22/02/2010

Le bocce in gioco

Per capire la situazione del complesso contesto geopolitico attuale, e le sue probabili evoluzioni, l’elettore-tuttologo ha solo lo strumento di cercare di farsi una rappresentazione “semplificata” dei protagonisti in gioco e delle loro posizioni di forza.

Anche i possibili paradigmi che potranno essere utilizzati per contendersi il consenso politico e la legittimità degli obiettivi da perseguire meritano di essere “semplificati” e ridotti alle poche, credibili alternative.

Cercando di leggere in modo semplificato la realtà che ci circonda, si può intanto dire che l’attuale “crisi” dei vecchi assetti della produzione industriale è stata imposta a tutti i Paesi del globo dal prepotente successo del processo di internazionalizzazione industriale che ha coinvolto gradualmente tutti i Paesi più popolosi e più poveri fornendo loro opportunità di crescita del reddito che non erano immaginabili con gli strumenti della tradizionale politica economica.

Questo enorme successo è avvenuto quindi (e aumenta non-ostante le “crisi” che impone in tutti i vecchi sistemi industriali degli Stati Nazione d’antan), con soddisfazione espressa per i risultati conseguiti in ogni Paese coinvolto, indipendentemente dal grado di autoritarismo e dalla ideologia politica del regime vigente.

È evidente che il coinvolgimento massiccio dei Paesi emergenti in quei processi produttivi industriali che sono ormai “maturi” in ‘Occidente’, produca indirettamente l’accettazione (da parte degli addetti diretti ai processi manifatturieri e commerciali), della “cultura” che sostiene sia la produzione che la distribuzione efficiente dei beni e dei servizi industriali. Non c’è dubbio poi che, la competizione globale negli scambi industriali e nei flussi delle risorse necessarie per alimentare la produzione industriale, conduca ad una analoga accettazione della “cultura” che domina in quel mondo di servizi logistici alla produzione. Ciò quindi estende l’accettazione, nei Paesi emergenti, della “cultura” industriale ‘Occidentale’ egemone nel mondo finanziario e borsistico. Questa graduale e sempre maggiore accettazione della “cultura” industriale nei Paesi emergenti, sollecita gradualmente inoltre le istituzioni di stato ad erogare servizi che siano sempre più di sostegno all’efficienza e competitività del sistema industriale del Paese emergente. Ciò gradualmente pone in priorità secondaria ogni ulteriore considerazione ideologica che rischiasse di diminuire il tasso dello sviluppo nazionale rispetto ad altri Paesi (spesso considerati ostili alla luce dell’ideologia paleo-industriale). Questa ulteriore, inevitabile estensione dell’accoglimento di una “cultura” industriale ‘Occidentale’ da parte delle istituzioni statali dei Paesi emergenti (spesso autoritari) e di quelli in-via-di-sviluppo (spesso illiberali o caratterizzati da liberismo “immaturo”), conduce tutto il globo ad assumere, con gradualità ma in modo irreversibile, una complessiva “cultura” ‘Occidentale’ in ogni fase della produzione, del risparmio e consumo dei beni e dei servizi disponibili (sia privati che statali).

Questo processo è inviso agli integralisti religiosi (delle dottrine sia secolari - marxismo, sia escatologiche – Al Qaeda, catto-comunisti, catto-fascisti) che vedono il “liberismo” come il solo, vero nemico da combattere. Proprio in ragione del suo successo pratico e della sua diffusa appetibilità e consenso sociale.

Questo processo spontaneo (in quanto non imposto da alcuna cannoniera del commodoro Perry) è quindi stigmatizzato dai reazionari e integralisti religiosi in tutto il mondo come “neo-colonialismo” ‘Occidentale’.

Possiamo intanto tirare le somme su quanto fin qui scritto affermando che esistono due soli, credibili “paradigmi” che potranno contendersi la legittimità di governare il sistema industriale globalizzato: il pieno liberismo o il paternalismo liberale. Gli autoritarismi saranno condannati a divenire gradualmente sempre più liberal-democratici.

Da quei due paradigmi discendono le possibili proposte politiche alternative che potranno caratterizzare le alternative proposte per la governance globale.

Il pieno liberismo pretende una nuova governance che stabilizzi il sistema industriale globalizzato perché vi diminuiscano i rischi per il “ritorno sugli investimenti” che saranno necessari per costruire in modo diffuso tutte le infrastrutture necessarie alla redditività del nuovo sistema. Sia le infrastrutture che gli standard industriali, fiscali, giurisdizionali ed amministrativi. Ignorando gli aspetti che, in quanto non incidano sulla produttività del sistema, sono “indifferenti” per le istituzioni “liberali” della governance.

