21/05/2010

Agonia dell’Unione Europea

Stiamo assistendo ormai da due anni alla sterilità della politica in Europa di assumere scelte sostenibili alla luce del rapido progredire dell’economia industriale globalizzata.

In parte ciò è naturale data l’incompatibilità tra il vecchio paradigma dell’economia capitalista incentrato sullo Stato Nazione e sulle priorità che ne legittimavano il ruolo di “programmare” lo sviluppo industriale al fine di tutelare il peso politico del Paese rispetto ai suoi competitori politici internazionali.

La priorità delle scelte nazionali era stabilita dalla politica di potere che ogni Paese proiettava sullo scenario internazionale accomodando le proprie ambizioni al peso economico che gli assicurava il sistema produttivo nazionale. Per crescerne il cui peso la politica sosteneva le esigenze dell’apparato produttivo interno tramite politiche protezioniste, mercantiliste, colonialiste o imperialiste a seconda della fase di sviluppo, del contesto internazionale e del grado di armonia sociale interna al sistema industria-stato. La priorità del peso dello stato sulle scelte politiche condusse a concepire meccanismi dissipativi di risorse in assistenzialismo vario: “programmazione dei redditi”, “welfare state”, “svalutazioni valutarie”, “inflazioni pilotate” per cercare di scaricare su altri Paesi i costi dell’assenza di competitività nazionale.

Oggi in piena globalizzazione nessuno stato può più sperare di rintanarsi in atteggiamenti protezionisti che non riuscirebbero a ricevere il consenso necessario per la loro attuazione finanziaria. Se la competitività del sistema industria-stato non riesce ad attrarre capitali di investimento nel Paese occorre risanare il bilancio nazionale spurgandolo di ogni parassitismo e beneficio incompatibile con la competitività industriale per far sì che la libera circolazione delle risorse finanziarie internazionali sia attratta a investire nel paese invece di privilegiare altri paesi di maggiore solidità produttiva o altre forme di investimento caratterizzate da livelli di maggiore rischio ma capaci di assicurare adeguati margini di profitto e maggiore flessibilità nei tempi di investimento (speculazione finanziaria).

Nessuno stato è mai stato in grado nella storia dello sviluppo industriale di prevaricare gli interessi dello sviluppo industriale nazionale e della finanza internazionale. I primi in quanto interferire con lo sviluppo industriale si sarebbe riverberato sulla potenza militare e diplomatica e sul consenso sociale. I secondi perché gli investimenti necessari per accelerare la crescita industriale e quindi lo status politico del paese dovevano provenire da fonti estere da parte dei paesi verso i quali l’esportazione della produzione nazionale riusciva a trovare apprezzamento. Oppure risorse estere dovevano provenire da finanziamenti debitori da parte di stati interessati a stabilire una loro egemonia sulle politiche internazionali del paese finanziato. Come accadde nel periodo della guerra fredda conclusosi col crollo del muro di Berlino e col decollo finale della globalizzazione attuale. La contabilità nazionale di quasi tutti i paesi europei è stata gravata da queste forme di debito con l’estero che hanno perso ogni possibilità di elemosine ulteriori e che quindi appesantiscono la credibilità e la solvibilità finanziaria dei singoli paesi a misura del grado di solidità del loro sistema industria-stato. Se le più competitive industrie fuggono all’estero, il sistema nazionale si indebolisce e la solvibilità del sistema industria-stato diminuisce esponendo il paese a forme di investimento ad elevati tassi di rischio, volatilità e remunerazione (speculativi).

Neanche gli USA ormai possono sperare di gestire efficaci difese finanziarie del loro sistema industria-stato e devono cercare accordi internazionali capaci di ripartire gli oneri tra sistemi in reciproca competizione sul mercato globale. La nuova governance del sistema industriale globalizzato sta nascendo grazie a una serie di negoziazioni a ritmo accelerato che si sviluppano in occasione delle situazioni più critiche che gli interessi industriali incontrano come intralcio al consolidamento del loro potenziale di redditività e remunerazione dei capitali investiti sulla loro implementazione. Per negoziare occorre riunire al tavolo sistemi industria-stato caratterizzati da pari gradi di credibilità, solvibilità e solidità. In ciò gli USA e la Cina sono certamente favoriti rispetto ad altri paesi (India, Brasile, Russia).

L’Unione Europea ha preteso di accelerare contemporaneamente due obiettivi contrastanti. Inserire nuovi paesi al precedente gruppo dei dodici non arrestandosi a costose ma giustificabili operazioni quali la riunificazione delle due Germanie ma spingendosi ad accettare l’ingresso di paesi troppo disomogenei sia come sistema industriale che come sistema istituzionale; i paesi dell’est Europa con ipotesi fantasiose nei confronti della Turchia e dei paesi della costa nord del Mediterraneo. Accelerare astrattamente la conversione dell’Unione Europea da un’area di libero scambio economico (la CEE) a federazione di stati in un sistema politico autonomo rispetto ad altri sistemi di analogo potenziale industriale.

