21/03/2008

 

Occidente e ricerca di soluzioni industriali oggi

Il ‘caso Alitalia’ si presta a un’analisi dei molti difetti che inquinano l’Italia in quanto Paese Occidentale ma in forte ritardo rispetto alle regole che vigono nel mercato globale. Se è vero, come rivendica Giulio Tremonti, che per funzionare il libero mercato necessita di regole chiare e soprattutto universalmente accettate da tutti i partecipanti, non è possibile escludersi dal mercato stesso in attesa che tutti i vecchi e i nuovi interlocutori le accettino o che si consolidino nuove istituzioni soprannazionali legittimate ad imporne il rispetto universale. Il mondo che sta nascendo dietro pressione della globalizzazione è come il Far West in cui erano gli imprenditori a insediare nuovi interessi economici e sociali spesso eludendo le regole della liberal democrazia e imponendo forme istituzionali locali assolutamente illiberali che per le loro inferiori capacità di mantenere il consenso politico e di alimentare un’economia competitiva con quella già consolidatasi nelle vecchie colonie industriali non riuscirono a sopravvivere nel tempo. Ciò condusse dapprima all’industrializzazione della mano d’opera (schiavi negri) abbondante nel Sud ma poco produttiva e formalmente libera (sub proletariato delle miniere e acciaierie) nel Nord e, in seguito, alla conquista del Sud Ovest alla cultura tecnologico-organizzativa liberal-democratica (‘Occidentale’ grazie al suo caratterizzante spirito di ‘selvaggia’ libertà imprenditoriale che la rende ‘egemone’ prima di ogni considerazione ideologico-intellettuale in materia di libertà politiche che, anche in Occidente, ha definito il ‘progresso istituzionale’ solo a-posteriori in quanto maturatosi solo con lenta gradualità nei secoli e solo grazie alla crescita del crescente benessere economico generato dal ‘progresso industriale’). Detto ciò torno al ‘caso Alitalia’, un vecchio residuo dell’economia illiberale dei vecchi Stati Nazione e sostenuto da ragioni demagogiche di ‘conservazione’ di residui del potere parassitario delle relative istituzioni ottocentesche (IRI-Tesoro, sindacati, partiti-casta e loro clientes). La sua soluzione potrebbe essere semplice pur di abbandonare il comodo e obsoleto linguaggio ‘politically correct’ pur di porre la scelta tra soluzioni industrialmente chiare (mai totalmente appaganti o di identici gradi di legittimità e di legalità). Le soluzioni del ‘caso Alitalia’ sullo stretto piano aziendale sono diverse ma si restringono qualora debbano aderire a criteri che tengano conto di esigenze che da esso dipendono in quanto esso compone una ‘rete infrastrutturale’ di servizio per l’economia industriale. Queste due chiavi di lettura restringono o includono nelle varie possibili soluzioni interlocutori e protagonisti ispirati da esigenze diverse sia nel ritorno temporale che settoriale. Per portare in questa sede qualche esempio concreto è necessario intanto chiarire che l’attuale interlocutore politico (responsabili ex-IRI/Tesoro e sindacati operai) è totalmente sordo alle nuove aspettative consolidatesi in Italia in merito alla disponibilità di una infrastruttura tecnologica di sostegno alla competitività dell’economia del Paese. È inoltre chiarire i pochi concetti aziendali che governano il ‘caso Alitalia’. Essa dispone per illiberale ma legittima dote dell’era degli Stati Nazione, di: un patrimonio ‘monetarizzabile’ in ogni caso (le tratte esclusive e gli scali interni), un capitale tecnologico a rischio di obsolescenza ma di primario valore (le aeromobili e gli impianti a terra per la manutenzione, la logistica, la gestione informatica, l’addestramento tecnico) che presenta diverso grado di attrattività in funzione dell’interlocutore coinvolto, un capitale umano di tecnici (tecnici di manutenzione, tecnici informatici, piloti, personale viaggiante) per un 20% del totale dei dipendenti