Il paternalismo liberale pretende tradizionalmente di “programmare” lo sviluppo industriale e la ripartizione dei redditi all’interno della nazione governata. La governance richiesta dal paternalismo liberale quindi mira a “regolamentare”, per via negoziale soprannazionale, il grado di concorrenza che sia legittimo portare sul mercato globale dai singoli sistemi industriali nazionali al fine di non generare conseguenze che, alla luce dell’ideologia cui si ispira ogni specifico paternalismo statale, sono ritenute negative. Si rendono necessarie le negoziazioni per convincere gli stati emergenti e più competitivi ad assumere quei vincoli produttivi che risultano legittimi nel sistema industriale più “maturo”. Al di la dell’occasionale finalità demagogica (ad es. il man-made-global-warming) presentata per legittimare gli accordi, occorre compensare chi accetta quel “vincolo” produttivo per le sue conseguenze sulla crescita economica. Ciò avviene sempre a spese del contribuente dei Paesi governati da criteri di paternalismo liberale.

Quali possano essere le priorità dello sviluppo su cui investire in ogni Paese dipende dalla disponibilità individuale a predisporre i collegamenti dei loro sistemi industriali nazionali coi più appropriati ambiti esteri ad agevolarne trasformazioni che siano capaci di sfruttare al meglio le occasioni offerte dal mercato globale rispetto alle capacità dei sistemi nazionali in diretta competizione. Mi spiego. È totalmente sterile investire in energia nucleare in Italia oggi anche per i gruppi di proprietà dello stato. Per ENEL o ENI è molto più facile investire in Paesi emergenti (Albania, Slovenia, Croazia) per collegarsi poi alla rete infrastrutturale europea che distribuisce quella “public utility” sul mercato unito dell’UE. I costi di realizzazione e di gestione degli impianti sarebbero certamente più bassi e, se i produttori nazionali vorranno aumentare il volume della propria produzione, dovranno comunque acquistare energia dalla rete distributiva soprannazionale le cui tariffe non potranno comunque essere più influenzate da forme di protezionismo politico. Il prezzo unitario dell’energia dipenderà solo marginalmente dall’ubicazione delle centrali. La voce preponderante sarà il peso dei consumi che ogni sistema nazionale potrà porre sulla bilancia. La rete distributiva verrà rinnovata e potenziata in conseguenza dell’appetibilità del sistema dei consumi. Se una nazione scegliesse per paradosso di assumere comportamenti austeri e anti industriali (gli Amish negli USA) i produttori di energia dovranno rispettarne il paradigma e potranno farlo perché comunque le risorse necessarie per soddisfare la crescente domanda globale di energia risulteranno sempre inferiori alle esigenze. Perfino le tariffe potranno essere uguali anche per chi, pur rifiutando l’insediamento delle centrali, risultasse un cliente consumatore di pari peso commerciale. Perfino per soddisfare la domanda dei pochi consumatori remoti (isole, valli, osservatòri) i cui consumi sono assolutamente marginali non sarebbe necessario penalizzarne la tariffazione o limitarne la fornitura di energia. Infatti esistono soluzioni tecnologiche adeguate a soddisfare le utenze marginali al di fuori della distribuzione collegata alle tradizionali reti distributive. Tecnologie la cui fornitura sarebbe possibile sotto contratto di leasing. Innescare un braccio di ferro ideologico oggi per imporre l’insediamento in Italia di centrali nucleari sembra molto più costoso sul piano economico complessivo del de-localizzare gli impianti in Paesi emergenti per importarne l’energia prodotta tramite la rete distributiva soprannazionale. Altro esempio di inutilità del conflitto politico odierno è nella rete infrastrutturale dei trasporti. Se l’Italia non volesse creare il famoso “sogno di Cavour” (linea ferroviaria ad alta velocità e alta capacità di trasporto che colleghi Spagna, Francia, Tornio, Milano, Verona, Trieste, Vienna, Est Europa, Balcani), gli insediamenti industriali futuri si orienteranno a delocalizzarsi in località servite da una diversa soluzione che beneficerà diversi bacini produttivi ma la cui proprietà potrà sempre essere dei produttori nazionali che saranno stati costretti a delocalizzarsi. Questo aspetto della “proprietà nazionale” infatti sarà destinato a essere smitizzato per la sua importanza per una sovranità nazionale che, tra l’altro, l’adesione alla globalizzazione industriale costringe a ridimensionare a beneficio di una governance soprannazionale. Vediamo anche questo concetto.