La moneta unica è improvvisamente assurta a valuta di riferimento a pari peso anche politico rispetto al dollaro, alla sterlina, allo yuan, al rublo.

Mentre la speculazione finanziaria prendeva in considerazione la sola credibilità industriale del sistema che impiegava gli euro nelle sue transazioni, da quel momento anche la coerenza tra le decisioni politiche con gli atti compiuti sui mercati dai singoli gruppi industriali è diventata un criterio di valutazione della credibilità e sostenibilità delle richieste di investimento nazionali.

Il tracollo in termini di credibilità ne è derivato immediatamente.

Un conto è valutare la credibilità di un piano industriale della Volkswagen sui mercati internazionali partendo dalla sua posizione di redditività e competitività come parte del sistema industria-stato tedesco. Altro è valutare la stessa esigenza finanziaria alla luce di un sistema industria-stato che esula dall’efficienza statale tedesca in quanto coinvolto in operazioni di sostegno finanziario (e dei rischi connessi) che si estende a una rete di stati caratterizzati da livelli di credibilità e di solvibilità assolutamente inferiori (Grecia, Spagna, Portogallo, etc.).

La valutazione del sistema complessivo industria-UE inoltre risulta assolutamente poco credibile proprio sul piano dello stato. Le recenti traversie della costituzione europea, il disaccordo sui provvedimenti necessari per il salvataggio dei paesi in bancarotta, le disparità delle scelte politiche che ancora affligge i vari paesi della Unione Europea, la resistenza a rinunciare a provvidenze del welfare state e i comportamenti di scarso liberismo che conducono le diverse diplomazie per tutelare gli interessi nazionali invece di abbracciare nuovi criteri liberisti industriali sono tutti aspetti che si aggiungono alla lentezza e inefficienza istituzionale che caratterizza i singoli paesi (tranne il Regno Unito e - forse - Germania, Scandinavia e Francia), alla disparità dei sistemi nazionali (lingua, giurisdizionali, legislativi, amministrativi, etc.) ed all’inefficienza delle istituzioni europee confermata dalla scelta minimalista dei suoi vertici alla luce dei nuovi accordi dopo il trattato di Lisbona.

Di fronte a questo mare di scarsa credibilità dell’Unione Europea ed all’associata diminuzione di solvibilità degli impegni finanziari fondati sull’associato sistema stato-industria è comprensibile che la speculazione si accanisca contro questo delirio di onnipotenza che ha ispirato l’UE a proporsi dall’originaria area di libero scambio (utile per integrare le politiche USA in sede G2 nel sistema integrato NATO) a federazione di stati in analogia con la fallimentare CSI sostenuta da una Russia paleo-industriale e in piena crisi istituzionale.

Il voto sulla credibilità dei sistemi industria-stato che si propongono sullo scenario mondiale viene attribuita dalla speculazione finanziaria che è un utile termometro per riuscire a valutare la fiducia di chi, possedendo le risorse sempre scarse per sostenere lo sviluppo (la finanza), non ne desidera rischiare lo spreco se non in modo compensato da adeguati livelli di remunerazione (i tassi di rendita che misurano i margini dei singoli strumenti finanziari accessibili in termini di rapporto rischio/rendita).

Gli indici forniti dai gruppi finanziari sono solamente valori numerici che ci forniscono una sorta di scala termometrica di facile e sintetica lettura. Cancellare il termometro o i suoi produttori con leggi illiberali e sperare che la finanza mondiale possa cambiare le sue valutazioni e decisioni in senso più “empatico” con la scarsa credibilità del sistema politico internazionale è puro wishful thinking.

Se nessuno dei vecchi Stati Nazione è mai stato in grado di governare la pressione della crescita industriale che si manifesta con crescente liberalizzazione nella circolazione dei capitali (né al tempo di Roma, né nella Spagna di Isabella, Filippo e Carlo, né nel Regno Unito di Elisabetta I o di Vittoria, né nei paesi più potenti come imperi coloniali – Danimarca, Olanda, Belgio, etc. – non si può realisticamente credere che oggi la UE saprà assurgere a livelli di unità e credibilità politica in così breve tempo da potersi proporre in altri ruoli che quello più naturale (e accettabile per tutti i paesi già membri e quelli in via di ingresso) di area di libero scambio “integrata” con la politica militare ed estera degli USA.