19/12/2009

Aspettative e Fallimenti

Abbiamo un sistema mediatico molto al di sotto delle esigenze di una corretta e adeguata informazione su ciò che accade nel mondo che ci consenta di comprendere gli sviluppi accelerati dell’internazionalizzazione del sistema industriale dal quale dipende non solo il nostro reddito attuale ma soprattutto quello dei nostri figli connesso alle opportunità che la globalizzazione offre alla loro intraprendenza e abilità professionali.

Tranne qualche scarsa eccezione (il Foglio di Giuliano Ferrara) infatti, perfino l’organo ufficiale del nostro sistema industriale e la radio dello stesso, riportano pochi contributi all’altezza con l’analisi dei problemi internazionali.

Il risultato è che i resoconti della stampa più diffusa è ricca di cronaca totalmente inutile, scandalistica o partigiana, mentre informa in modo immaginifico e creativo senza tentare alcun impegno serio di analisi dei problemi per tentare di fornirne descrizioni di carattere rigoroso anche se inevitabilmente divulgativo.

I giornalisti sono ispirati da loro visioni ideologiche e settarie che li spingono a raccogliere un florilegio di eventi di cronaca nazionale e internazionale che siano idonei a suffragare le loro teorie relative ai problemi e alle loro possibili evoluzioni sullo scenario geopolitico. Una sorta di rappresentazioni della realtà a-misura di quanto essi auspicano possa verificarsi dagli eventi imminenti e a dare un’interpretazione addomesticata degli eventi passati adeguata alle stesse aspettative che essi nutrono sugli sviluppi della situazione di loro “competenza”. In inglese si sintetizza questa tendenza come “wishful thinking” cioè dare della realtà una descrizione distorta e favorevole a rendere credibile quanto si spera possa avvenire. È vera e propria fanta-cronaca invece che divulgazione scientifica o descrizione oggettiva degli eventi.

Questo atteggiamento crea negli ascoltatori o lettori, preliminarmente agli eventi, più significativi un tipo di aspettative totalmente inadeguato a riuscire poi a comprendere, successivamente agli eventi stessi, in che misura essi abbiano avuto successo e, soprattutto, quali siano le resistenze che ne hanno impedito la felice conclusione in modo da acquisire sempre maggiore familiarità con la meccanica degli interessi opposti che generano i conflitti e che suggeriscono la negoziazione di compromessi tra le parti coinvolte.

Il fallimento di Copenaghen è un tipico esempio della totale inadeguatezza del giornalismo nostrano a chiarire ciò che si sarebbe affrontato e quindi a comprendere le ragioni della dialettica negoziale e anche a condividere o a criticare in modo fondato le ragioni che hanno impedito che la conferenza raggiungesse un accettabile accordo almeno sui temi di importanza prioritaria.

Preliminarmente alla conferenza s’è dato per scontato che il problema che lo motivava fosse il riscaldamento ambientale causato dalle attività umane e che l’urgenza a trovare un accordo generale in quella sede fosse il carattere di imminente catastrofe globale. Si illustrava che entrambi elementi fossero accertati sul piano scientifico ed anche condivisi da ogni convenuto. Queste due condizioni, come invece è noto, non sono né accertate né condivise sul piano scientifico. Quindi le negoziazioni politiche per definire un accordo che desse un’immediata risposta al problema non potevano assolutamente sperare di avere successo per mancanza di una urgenza drammatica unitamente all’assenza di convinzione sull’effetto positivo sul clima di decisioni su attività umane che non è sicuro possano influire positivamente sul clima globale, dato che non è neanche certo che esse abbiano contribuito ad influirvi negativamente. Le aspettative create nella pubblica opinione da una stampa non divulgativa ma partigiana, fanta-scientifica e spettacolare sono state quindi esagerate e mal orientate creando le premesse della delusione per un accordo che non avrebbe mai potuto soddisfarle.

In realtà il problema della crescita industriale è un problema che non può trovare soluzione negandola in quanto ciò condurrebbe a frustrare le aspettative di maggior benessere nutrite (e rese credibili dalla stessa crescita industriale globale) da enormi masse umane fino a ieri condannate a carestie ed epidemie (Cina ed India in particolare – ma non sole).

Il problema della inarrestabile crescita industriale su base globale pone diversi problemi tra loro strettamente interconnessi ma comprensibilissimi se non li si distorcesse in chiave ideologica per obbligare le soluzioni in senso anti-industriale.

