21/10/2009

Nuove forme di servaggio

Si continua a dibattere se la certezza del posto di lavoro sia un valore o un disvalore nascondendo come al solito in ambito politico il dibattito dietro un uso strumentale dei termini. Si parla quindi di “precarietà” in luogo di “mobilità” o di “flessibilità” e di “posto fisso” invece di contratti “a tempo indeterminato” oppure “a-termine” trascurando il fatto che, siccome tutti gli interlocutori sono d’accordo sulla necessità di sempre più “adeguati” Ammortizzatori Sociali (cassa integrazione, riqualificazione professionale), tutti sono invece d’accordo sul “fatto” che il mondo aziendale sia per sua natura “precario” in quanto è sempre precario il suo ruolo su un mercato competitivo che conduce a una naturalissima “selezione della specie”.

Come al solito gli unici “santuari” in cui la specie dei “posti fissi” risulta protetta è quella parassitaria che vive a spese del prelievo fiscale; “variabile indipendente” dalla precarietà del mercato in cui viene prodotto il reddito nazionale; lo Stato ed enti del para-stato. Strutture che, infatti, scontano tale loro “privilegio” (che, solo per i loro dipendenti – gli statali – e datori di lavoro – i politici - costituisce un “valore” ottenuto a spese dei restanti contribuenti a rischio).

Se il “lavoro” costituisse realmente e non solo come affermazione solo demagogica il “valore fondante” come affermato dalla costituzione, sarebbe evidente che esso non possa ricevere “tutele” da chicchessia in quanto la credibilità e l’erogazione verrebbe pregiudicata dalla bontà e lungimiranza di un soggetto al-di-sopra del lavoratore stesso. Ciò crea un tipo logico di “dipendenza”  incompatibile per un “valore fondamentale”. Sarebbe infatti un’istituzione impersonale e “produttivamente irresponsabile” (lo Stato) ad erogare dosi di quel valore fondamentale come fosse una “variabile indipendente” dalla produttività dei singoli, dalla redditività delle aziende produttive e dalla competitività complessiva del sistema lavoratori, aziende e stato.

Il “lavoro” rappresenta solamente l’aspetto più civilizzato e umano della lotta per la sopravvivenza, per la crescita del benessere e per il progresso civile. In quanto fattore di base per la crescita di reddito personale e di sicurezza per il futuro della famiglia e della società in cui essa si replica nelle generazioni, in democrazia, il lavoro non può essere sottoposto alla dipendenza di altri che non siano i singoli portatori della legittimità politica; i cittadini. Essi riassumono in diverse modalità i ruoli di consumatori, di produttori, di risparmiatori e di imprenditori. Separarli invece in gruppi rappresentativi di una sola di quelle funzioni ne limita la libertà fondamentale nel momento stesso in cui ne limita la “responsabilità” verso se stesso prima che non verso la sua famiglia e la sua azienda.

Il “lavoro”, in altri termini, è un “valore fondamentale” solamente se esso non risulta “tutelato” altrimenti è un “valore-premio” e quindi un “compenso” gentilmente concesso da qualcuno che detiene il vero valore primario; la “sicurezza”. Sappiamo tutti che neanche le assicurazioni possono garantire la “sicurezza” ma, a pagamento – e quindi con atti di “responsabile scelta”, possono al più provvedere a un ristoro parziale del danno nel malaugurato caso in cui si manifesti l’evento previsto e di cui si è valutato e concordato il danno in modo ritenuto economicamente equo. Si spera che l’evento negativo, e possibile come tutti gli eventi in natura, non abbia a manifestarsi in quanto si preferisce avere gettato risorse in previdenza piuttosto che poterne “beneficiare” a seguito dell’evento paventato. Ciò vale anche in materia di “lavoro” per il quale si sono istituite forme “assicurative” che negli Stati Nazione vengono gestite dal welfare state sotto nobili etichette che tuttavia non modificano la realtà: il “lavoro” non può essere “garantito” e costituisce quindi il “valore fondamentale” che per le sue conseguenze sociali (che si aggregano in piramidi collettive famiglia, azienda, comunità locale, economia regionale, economia nazionale), pesa sulla “responsabilità decisionale” di ogni individuo libero nel corso di ogni sua decisione quotidiana e garantiscono quindi che le sue scelte, anche sul piano politico, si aggreghino in modo “responsabile e rappresentativo” nelle scelte elettorali delle istituzioni di pubblico interesse. Ogni forma di “tutela” incombesse sul “lavoro” ne ridurrebbe il carattere di “valore fondamentale” per ridurlo a semplice “premio” non auto-garantito da scelte “responsabili”, e quindi “non delegabili”, che incombono sulle spalle di ogni individuo libero e adulto ma “concesso” da autorità più alta da cui egli dipende e alla quale egli affida non la pura “esecuzione” di compiti di interesse generale ma vere e proprie “responsabilità”; una sorta di affidamento a un nuovo tipo di “padronato” (non “patronato”) da parte di soggetti che si espropriano inconsapevolmente della libertà (quindi della legittimità) di decidere i propri comportamenti quotidiani a cominciare dalla libertà negoziale sul lavoro.

