21/01/2010 |
Obama: dramma di una promessa bruciata dalla fretta delle lobby Questa rubrica, in tempi non sospetti – durante la campagna elettorale di Obama contro McCain, propose il suo punto di vista in merito a Barack Obama: un brillante e giovane politico, dotato delle necessarie doti di chiarezza oratoria, capacità demagogiche, prudenza, pragmatismo nelle scelte, motivato da un’innovativa visione circa la sostenibile collocazione del suo Paese nel contesto della globalizzazione ma che ancora manca di una adeguata esperienza che avrebbe potuto maturare in quella eccellente scuola che è il Senato USA dove aveva da troppo poco tempo acquistato sul campo il diritto di appartenenza. Se avessi dovuto scegliere tra i due contendenti, suggerivo, avrei eletto McCain che avrebbe garantito una salda continuità in politica estera e di difesa mentre, in materia finanziaria, avrebbe preparato la successiva elezione di Obama nel 2012 anno in cui l’homo novus sulla scena politica regionale avrebbe avuto il tempo necessario per farsi apprezzare sul piano nazionale e pre acquisire familiarità col complicato ma solido, ben rodato e efficiente meccanismo che presiede alla negoziazione di soluzioni accettabili tra istanze configgenti poste all’attenzione del legislativo dalle lobby; una risorsa preziosa per la liberal-democrazia se regolata da precise regole, protocolli relazionali e trasparenza mediatica. Risorsa cui i vecchi Stati Nazione hanno spesso cercato di supplire istituendo enti di stato quali la Camera dei Fasci e delle Corporazioni o l’odierno e disatteso Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Le recenti disavventure politiche di Obama stanno dimostrando la correttezza dei timori espressi in rubrica e la validità della prudente permanenza in “camera di meditazione” del candidato a “Gran Maestro” di quella organizzazione che è una vera e propria Loggia Massonica il cui accesso è pienamente democratico e aperto a candidati di ogni colore, fede, genere e nazionalità; purché pienamente aderente ai principi Costituzionali fondati dalla visione universale dei diritti dell’uomo della massoneria anglosassone. Infatti la rubrica spesso ha suggerito agli eventuali lettori una rilettura degli eventi politici in chiave dell’ispirazione massonica della liberal-democrazia di “obbedienza” religioso-umanista anglosassone opposti alla visione liberal-democratica “infettata” dal paradigma scientista-elitario dettato dal trauma che la Rivoluzione Francese ha imposto al mondo con le gravi conseguenze per il rispetto della dignità umana (nelle decisioni interne all’Europa) e per l’egemonia europea nella gestione del progresso industriale e civile (finalmente emigrato dall’Europa degli Stati Nazione dapprima nel Regno Unito, poi negli USA e, oggi, in una sede più diffusa che la governance dovrà regolamentare sotto il profilo di istituzioni e procedure condivise universalmente ma sempre tuttavia nello spirito liberal-democratico. Uno spirito non-settario in quanto promosso dal progresso meritocratico dello sviluppo industriale e tecnologico che alimenta i meccanismi premianti del capitalismo-liberista. Detto ciò solo al fine di riepilogare quanto più volte sostenuto e suggerito dalla rubrica, vorrei tornare ora a esaminare il costante tramonto di un personaggio dotato di caratteristiche di eccellenza in materia politica. Obama non aveva ancora un proprio apparato di sostegno (una sua lobby) consolidato attorno ad un suo originale programma di innovamento del sistema istituzionale USA. Rinnovamento imposto dall’attuale e irreversibile globalizzazione industriale innescata ed alimentata dal debito finanziario USA che ha ormai interconnesso in modo inestricabile economia di Paesi diversissimi in quanto a regime politico e reddito pro-capite. Obama è stato portato al successo sugli scudi di lobby altrui che sono ancora ancorate ad istanze, a proposte istituzionali ed a rivendicazioni politiche datate agli anni ’60 oppure ad esigenze industriali odierne ma di interesse troppo “locale”. Le prime essendo le reminiscenze “sessantottine” delle battaglie per i diritti civili, spesso drammatiche, tragiche e criminali ma ormai abbondantemente metabolizzate negli USA dalla pubblica opinione più vasta (da Martin Luther King, alle Pantere Nere, a Farrakhan al “femminismo” più intollerante il cui emblema è la Hollywood delle Jane Fonda e Susan Sarandon). Reminiscenze ed istanze che si “vendono” al meglio nei centri sociali più “arcobaleno” delle chiese negre e dei diseredati nelle periferie più criminogene del lavoro nero e dell’immigrazione illegale. Infatti queste istanze politiche sono state raccolte in modi capillari tramite finanziamenti federali “illegali” ad una associazione para-politica (Acorn – Association of Community Organizations for Reform Now) ed