta umana non può essere in alcun modo valutato sulla base di precedenti esperienze pratiche acquisite sul campo. Tanto più se si tratti di decisioni che concernono l’operatività di soluzioni tecnologiche ed organizzative di grande complessità esposte a eventi rari e di caratteristiche altamente innovative (quali l’impatto di specifici elementi componenti un “particolato” la cui composizione chimica e fisica risulta poco standardizzabile anche dagli stessi vulcanologi).

Il “senso comune” diffuso di media “organici” agli eterni demagoghi che affliggono la società civile vorrebbe suggerirci che l’”accademia” sia in grado di “programmare” l’operatività della società civile sulla base della sicurezza che discenderebbe dall’autorizzare la produzione di soluzioni tecnologiche pienamente prevedibili nella loro esposizione agli imprevisti derivanti da una società libera (soggetta agli stimoli di sempre nuove aspettative di qualità di vita e da un’avidità individuale di maggiore benessere indipendentemente dai rischi che possano derivarne).

Altra pretesa diffusa dai demagoghi e dalla divulgazione “scientifica” è che il progresso della società liberale sia contrassegnato da alti rischi il cui costo viene pagato dai “contribuenti”. In realtà il “buon senso” liberale ci insegna che gli alti rischi sono la conseguenza dell’elevata crescita di reddito, qualità, occupazione e di un diffuso benessere proprio grazie alla crescita in redditività della produzione di beni e servizi che soluzioni tecnologiche sempre più diffusamente accessibili offrono a fasce sempre meno elitarie di “consumatori”. Il cui ruolo di “contribuenti” nasce solo successivamente a quello di “consumatori” in cui risiede l’unica fonte di libertà di scelta che si riduce proprio al crescere del prelievo fiscale di risorse sottratte in tal modo al libero esercizio di scelte individuali. Altro elemento che il “senso comune” dei sinedri di demagoghi ed “accademici” vorrebbe consolidare è che “consumatori” e “contribuenti” siano solo gli individui prestatori d’opera mentre il “buon senso” ci suggerisce che anche le aziende, lo stato, le parrocchie, i sindacati e in generale tutta la gerarchia delle “istituzioni” liberal-democratiche (tutte pubbliche in quanto di interesse “diffuso” mentre solo qualcuna non è gestita da “privati” ma da organismi collettivi in cui spesso la responsabilità decisionale viene diluita fino a livelli che ne agevolano l’inefficienza operativa (costi per i “consumatori”), la perdita di competitività (monopoli di proprietà sia privata che statale – e relativo scadimento di qualità) e la perdita di trasparenza gestionale (coi fenomeni di clientelismo, corporativismo, malversazione, corruzione e fonte di ogni tirannia delle “istituzioni” sui “consumatori”).

In realtà tutti sono “consumatori” in quanto tutti devono essere “produttori” per ricavare i loro redditi dalle proprie prestazioni. Solo gli “individui” sono costretti (se operano in un “libero mercato”) a una permanente scelta responsabile delle proprie azioni nel ruolo di “produttori”. Al crescere dell’aggregazione sociale che le definisce (azienda, chiesa, comune, sindacato, corporazione, cosca, ‘ndrina, etc.) sono invece le “istituzioni”, indipendentemente dalla loro “legalità” o carattere “statale” o “privato”, ad esercitare le “produzioni” di loro competenza statutaria eludendo le ricadute di responsabilità delle loro scelte e prestazioni. Le loro possibilità di minore assunzione di responsabilità si traducono in costi maggiori per tutti i “consumatori” (sia aziende, che enti privati o statali e individui). Tanto se il mercato dei consumi sia libero o “programmato”. Tuttavia una “programmazione” definita dal sinedrio “irresponsabile” e priva di alcuna capacità di “previsione” cui sia affidato il compito di decidere la crescita industriale e scientifica sarebbe come l’affidare le monete d’oro al Gatto e alla Volpe da parte dell’eterno Pinocchio-consumatore nel suo percorso di crescita umana e civile attraverso le eterne insidie di una società avida e di una natura inclemente. Il “buon senso” sconsiglia di riporre fiducia nella “superiore” capacità dei “protettori” di risparmiarci la responsabilità delle scelte che non possono che essere “individuali” in ogni società libera.

Per tornare al caso in questione, possiamo tranquillamente rifiutare ogni polemica che s’incentri sull’eccesso o carenza di prudenza esercitata dalle “istituzioni” nazionali e internazionali preposte alla sicurezza sul volo ma dobbiamo cogliere nuovi spunti per evidenziarne l’assoluta inadeguatezza a valutare le conseguenze che le loro scelte inevitabilmente travasano sul “consumatore”.

Infatti qualora le decisioni (peraltro prive di ogni credibile fondamento scientifico) fossero state di eccessiva prudenza i danni derivanti al traffico (costi aziendali, costi delle merci avariate, costi dell’interruzione di scambi, aumento dei costi assicurativi, aumento delle tariffe aeree, aumento della disoccupazione per ogni possibile fallimento aziendale, etc.) verrebbero trasferiti sui consumatori tramite il gioco della competizione sul libero mercato. Qualora invece le decisioni fossero state meno prudenti i costi possibili sarebbero stati pagati dai “consumatori” sia sul piano umano (possibili disastri aerei) e sia sul piano dei conseguenti oneri maggiori. In ogni caso, sia che le autorità politiche decidano di trasferire i costi della perdita di PIL generata dall’eruzione in questione sulle sole aziende di trasporto aereo, sia sulla fiscalità generale (aziende e individui tutti “consumatori”) saranno i “produttori” a doverne sopportare le conseguenze. Nel primo caso con una inevitabile crescita dei fallimenti, aumento di disoccupazione e crescita dei prezzi, nel secondo caso con una crescita del prelievo fiscale sia alle aziende che agli individui “consumatori” del servizio del trasporto aereo e dei beni e servizi ad esso connessi.