Se il “lavoro” fosse veramente un “diritto fondamentale” ogni forma di tutela sindacale o legislativa che ne limitasse la negoziazione risulterebbe un tentativo di “comprare” la volontà dei soggetti alla legge in una sorta di scambio di maggiore servaggio a fronte di presunti benefici che nessuno può garantire (tantomeno con forme di istituti assicurativi gestiti “irresponsabilmente” da enti statali ope-legis e meno redditizi nella gestione rispetto a forme analoghe di assicurazione erogata da aziende private).

Gli handicappati d’ogni tipo dovrebbero ricevere a spese della fiscalità generale non retribuzioni parassitarie ma “protesi riabilitative” al lavoro onde potersi reinserire a piena responsabilità individuale nella quotidiana lotta per la sopravvivenza che, fortunatamente, la nostra civiltà ‘Occidentale’ ha saputo addolcire mutando il rischio di sopravvivenza fisica in aleatorietà del “lavoro”. Un’aleatorietà che è il sale fisiologico che alimenta il progresso della nostra civiltà e che non può essere eliminata, solo ridotta, imponendo a ciascuno di capire che la libertà individuale risiede nell’accettazione della responsabilità dei rischi quotidiani, tra i quali risulta fondamentale quello della “precarietà” del benessere raggiunto. Una precarietà che ognuno deve pretendere di affrontare senza vincoli (tutele illiberali) di legge che non sia legge economica.

Un vero stato liberal-democratico dovrebbe abituare ogni cittadino indipendentemente dalla sua peculiare fascia di appartenenza (età, professione, abilità fisica, attitudini), a negoziare permanentemente sul posto di “lavoro” i suoi contributi. La sola “difesa” del suo reddito e gratificazioni umane e professionali che egli possa costantemente “adeguare” al mutare delle esigenze produttive in azienda e, quindi, a migliorare con richieste di maggiori responsabilità aziendali il proprio reddito.

Lo stato dovrebbe uscire da ogni forma di gestione delle assicurazioni sul lavoro per limitarsi a controllare la corretta esecuzione dei programmi di riabilitazione/reinserimento di qualsiasi cittadino temporaneamente disabile. Anche gli Stephen Hawkins possono ricevere (magari sostenuti dalla fiscalità generale) “protesi” che li mettano in grado di guadagnarsi il Nobel, di scrivere testi universitari, di conseguire la docenza in prestigiose università e di guadagnarsi un reddito non parassitario. Alla Libreria del Congresso il compito esecutivo di raccogliere per i lettori i testi richiesti era affidato a cittadini affetti da sindrome Dawn che si potevano guadagnare un reddito invece di “dipendere” passivamente dal welfare state. Con l’avvento dei computer quel tipo di “lavoro” è sparito ma non ho dubbi che ne siano emersi di nuovi e più attraenti anche per quei “lavoratori”. Anche gli Oscar Pintorius possono dedicarsi all’atletica e guadagnarsi non solo premi olimpici ma reddito economico se li si attrezza di “protesi” ma, soprattutto, di motivazione e approccio alla vita da “uomo libero” e responsabile del proprio futuro nella società.

Se questa visione liberale e responsabile della vita sociale viene sostituita da forme demagogiche di “tutela dalla precarietà”, l’individuo perde la propria capacità negoziale e la società riduce il proprio potenziale di sviluppo innovativo e, in definitiva, la complessiva capacità di diminuire l’esposizione al rischio dei suoi cittadini. Il risultato non è solamente un crescente impoverimento della società governata dal welfare state, il risultato è anche l’introduzione di forme, magari paternalistiche, di “asservimento” a nuovi padroni con la peggiorativa rispetto a quelli del passato paleo-industriale di operare legittimati dal diritto pubblico che ha la sua fonte nel legislativo e i suoi esecutori nello stato e nelle corporazioni da esso “legittimate”. Una vera e propria cosca monopolista contro la quale non resta che affidarsi alle forme più creative in cui si esprime da sempre la “libertà individuale” (elusione ed evasione fiscale, lavoro nero, truffe assicurative, contrabbando, baratto, etc.). Il sistema complessivo perde capacità di produrre reddito e il suo irreversibile inserimento nel mercato globale ne riduce la competitività industriale. I risultati sono quelli che abbiamo sotto i nostri occhi a partire dalla “caduta del muro” che avrebbe suggerito la politica italiana ad obliterare ogni economicamente irragionevole accordo sottoscritto durante il “consociativismo” per rilanciare il potenziale del sistema Italia in brevissimo tempo. Si pensi che il “miracolo economico” in epoca post-bellica riuscì nell’arco d’uno scarso paio di lustri a produrre un potenziale produttivo sul quale il consociativismo s’è potuto sviluppare creando gli enormi danni non solo finanziari ed economico-industriali ma soprattutto legislativi, istituzionali e d’una visione filosofica della vita “da schiavi” protetti da corporazioni in un’epoca che vede invece il “trionfo” del paradigma filosofico e industriale del capitalismo-liberista. L’unico paradigma che, inconsapevolmente e contro ogni possibilità di “resistenza parassitaria” è riuscito a creare il progresso della liberal-democrazia nel mondo sul piano istituzionale. La civiltà ‘Occidentale’ è “trainata”dall’irresistibile e irreversibile progresso industriale che, contro le vecchie e le nuove forme di “asservimento” demagogico e corporativo, abbatte ogni confine geo-politico dalla nascita della Roma Imperiale Cristiana generando l’attuale globalizzazione che ci impone l’accettazione della “precarietà” come iscritto nella essenza stessa e in ogni campo della Natura.