alla partecipazione alla campagna di Obama dei reverendi al vertice delle “chiese” locali più animate da spirito rivoluzionario. Un coacervo di centri di lobby sociali connotate da elementi razziali, illegali e poco apprezzabili dalla stragrande maggioranza degli elettori di entrambi i partiti. Centri che si sono dimostrati molto efficaci nel corso della campagna elettorale e che si aspettano dal presidente eletto la gratitudine di massicce risorse federali per sanare le aspettative da essi nutrite. Questa lobby è stata portata a sostegno del candidato Obama (meticcio e quindi tanto bianco quanto negro) da sua moglie Michelle (negra e nutrita delle aspettative di rivendicazioni “sessantottine”). Le seconde istanze industriali più attuali invece sono quelle (sempre portate a Obama dalla moglie Michelle) garantitegli dalla sua professione a Chicago – Illinois e sono tipiche del mondo degli affari adiacente alle istituzioni di governo locale che sono ben note a noi in Italia ma che inevitabilmente affliggono per analogia ogni amministrazione comunale o statale nel mondo reale. Queste istanze possono essere le più scomode ma consentono di essere affrontate con metodi di scambio che liberino il candidato dai legami più scomodi per consentirgli di rinnovare la sua lobby di sostegno all’iniziativa politica più personale. Si tratta di poter esprimere infatti la gratitudine per i sostegni ricevuti in modi compatibili con il nuovo status istituzionale del candidato vincente col quale quindi nessuno può desiderare di rompere le buone relazioni. Una volta inopinatamente trascinato al successo da queste lobby esogene alle sue esigenze programmatiche (ancora in lenta gestazione e calibratura a misura della concreta sostenibilità ambientale) Obama s’è trovato “schiacciato” tra tre incompatibili esigenze e priorità decisionali:
Lo stile della presidenza USA nel mondo richiede effettivamente di essere adattato alle esigenze di governance consensuale multilaterale (il punto d’arrivo) partendo dalla tradizionale governance fondata su una rete di accordi bilaterali. L’economia industriale s’è globalizzata e quindi l’egemonia di quella USA tendenzialmente andrà riducendosi in coerenza con il suo peso sullo sviluppo del PIL globale (interesse comune di tutti i Paesi che daranno credibilità al Nuovo Ordine Globale). Tuttavia lo stile della presidenza si evidenzia giornalmente tramite le iniziative già in essere che rispettano gli accordi di stabilità nella continuità politica internazionale e ciò impone al buon senso, al pragmatismo e alla flessibilità decisionale di Obama di finanziare gli impegni assunti dai precedenti presidenti (essenzialmente cooperazioni industriali e imprese militari). Ciò richiede un bilancio incomprimibile pena il fallimento di iniziative di grande immagine pubblica per il presidente e per la economia industriale USA. Evitare pause di rallentamento nella crescita della globalizzazione è di altrettanto peso prioritario di quanto siano le imprese militari anti-terrorismo. Da ciò deriva la prioritaria attenzione di Obama sia per la prosecuzione del programma militare in Asia Centrale e per l’avvio di iniziative in Africa e in Medio Oriente sia per il salvataggio dei gruppi finanziari esposti maggiormente nel finanziamento della globalizzazione; in piena continuità con le decisioni di “W” Bush. Ciò ha richiesto di aumentare il debito federale già molto alto. Compensare le aspettative delle lobby “sessantottine” richiede allo stato federale di finanziare iniziative atte a garantire diritti sociali a minoranze “illegali” (immigrati e lavoro nero) aumentando ope legis il potere dei sindacati e dei controlli amministrativi. Ciò oltre a comportare maggiori oneri per le aziende, comporta la aggiunta di intralci legislativi alla produzione e minore produttività industriale per le aziende nazionali. Gli investimenti nazionali rallentano e la delocalizzazione industriale è incentivata. La ripresa produttiva rischia di rallentare, la disoccupazione aumenta con lo scontento della maggioranza degli elettori che hanno scelto Obama per pure proiezioni di aspettative di “cambiamento” d’una situazione economica in corso di degrado. Ciò inoltre alimenta un tipo di aspettative estranee alle convinzioni di Obama in quanto statista che accetta per il suo Paese e la sua economia un ruolo più aperto e non protetto da misure insostenibili dal bilancio e dall’innovazione che spinge gli USA verso attività industriali capital intensive ed hi-tech cedendo quelle più Manpower intensive. Inoltre sanare la situazione degli immigrati illegali a spese degli elettori tradizionali aliena a Obama le simpatie delle classi medie meno ideologicamente motivate. Un aumento del bilancio federale controproducente ai fini della sopravvivenza politica di Obama. Infine l’avvio