22/04/2011

Globalizzazione industriale e governance condivisa

Il sistema di Stati Nazione che è stato responsabile dell’estensione graduale della civiltà ‘Occidentale’ su tutto il globo e che ha disegnato la suddivisione delle colonie alla chiusura di quell’epoca è in via di sostituzione da un nuovo sistema di governo adeguato a garantire stabilità al sistema industriale globalizzato.

I confini territoriali degli Stati Nazione nelle regioni un tempo assoggettate al regime coloniale sono privi di una stabilità ‘nazionale’ al loro interno e sono in genere dominati da oligarchie non rappresentative dei loro ‘sudditi’ e non raccolgono il generale consenso politico nazionale ma si limitano ad esercitare un’egemonia tribale su altri clan di minore capacità manovriera all’interno di quei confini artificiali sul piano geopolitico.

Il consenso tribale viene raccolto e legittimato da ragioni puramente di forza (i ‘signori della guerra’ nei casi più semplici) o di integralismo religioso (i ‘fondamentalisti’ autorizzati a governare in nome della ‘purezza’ più ortodossa e totalitaria nei casi più complicati da affrontare).

Anche i paesi di maggiore densità demografica (India, Pakistan, Cina) ed ex-colonie del Nord sono afflitti al loro interno da questa potenziale instabilità politica dettata dalla disomogeneità etnica, religiosa, culturale e spesso politico-istituzionale spesso profondamente radicata nelle popolazioni locali che formano i sistemi dei loro sudditi.

Molti sistemi istituzionali consolidatisi nei paesi meno industrializzati legittimano infatti forme politiche di legittimità del potere di tipo liberal-democratico che impongono alle oligarchie di governo il rispetto dei diritti fondamentali formalmente condivisi nelle sedi istituzionali soprannazionali; l’ONU e le sue agenzie.

I conflitti regionali interni a quei paesi ne minacciano la stabilità di consenso che è la premessa necessaria per gestire i moderni sistemi industria-stato di dimensioni ‘nazionali’ (Tibet, Hong Kong, Taiwan, Uiguri, Kashmir) in chiave multirazziale e multi confessionale.

L’attuale fase industriale maturatasi all’interno dei paesi più industrializzati (il Nord) ha condotto a colmare le capacità del loro mercato interno di assorbire il potenziale produttivo sovrabbondante quelle esigenze anche se esaltate in modo artificioso da strumenti pubblicitari (moda, status symbol, etc.).

Il potenziale produttivo prepotentemente esuberante le capacità di assorbimento interno al Nord hanno spinto i principali gruppi industriali ad ottimizzare le risorse finanziarie disponibili su base globale (Nord & Sud) riorganizzando le fasi produttive in modo che l’estesa catena produttiva permettesse di finanziare le più ‘man power intensive’ al Sud (dove risiede il maggiore mercato di potenziali consumatori) e quelle più ‘capital intensive’ al Nord (dove il costo dell’innovazione tecnologica ed organizzativa risulta minimo) così che la complessiva riorganizzazione consentisse di ricavare dosi di ‘ritorno sugli investimenti’ superiori a quelle permesse dai vecchi assetto dell’organizzazione industriale.

La maggiore redditività è stata verificata fattibile ed ha prodotto la virtuosa conseguenza di poter sostenere la crescita di prodotto interno lordo sia al Nord che al Sud i cui sistemi industria-stato si trovano concordi a ricercare nuovi accordi di governance globale per non chiudere le porte al processo della globalizzazione cui si può attribuire la causa politicamente ‘esogena’ (e trasparente) del ‘miracolo economico’.

La crescita dei redditi nazionali al Sud ha sollevato disagi politici in modo analogo a ciò che ha sollevato al Nord con l’obbligo di rivedere i privilegi non più sostenibili del welfare state e delle corporazioni parassitarie dei vecchi Stati Nazione ex-colonialisti.

I disagi meritano tutti di essere affrontati senza fughe improponibili o esodi di massa di chi li vive verso inesistenti paradisi di benessere e armonia sociale il cui risultato sarebbe solo quello di privare il Sud delle sue migliori risorse produttive e creare al Nord forme di reazione politica che rallenterebbero la crescita del prodotto industriale globale con danno per entrambi i partner coinvolti nella comune riorganizzazione della governance istituzionale.

Occorre esaminare per grandi linee i tipi di diversi disagi che affliggono i regimi di governo del Sud.

Al Sud esistono due distinti tipi di sistemi istituzionali, uno tribale e privo di alcuna capacità organizzativa interna al paese (Somalia, Yemen, Libia, Afghanistan, Sudan e molti stati dell’Africa nera), l’altro invece più capace di coordinare l’organizzazione politico-economica nazionale (Iran, Marocco, Algeria, Tunisia, Iraq, Azerbaigian, Pakistan, India, Cina).

Il primo blocco di paesi riceve il proprio reddito nazionale in modo parassitario dal Nord che vi acquista le materie prime necessarie ad alimentare il sistema produttivo globale e non lo ridistribuisce con finalità di interesse ‘nazionale’ ma di pesi ‘tribali’; compensare la satrapia al potere e comprare con adeguati bakshish la sudditanza dei signori della guerra più deboli. Seppure di minore densità demografica questi paesi creano al loro interno le condizioni più gravose per le loro giovani generazioni ed il potenziale sviluppo industriale nazionale. Il risultato è un esodo massiccio verso i presunti ‘paradisi sociali’ del Nord con i mezzi di fortuna e tramite nuove forme di tratta di schiavi e di commercio criminale; tacitamente accettato per presunte ragioni ‘umanitarie’ dalle istituzioni del Nord sia laiche che religiose.

