22/02/2010

Globalizzazione e Paradisi Fiscali

Oscar Giannino recentemente ha organizzato una trasmissione sul tema della fuga di capitali in Paesi che offrono condizioni fiscali più attraenti di altri e che vengono stigmatizzati sui media con l’etichetta che li condanna a “paradisi fiscali”. Sottintendendo che essi in realtà agevolino l’esodo di capitali alla ricerca di evadere le imposte del Paese di cittadinanza dei proprietari. Offrendo quindi un “servizio” che soddisfa la avidità del detentore dei capitali esportati.

Questa ottica percettiva del problema è sempre stata parziale, moralista e poco utile a chiarire il vero fine dei servizi finanziari a sostegno della risorsa da sempre più scarsa e universalmente richiesta in quanto fattore primario per lo sviluppo industriale; la moneta.

Qualora anche si volesse restringere l’analisi del problema della tutela del valore del danaro alla vecchia era degli Stati Nazione e dell’associata legittimità nei confronti dei loro “cittadini”; il “welfare state”. Per poter dare servizi “dalla culla alla tomba” lo Stato Nazione era legittimato a raccogliere risorse fiscali dai suoi “cittadini” aventi quindi privilegi maggiori rispetto agli altri residenti.

Gli accordi soprannazionali che prevedono libera circolazione di persone, beni, servizi e che impiegano anche un’unica moneta hanno gradualmente minato quella legittimità per ragioni sia tecnico-monetarie (le scelte relative all’emissione di valuta e i rapporti tra valuta unica e le valute ulteriori incidono sulla solidità e sul tasso di inflazione in modo autonomo rispetto alle capacità dei vecchi Stati Nazione di garantire il rispetto degli accordi originari assunti coi loro cittadini) sia di politica industriale (i servizi erogati dai singoli stati membri alle attività che si sviluppano sul mercato interno o verso quelli esterni all’unione presentano gradi diversi di efficienza e sono, dal punto di vista di “tutti” gli operatori economici - produttori, risparmiatori e consumatori, e lungo “tutte” le fasi del processo produttivo comunitario, servizi di cui “tutti” i cittadini per equità degli accordi soprannazionali devono poter scegliere liberamente e in alternativa su base del criterio del loro rapporto tra valore e costo al fine di non risultare “discriminati” iniquamente nei loro interessi per pure ragioni di “ghetti nazionali” ormai superati dagli accordi soprannazionali stessi.

Infatti se la liberalizzazione della circolazione di merci, capitali e persone deve servire a migliorare la qualità di vita e il benessere economico dei cittadini di tutti gli stati aderenti occorre che gli stati stessi assumano le iniziative legislative che riducano la disparità di trattamento dei cittadini indipendentemente dal loro stato di appartenenza originaria. Tra le altre quelle relative all’imposizione fiscale su persone fisiche e giuridiche sono forme di disparità che incidono immediatamente sull’uguaglianza dei cittadini nel produrre reddito. Così il diritto societario e gli oneri amministrativi. Così il diritto del lavoro e le provvidenze di previdenza sociale.

Nell’era della globalizzazione industriale questa irragionevole pretesa dei vecchi Stati Nazione ormai in disarmo di pretendere che i loro cittadini si penalizzino con la scelta di servizi statali più costosi e meno efficaci ai fini delle loro attività professionali è diventata una vera, patetica forma di patriottismo antistorico e autolesionista.

Queste considerazioni devono essere inserite in un insieme di casi di studio concreti per potere apprezzare il ruolo dei “paradisi fiscali” nei confronti dei veri interessi del progresso civile e industriale cui si oppongono le resistenze dei vecchi regimi degli Stati Nazione.

Se un grande campione sportivo emerge oggi, il sistema mediatico e commerciale sulla scena internazionale lo “assume” come free lance con contratti a termine per farne il testimonial dei prodotti che hanno libera circolazione in tutti gli stati. Il “valore aggiunto” del testimonial è assolutamente indipendente dallo stato specifico di nascita del campione. L’azienda che lo “assume” come testimonial spesso ha residenza legale in stati perfino esteri rispetto a quelli comunitari. Il reddito prodotto dal testimonial è erogato in Paesi diversi dal suo di nascita; Paesi dove il contratto viene difeso per eventuali conflitti legali da avvocati che operano col sostegno dei rispettivi stati “esteri”. Il campione sportivo spesso offre nello sport di origine le prestazioni professionali (che gli hanno permesso di emergere, di affermarsi e di risultare in seguito professionalmente interessante come testimonial per altri gruppi industriali) sotto “contratto” con aziende estere rispetto non solo al suo Paesi di nascita ma perfino estere rispetto all’unione di cui esso è poi entrato a fare parte. Insomma il professionista spesso non è altro che una persona fisica che coincide con una persona giuridica e che è libero di circolare con le sue abilità professionali in tutti i Paesi in cui riesce a procurarsi lavoro (sotto forma di “contratti” a termine di eccellenza professionale e di connesse prestazioni da testimonial. I suoi redditi gli vengono versati in Paesi diversi dal suo di nascita, vengono legalmente depositati in enti e in titoli finanziari di diritto diverso da quello del Paese di sua nascita e vengono tutelati da sistemi giudiziari che regolano i contratti sottoscritti con i Paesi in cui hanno sede legale le aziende che lo “assumono”.