di iniziative socialmente innovative e capaci di caratterizzare lo stile di Obama come statista sono iniziative di due tipi la tutela ambientale (programma internazionale anti-inquinamento industriale) e l’estensione della copertura sanitaria nazionale. Entrambi i programmi possono essere attuati con mezzi rispettosi dell’economia capitalista-liberale oppure con misure di welfare state a carico federale. Obama non è ideologicamente rigido e potrebbe negoziare programmi di implementazione che rispettino le esigenze del ritorno dei capitali investiti dalle aziende. Obama ha infatti negoziato con le lobby del comparto sanitario e con quelle del comparto energetico la definizione dei provvedimenti legislativi necessari allo scopo. L’unico contrasto risiede nei tempi in cui i programmi potranno dare visibilità dei risultati. Una eccessiva lentezza fa rischiare a Obama e alla sua maggioranza al Congresso il consenso elettorale legato a cadenza biennale. Un’accelerazione dei risultati deve ricevere compenso a carico del bilancio federale. Per soddisfare queste due esigenze (consenso delle lobby e consenso politico) Obama deve ricorrere a ulteriore debito federale oltre che all’aiuto di una legislazione che imponga l’accelerazione della rivoluzione nel servizio sanitario nazionale. Questa accelerazione può essere ottenuta legittimando sul piano legislativo un intervento dello stato federale sull’economia industriale in quel comparto di industria. Il welfare state è l’approccio che è già in vigore nei vecchi ‘Stati Nazione’ in Europa ma esso è incompatibile con il futuro scenario globalizzato in cui nessuno Stato Nazione potrà mai permettersi di sostenere un patto sociale fondato sull’assistenza erga omnes dalla culla alla tomba. Ciò è stato possibile in passato sulla base della tutela della compatibilità economica dei bilanci nazionali a fronte di protezionismi e colonialismi ormai tramontati e illegittimi secondo ogni ottica liberal-democratica. Obama insomma è costretto a perseguire paradigmi di legittimazione antistorici per il ruolo del suo “cambiamento” all’interno del Paese mentre è costretto a garantire continuità nelle relazioni internazionali a iniziative politiche e militari invise al suo elettorato nazionale ma indispensabili per dare credibile sostegno al ruolo degli USA nel consolidamento della governance futura. È comunque costretto a finanziare quelle due linee politiche a spese di un crescente debito federale che ostacola la ripresa della produzione industriale e l’aumento dell’offerta occupazionale interna, agevolando inoltre un aumento della conflittualità sociale tra immigrati illegali, lavoro nero e lobby sindacali “de sinistra”. È inoltre stretto tra due ulteriori morse: il governo del partito democratico che è ancora saldamente nelle mani dell’ala liberal più radicale con la leadership di Nancy Pelosi non disponibile a negoziare le riforme con i conservatori dei due partiti e con le iniziative dell’ala più demagogica e illiberale delle lobby ecologiste che spingono verso accordi soprannazionali fondati sull’imposizione di freni allo sviluppo industriale suggeriti da Al Gore col sostegno di immagine dei liberal più radicali di Hollywood (global warming e trivellazioni petrolifere). Attendersi da Obama il miracolo del “cambiamento” che era stato solamente frutto di proiezioni personali e poetiche da parte dell’elettorato attivo USA e dell’opinione pubblica mondiale sembra realmente un’utopia che è destinata a infrangersi rapidamente contro le scogliere della realtà composte dalla compatibilità dei bilanci statali, dai vincoli dello sviluppo industriale ormai estraneo alle capacità di controllo anche dello Stato USA e dalle aspettative di welfare state ormai insostenibili e illegittime nell’ottica della governance globale e delle nuove libertà di circolazione delle persone, delle merci e soprattutto dei capitali finanziari. Obama ha due sole strade da percorrere: accelerare l’attuazione dei programmi di welfare state con un aumento di gravami fiscali sull’economia nazionale ma col sostegno dell’ala minoritaria liberal più radicale del partito di Nancy Pelosi e perdere quasi certamente le prossime elezioni di mid-term e conseguente minor potere sul Congresso oppure negoziare trasversalmente ai due partiti riforme compatibili col libero mercato nello spirito del capitalismo-liberale sperando di riuscire a raccogliere in Congresso dosi di consenso atte a dare vita ad un “cambiamento” di spirito conservatore ottenendo il consenso dei conservatori tradizionali e dei democratici meno ideologizzati. In analogia con Clinton questa è la strada percorsa dai più pragmatici presidenti USA che non sono ispirati da “visioni salvifiche” (come Carter) ma da scopi di successo personale.
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