Tra i problemi ne figurano almeno tre:

  • la disponibilità di risorse necessarie ad alimentare la produzione (risparmio, energia ma anche materie prime),
  • l’esigenza di riorganizzare in tempi accettabili l’organizzazione dei processi produttivi sottraendo quelli più manpower intensive al Nord (che subisce una congiuntura di disoccupazione nelle fasi mature prima di avvertire i benefici di maggiore occupazione e reddito pro capite in fasi innovative più capital intensive) per impiantarle al Sud (che rende più redditizie le vecchie produzioni e genera quindi un maggiore reddito globale a parità delle risorse finanziarie investite)
  •  l’aumento vertiginoso delle scorie prodotte dalla maggiore produzione e consumi che si soddisfano grazie a questo altrettanto vertiginoso ed irreversibile aumento del benessere globale (inquinanti gassosi, rifiuti industriali, scorie nocive, inquinamento termico, deforestazione, colture intensive, uso intenso delle acque).

Si tratta di problemi che esulano da qualsiasi convergenza scientifica sul “man made global warming” e si possono riepilogare invece nell’”inquinamento ambientale”.

Il “man made global warming” è utilizzato strumentalmente come mezzo di pressione psicologica dalla demagogia eco-terrorista ma non è assolutamente né condiviso né scientificamente dimostrabile in quanto la scienza non possiede ancora conoscenze tali da fornire ai climatologi modelli previsionali credibili. La scienza in questo campo riesce a malapena a fornire modelli scarsamente credibili ai meteorologi che infatti basano le loro previsioni sulle immagini raccolte in tempo reale dalla rete di satelliti e, messe in successione, riescono a dare indicazioni “qualitative” sugli sviluppi delle prossime ore (il caso dell’evoluzione degli uragani è un classico esempio).

L’“inquinamento ambientale” invece è un fatto che non deve essere dimostrato in quanto discende da una realtà condivisa: “se (con le tecnologie disponibili oggi) per produrre un certo volume di beni e servizi si consumano tante risorse e si producono tante scorie, per produrne una quantità dieci volte tanto se ne consumeranno dieci volte di più e si produrranno dieci volte più di scorie”. È una banalità che chiunque condividerebbe senza bisogno di eco-terroristi.

Se allora la conferenza di Copenaghen si collocasse attorno a questo tema ne discenderebbe una più facile comprensione delle posizioni di Nord e di Sud e si riuscirebbe perfino a condividere le ostilità degli uni e le pressioni degli altri. Senza bisogno di lanciare mistificanti etichette di stigma sul Nord e di lode sul Sud.

L’esigenza di trovare una soluzione al problema dell’inquinamento globale quindi è il vero tema che sollecita queste conferenze in sede ONU. Ma il problema dell’inquinamento viene inevitabilmente risolto dalla ricerca di nuove soluzioni industriali ai diversi problemi indicati sopra e cioè:

  • nuove tecniche per produrre energia, nuove tecniche per riciclare materie prime, nuove tecniche per adottare materie prime meno scarse in sostituzione di quelle più rare, nuovi prodotti finanziari ed assicurativi che sappiano ottimizzare la raccolta, la gestione e l’allocazione del risparmio a-misura delle esigenze ed aspettative del nuovo sistema produttivo globale,
  • indirizzare prioritariamente la ricerca applicata e la riorganizzazione produttiva per anticipare le nuove offerte occupazionali a Nord senza arrestare la crescita del PIL globale ritardando l’offerta di nuova occupazione al Sud,
  • sviluppare processi, tecnologie e impianti capaci di smaltire le scorie, di ottimizzare l’impiego delle acque, di migliorare la produttività rurale, di ottimizzare la rete distributiva, dei trasporti e della logistica industriale su base globale.

In altri termini si tratta di indirizzare le risorse finanziarie (quelle sempre più rare e preziose in ogni fase di crescita della civiltà industriale ‘Occidentale’) su una scala concordata globalmente di priorità che tengano conto delle aspettative ma anche della stabilità del consenso politico (sia a Nord che a Sud) e della fattibilità tecnica di soluzioni industriali che, per essere poste in essere, richiedono inevitabilmente il conseguimento di una base di consenso bilaterale sui singoli progetti industriali. Una volta definiti i quali sarebbe possibile per la politica negoziare i termini dei reciproci controlli di rispetto degli accordi industriali; cioè i termini della graduale governance globale che non potrebbe mai discendere dall’alto di direttive astratte di intellettuali e tecnici ma che dovrebbe trovare graduale e credibile riscontro dal basso nelle popolazioni del Nord e del Sud che subiscono i disagi ma nel contempo beneficiano del maggior benessere che la globalizzazione rende percepibile al di la di quanto suggeriscono i wishful thinking degli eco-terroristi e dei loro pennivendoli “divulgatori”.