A questo punto emerge il “parassita”. Lo stato in cui il professionista ha avuto il privilegio umano familiare di nascere, emerge dalle nebbie e, senza alcuna concreta ragione, pretende che i redditi prodotti e detenuti dal professionista vengano sottoposti a tassazione nel suo stato di nascita. Ciò è ridicolo oltre che legalmente irragionevole e politicamente illegittimo ed iniquo. Perfino la tassazione degli eventuali capitali detenuti nel suo Paese di nascita dovrebbe essere eliminata. Infatti se i redditi del professionista sono stati erogati da aziende estere e extracomunitarie e la loro detenzione all’estero è stata liberamente frammentata al fine di portarne una parte nel suo Paese di nascita le ragioni possono essere di due tipi.

Il professionista distrae parte del suo legittimo reddito dalle riserve estere per trasferirlo nella sua Patria in quanto essa offre condizioni finanziarie più attraenti di quelle offerte dal Paese in cui egli se le è guadagnate legittimamente. In altri termini la sua Patria è una sorta di “paradiso fiscale” e quindi è giusto che possa beneficiare della disponibilità di quel sottoinsieme del reddito del professionista per investimenti produttivi a seconda delle scelte che ne faranno le banche in cui egli avrà trasferito il capitale.

Il professionista invece può trasferire parte del suo reddito nella sua Patria per pure ragioni sentimentali e, non ostante il suo Paese di nascita sia un “inferno fiscale”, egli vi trasferisca parte dei suoi capitali, in genere acquistando beni immobili. Ebbene, in tal caso quello stato (la Patria) dovrebbe essere così intelligente da detassare totalmente il capitale immobiliare acquistato con capitali di provenienza estera. Essi infatti fanno arricchire di capitali il sistema-paese a spese di risorse finanziarie prodotte all’estero in regime di piena libera circolazione.

Invece le Patrie manifestano le avidità dei loro vecchi Stati Nazione incapaci di gestire la transizione legale tra la vecchia legittimità e la nuova cui essi stessi hanno dovuto adeguarsi per la diversa realtà del contesto geopolitico a dimensione sempre più soprannazionale. Sono le vecchie corporazioni e consorterie legittime nei vecchi Stati Nazione a pretendere la permanenza di tipi di privilegi ormai incompatibili con l’equilibrio economico del sistema industriale. Se il costo del lavoro in un Paese è superiore alla sua produttività è ovvio che i nuovi capitali preferiscano investirsi in Paesi più competitivi. Se la qualità e il costo dei servizi statali di un Paese sono in rapporto sfavorevole rispetto ad altri è altresì chiaro che i capitali preferiscano insediarsi nei secondi. Se le prestazioni dei servizi legali e giurisdizionali di un Paese sono migliori rispetto ad altri è evidente che i capitali preferiscano insediar visi. Se i costi industriali imposti alla produzione dai servizi di comunicazioni e trasporti sono maggiori in un Paese rispetto ad altri è chiaro che i capitali non gli daranno attenzione prioritaria. Se poi la fiscalità industriale e personale risultasse superiore non solo in assoluto (i livelli di “equità” sono sempre astratti anche se livelli eccedenti il 30% del PIL sembrano già irragionevoli) ma soprattutto relativamente ad altri (la vera spiegazione del significato di “paradiso” o “inferno” fiscale) è evidente che non ci potrà essere un particolare desiderio a produrre in quel Paese. Nessun artificio potrà poi “compensare” la scarsa attrattività dei capitali a trasferirsi nel Paese o a sottrarsi alla sua avidità fiscale coi mezzi (ormai legittimi e spesso legali) che offre un mercato ormai in via di crescente globalizzazione.

L’esempio riferito al professionista viene esaltato nel caso in cui si volesse esaminare la situazione che vive una persona giuridica. Una azienda oggi importa beni e servizi a spese di suoi capitali per “trasformarli” in prodotti finali da esportare con ricavo di capitali in valute spesso diverse da quelle che le sono servite per approvvigionarsi delle risorse necessarie alla produzione. I capitali ricavati all’estero vengono in gran parte detenuti all’estero per evitare inutili e penalizzanti nuovi cambi di valuta per alimentare i nuovi cicli produttivi. Nella fase di attesa quei capitali devono contribuire una rendita che non solo bilanci il loro calo di valore dovuto all’inflazione ma che contribuisca alla redditività complessiva del sistema azienda. Imporre che quei capitali siano tassati in “Patria” o che essi debbano essere detenuti in valuta nazionale presso enti bancari nazionali equivarrebbe imporre un onere astratto (e idiota) alla competitività industriale del Paese. È evidente che queste forme di oneri astratti e ormai sempre più illegittimi siano combattuti legittimamente dal mondo industriale affidandosi ai servizi finanziari legali nei Paesi più liberali. Questi vengono definiti “paradisi fiscali” per insipienza dai media e dagli stati nazione meno competitivi in piena analogia con ciò che accade in campo sportivo per i tifosi di squadre perdenti che, non potendo essere gratificati dai successi della propria squadra, “gufano” sperando negli insuccessi delle squadre avverse dei derby oppure vivono frustranti sentimenti “rosicando” quando assistono impotenti ai successi altrui.

I “paradisi fiscali” sono causati solo dall’insipienza politica e amministrativa degli stati inefficienti e sono una misura del grado di liberismo che ispira la gerarchia degli stati nazione nell’attuale contesto geopolitico competitivo.