Il secondo blocco di paesi invece dispone di istituzioni adeguatamente collegate alla raccolta e conservazione del consenso politico per garantire la stabilità dello sviluppo economico che costituisce la fonte stessa della solidità del regime politico-istituzionale nazionale; per quanto autoritario ed illiberale esso possa essere. Tale situazione istituzionale (in genere maturatasi grazie al periodo in cui quella cultura ‘liberal-democratica è stata acquisita in quei paesi sotto regime ‘colonialista’) è perfettamente funzionale al reciproco interesse di assicurare sostegno alla globalizzazione industriale con l’associata crescita dei redditi nazionali a Nord e Sud grazie al trasferimento dei contrasti di interesse nazionale da forme di delle manifestazioni armate dovute a competizione sul monopolio dei mercati a forme di contrasti politico-economici negoziabili nel contesto di comuni interessi strategico-industriali dal cui successo dipende la gratificazione delle rispettive aspettative che, seppur competitive, impediscono soluzioni traumatiche di ‘cancellazione’ del partner industriale.

Si deve quindi distinguere tra migrazioni sollecitate da ragioni industriali connesse alla logica egemone nello sviluppo economico (la cui natura condivisa è quella della competizione del capitalismo-liberista sul libero mercato), dalle migrazioni di masse di diseredati causate dalle primitive istituzioni politico-istituzionali che vigono nei loro paesi.

Le prime sono funzionali al sistema industriale per il quale è in corso una graduale negoziazione della governance globale in pieno spirito ‘Occidentale’, le seconde sono invece disfunzionali al sistema che ne alimenta la sopravvivenza e ostacolano l’avvento di stili istituzionali coerenti coi principi fondanti della civiltà ‘Occidentale’.

Occorre quindi, nello stesso interesse dell’avvento di migliori condizioni di vita per i più diseredati del Sud, accelerare i ‘regime change’ nei paesi in cui vigono regimi ‘tribali’ e ‘fondamentalisti’ agendo sull’uso dei tradizionali strumenti negoziali (bastoni e carote) per prevenire forme di esodo di massa in condizioni disumane. Tra gli strumenti negoziali devono figurare il condizionare la prosecuzione dei flussi finanziari all’avvio di forme di cooperazione industriale capaci di sviluppare gradualmente tra i giovani e le donne nuove opportunità occupazionali e tipi d interessi collettivi in grado di agevolare il ricambio istituzionale in armonia con le esigenze della globalizzazione; un ‘regime change’ negoziato, controllato e graduale.

Il primo passo per implementare questo approccio verso accordi di ‘regime change’ nei confronti dei regimi tribali e fondamentalisti, è quindi quello di guadagnare il consenso politico interno a quei paesi; agevole per la vasta area di emarginazione tra le masse dei giovani e delle donne.

Il primo passo dovrebbe essere impiantare nei paesi tribali e fondamentalisti in cui si manifestano forme di dissenso sociale, zone protette da forze armate ‘Occidentali’ in cui si insedino servizi essenziali di diffuso interesse prioritario per i ‘migranti’ (mense, ospedali, scuole, etc.) in cui si offra ai giovani e alle donne una occasione di sviluppare autonome abilità artigiane (PMI) a sostegno della qualità di vita ‘locale’ a spese di porzioni di risorse finanziarie sottratte alle rimesse appropriate dai regimi tribali in crisi. Pena l’avvio di rappresaglie armate (i bastoni) e di attuazione di ‘regime change’ unilaterali e non negoziati.

Soprattutto le istituzioni ‘universali’ (Chiesa Cattolica) dovrebbero agevolare criteri di interventi umanitari di questa natura per il duplice scopo di impedire le dolorose (e inutili) manifestazioni di sfruttamento delle masse di diseredati che non potranno che rallentare l’avvento della globalizzazione (e della connessa crescita di benessere al Sud) e di accelerare l’avvio di istituzioni rispettose dei diritti umani nei paesi dai quali quelle masse di diseredati cercano di emigrare (distruggendo il potenziale di sviluppo del loro paese, generando non necessari disagi nei paesi che li accolgono in aggiunta a quelli dovuti alla fisiologica riorganizzazione dei processi produttivi industriali – e generando un rallentamento nella crescita di reddito del Sud).

Il ‘buonismo’ delle anime belle e il ‘relativismo’ non possono garantire la governance del sistema industriale globalizzato; una paziente negoziazione politica tra regimi compatibili anche se attualmente animati da pretese molto divaricate, può pragmaticamente agevolare il superamento pacifico dei disagi senza ritardare l’avvento dei benefici globali dell’industrializzazione; sia in termini di benessere economico, sia di condizioni di vita sociale, sia infine di regime istituzionale liberal-democratico.

Non si tratta di scegliere il punto d’arrivo, si tratta di scegliere le modalità che ne governeranno la marcia.

Che i cretini più primitivi e fondamentalisti non lo capiscano è possibile, che siano invece le illuminate elite di governo a rifiutare questo inesorabile paradigma, sembra confermare la regola democratica che ‘chi sa fa’ (la massa di produttori, risparmiatori, consumatori, contribuenti industriali), ‘chi non sa governa’ (le elite responsabili della ‘programmazione’ e conduzione politica).

È il ‘capitalismo liberista’ …. stupid!