anch’esso a rischio di obsolescenza ma produttivo indipendentemente da chi fosse il ‘tycoon’ (il Morgan, Ichan, Murdoch o Berlusconi) che possa essere il nuovo proprietario, un 80% del residuo capitale umano di limitato interesse per la sua sostituibilità, scarse redditività e mobilità e forse di qualche interesse, se per impieghi in Italia, solo per la lingua, portafoglio clienti e immobili. Ora, se si frammentassero questi ‘asset’ in entità industriali distinte esse potrebbero essere vendute o liquidate con trattative di diverso valore per liberare del’onere parassitario quelle più competitive. Ciò non è praticabile per i vincoli politici imposti da ‘sindacati operai’ ottocenteschi che proseguono nella politica delle assunzioni e della scarsa flessibilità del lavoro solo per ricevere il sostegno dell’80% del capitale umano meno interessante per l’attività aziendale. Infatti chiunque sostituisse Alitalia avrebbe interesse a conservarsi integro il personale (realmente) viaggiante e quello dotato di capacità tecniche a sostegno delle operazioni in Italia. Inoltre esiste un uso demagogico anche nelle parole pseudo-tecniche adottate per il dibattito politico-sindacale che occorre ridimensionare. Il termine inglese ‘Hub’ non significa altro che ‘Centro Logistico della Rete Infrastrutturale’ (Alitalia). Chiunque dovesse scegliere di ubicare oggi un Hub in Italia lo collocherebbe certamente nel mezzo della pianura padana cuore della industria più avanzata e dei servizi più moderni. Un Hub non coincide necessariamente con aeroporto di maggior traffico (Delta ha il suo Hub ad Atlanta in Georgia mentre aeroporti di maggiore traffico commerciale e turistico sono New York, Chicago, Boston). Un Hub tuttavia rappresenta per una rete infrastrutturale industriale nazionale quello che un tempo gli Stati Nazione chiamavano ‘compagnia di bandiera’ cioè non uno ‘status symbol’ ma un concreto strumento di servizio per gli scambi tra le industrie nazionali e verso i Paesi esteri. Ora non c’è alcun dubbio che l’economia più competitiva in Italia sia collocata a Nord della pianura padana (con buona pace per l’economia parassitaria dei servizi statali e delle ‘cattedrali nel deserto’ al mezzogiorno). Per riassumere, le aspettative dell’economia più globalizzata italiana sono disattese totalmente per la ‘conservazione’ di interessi parassitari e vetero-industriali dello Stato Nazione in quanto si cercano soluzioni che trascurano la centralità di criteri che diano sostegno a una rete infrastrutturale moderna, efficiente e poco costosa e con baricentro tra Milano e Bologna e dotata di connessioni di trasporti multimodali moderni e fruibili (Genova e Trieste sono porti ‘castrati’ da analoghe istanze sindacali e politiche da Stato Nazione vetero-industriale – se si pensa che i ‘camalli’ hanno spinto la Fiat a esportare tramite TIR e trasporto fluviale sul Reno fino al porto di Rotterdam) ciò aiuterebbe anche il decollo delle industrie più moderne del Centro Italia. Il resto dell’economia competitiva (rurale e turistica) del Centro Sud potrebbe aumentare gli aeroporti per il traffico cargo e turistico senza gli attuali vincoli di tratte interne e di gestione logistica imposti da una azienda ormai da sostituire sulla base di criteri operativi totalmente alieni alla sua attuale gestione e che quindi conducono al paradosso di cercare soluzioni tra: fallimento e perdita del capitale operativo principale, svendita ad analoghe ‘compagnie di bandiera’ estere con il parziale reimpiego del capitale esistente a sostegno però di interessi economico-industriali in competizione coi nostri sui mercati globali, affidare lo studio d’una soluzione nazionale ai Governatori e imprenditori del Nord escludendo quindi la tutela di tutti gli interessi parassitari attuali (che potrebbero ricevere solo ‘liquidazioni’ di tipo marginale con criteri di mercato del lavoro).