Si ripete la sterilità della “programmazione industriale” da parte dei sinedri politico-accademici che abbiamo già avuto il privilegio di accertare di recente con la “previsione” dell’epidemia di influenza suina e il connesso approvvigionamento di vaccini, con la “previsione” dei terremoti de l’Aquila, di Haiti, di quello in questione e con la “previsione” della “crisi” finanziaria, del suo acme (peggiore di quella del 1929!), del suo rientro ed il connesso esito “morte del paradigma del capitalismo-liberista”. Per tacere dell’emersa truffa demagogica della “previsione” del “global warming” con l’associata “previsione” che esso fosse “man made” (cioè creato dall’uomo con la sua pervicace adesione al paradigma stesso del capitalismo-liberista).

Questi sono gli insegnamenti che ci conferma il “buon senso” di cui la Natura ha intriso ciascun essere vivente costretto quotidianamente a “produrre” il proprio reddito in piena responsabilità di scelta in ogni epoca, razza e cultura. Ricordiamo la saggezza del racconto africano che suggerisce sia alla gazzella che al leone di svegliarsi e “correre” se vuol garantirsi un domani, sempre incerto (“precario”) non ostante quanto ci viene invece suggerito dal “senso comune” inventato da gatti e volpi che si propongono a sapienti, onesti e benevoli tutori del pubblico interesse contro l’avidità che anima ogni altro “produttore” di beni e servizi sul libero e “selvaggio” mercato degli scambi.

Diffidare di gatti e volpi è sempre saggio. Imporre a gatti e volpi di rischiare le loro offerte di servizio in reciproca e libera competizione è altrettanto saggio. Delegare ad istituzioni collettive il compito di valutare i compensi dovuti a compenso delle nostre prestazioni produttive è meno saggio che negoziarne l’ammontare nella condizione di “free lance” (di professionisti libero imprenditoriali – come idraulici, elettricisti, cottimisti a domicilio, venditori, ingegneri, commercialisti, medici, dentisti, giornalisti, autori, etc.) ma può essere una scelta obbligata per certe professioni tecniche e questo comporta l’inserimento contrattuale individuale nella prima delle istituzioni di interesse “pubblico”; l’azienda. Una scelta che richiede ulteriori dosi di attenzione e di energia psichica per tutelare la propria remunerazione dall’avidità altrui (capi, colleghi, direttori, proprietari, etc.). Ma legittimare istituzioni di interesse “pubblico” di livello superiore all’azienda a svolgere il ruolo di “tutore” dei propri interessi “privati” familiari significa ipotizzare che, a partire dal livello superiore a quello aziendale, le istituzioni di interesse “pubblico” non siano popolate da “prestatori d’opera” altrettanto avidi ed egoisti di quelli che rischiano il proprio reddito sul mercato offrendo lavoro assumendo la responsabilità diretta delle conseguenze. Si ipotizza che i prestatori d’opera che popolano le istituzioni di interesse pubblico siano dotati di migliori capacità “valutative” (certificate dall’”accademia”) e animati da aspirazioni di gratificazione altruista contrariamente a tutti gli altri “produttori” che animano il mercato di scambio di beni e servizi (anche quelli politici e religiosi). Si tratta chiaramente di un’ipotesi priva di “buon senso” e inoltre confutata costantemente dall’esperienza storica (sulla cui base dovrebbe consolidarsi e poi si dovrebbe “divulgare” in modo istituzionale – rapido ed agevolato – il “senso comune” vigente nella società).

Di esseri umani “buoni” e “disinteressati” sono piene le istituzioni che non si propongono di “lavorare” ma di condividere conoscenze spirituali in modo gratuito (i “missionari”) ed anche loro spesso risultano animati da dosi di intolleranza deteriore o perfino nociva e letale per l’interesse “pubblico”. Anche a quelle istituzioni si dovrebbe imporre di sopravvivere contendendosi il consenso dei potenziali adepti sul libero mercato. Ciò li porrebbe nella “naturale” condizione di legare responsabilmente i loro comportamenti ai gradi di consenso e delle offerte che liberamente gli adepti sono disposti a versare come prezzo-equo del servizio ricevuto (come la attuale sceneggiata mediatica relativa alla pedofilia che affliggerebbe la Chiesa Cattolica pretenderebbe di conseguire).

La morale di “buon senso” conferma, contro il “senso comune” politically correct, che l’avidità anima ogni “produttore” e che il miglior modo per contenerne le conseguenze nefaste è quello di costringere tutti i “produttori” di beni, idee e servizi a competere sul libero mercato le loro “private” aspirazioni a guadagnarsi le associate aspettative di remunerazione. Senza permettere loro di farsi scudo ideologico della “superiorità” di istituzioni presunte dotate di maggiore legittimità, contenuti e finalità “etiche”.