L’era degli Stati Nazione aveva inaugurato una governance internazionale fondata su continue revisioni del rapporto di forza dei sistemi industriali dei singoli Stati. Il colonialismo alimentava di risorse (commodities) i sistemi industriali nazionali che a loro volta fornivano i governi nazionali del potere armato adeguato ad aumentare la sfera di influenza globale del Paese con reciproco beneficio, economico e politico. La serie di guerre dal 1500 al 1800 è stata dettata dalla costante necessità di rivedere i pesi reciproci tra le potenze coloniali. I regimi che legittimavano quella fase dell’industrializzazione erano oligarchici di limitato grado di liberalismo economico e politico. Esattamente come la Russia di Putin o la Cina di Hu oggi.

La massiccia industrializzazione del 1800 e l’esplosione del paradigma USA (alieno agli Stati Nazione fino allora tradizionali) avviò l’autonomia dei grandi gruppi industriali dal vecchio paradigma nazionalista. Gli industriali insediavano i loro impianti laddove potessero trovare accesso alle commodity di base necessarie e dove fosse agevole vendere i prodotti necessari per alimentare ogni comparto dell’industria metalmeccanica. I Krupp (1816/1841) potevano produrre in Prussia, in altri Stati tedeschi, nell’Impero Asburgico (da Trieste, a Brno). L’industria chimica esplose per la richiesta di prodotti in ogni comparto industriale e in ogni Paese (BASF 1864, Nestlé 1860, Ciba 1884). L’industria della gomma e dei materiali sintetici (Dunlop 1888, Pirelli 1872, Michelin 1889, Goodyear 1898) esplose trainata dalla richiesta di nuovi materiali tessili, dai cavi per le comunicazioni continentali ed intercontinentali, dagli pneumatici per l’industria automobilistica.

Questa esplosione di impianti e investimenti alimentò di pari passo la formazione di gruppi finanziari ed assicurativi i cui interessi si collocavano al di fuori dei vecchi confini degli stati nazionali (Lloyd’s 1871, Lazard 1848, Rothschild 1811). L’aumento della produzione e l’esigenza di scambiare i prodotti finiti e le commodities necessarie per alimentare le varie produzioni, accrebbe l’intensità dei trasporti mondiali. La produzione industriale e le forniture di energia domestica aumentarono la richiesta di impianti elettrici. L’industria estrattiva esplose a sua volta e (in particolare in certi campi minerari - rame, alluminio, acciaio - e nel petrolifero), aiutò a formare pochi gruppi (oligopoli) proprietari di giacimenti in Paesi dislocati nei cinque continenti e capaci di insediare propri stabilimenti di trattamento o raffinazione in qualunque stato al di la degli stretti interessi del Paese in cui risiedeva la sede legale (“sette sorelle”). Tale tendenza proseguì in epoche successive in sempre più numerosi e nuovi comparti industriali (auto-motive, aereonautica, navale, petrolchimica, elettronica) sottraendo alle decisioni nazionali di carattere “politico” l’autonomia decisionale dei gruppi industriali le cui scelte erano dettate dai costi industriali e dal ritorno sugli investimenti dei loro impianti.

Detto ciò, dato che sono le aziende (i gruppi industriali più autofinanziati) a creare occupazione, ricchezza e introiti fiscali, sembra assolutamente improbabile che in prospettiva qualsiasi stato nazionale possa sperare di imporre scelte industriali che non siano ispirate alla competitività sul mercato globale in un respiro di più ampio consenso internazionale.

Quindi ogni paradigma di governance che voglia vedersi confermare la legittimità dal corpo elettorale deve negoziare i propri desiderata entro logiche che possano essere decodificate dal paradigma liberale e non-ideologico dell’economia industriale.

Queste considerazioni dovrebbero aiutare a sdrammatizzare i conflitti italiani sull’insediamento degli impianti energetici o dei grandi lavori infrastrutturali di servizio allo sviluppo della competitività del sistema industriale nazionale. Se gli elettori saranno così ciechi da ostacolare gli investimenti, importeremo energia e noleggeremo servizi di trasporto esteri penalizzando la crescita del reddito e dell’occupazione. Ma godendo dei benefici di una qualità di vita pre-industriale e arcadica. Come si conviene ad un Paese che può vivere di solo turismo colto e di massa grazie alla sua natura e alla sua storia. Una vera e propria Disney-land “patrimonio dell’umanità”. Naturalmente gestita da un gruppo estero proprietario delle necessarie risorse finanziarie e del know how industriale indispensabile per garantire il livello di qualità, di efficienza e di sicurezza che solo una civiltà ‘Occidentale’ post-industriale potrebbe erogare!

Gli unici impianti che sembra indispensabile realizzare con grande tempestività sono quelli relativi alla pura sopravvivenza fisica del Paese e che vanno tutti posti sotto il cappello efficiente di Bertolaso (sottraendoli cioè alla patetica inadeguatezza delle istituzioni politiche; ponte sullo Stretto (Ponte “Berlusconi”), barriera del Mose a Venezia, tutela del territorio, gestione delle acque, gestione del paesaggio, etc..