19/11/2010

Elogio del ‘laissez faire’: ovvero sia benedetta la crisi politica permanente in Italia

L’assoluta egemonia del ‘laissez faire’ in politica è emblematicamente rappresentata dal ‘caso Italia’; ciò soprattutto in epoca di turbolento cambiamento del contesto industriale.

Sia durante la fase di stabilità del governo, sia in quella dell’attuale, più formale crisi di governo.

Nel corso della prima infatti i reali cambiamenti istituzionali sono lenti o perfino nulli grazie alle ‘resistenze, resistenze, resistenze’ messe in atto dalle oligarchie del vecchio Stato Nazione, ormai solo parassitarie alla luce delle effettive esigenze della nuova governance globale. Fenomeno ‘esogeno’ a tutte e comunque ridotte capacità di gestione delle istituzioni nazionali di qualsiasi sistema stato-industria nazionale; da Cina a USA o Germania.

Nel corso della seconda invece l’annullamento delle necessarie ‘riforme istituzionali’ è ulteriormente causato con tempi più prolungati dettati dall’intricata commistione delle ‘resistenze’ delle vecchie istituzioni con le più creative istanze sollevate dai protagonismi personali e da ipotesi innovative prive di concreti riferimenti con il contesto industriale globalizzato.

Infatti, come detto, le ‘riforme istituzionali’ sarebbero indispensabili in ogni paese coinvolto dal processo che crea la nuova realtà produttiva industriale globale e ne definisce in autonomia le nuove esigenze necessarie per stabilizzare la futura governance. Si tratta, in tutti gli Stati Nazione, d’un processo esogeno che procede a ritmi accelerati che eccedono qualsiasi analoga modifica delle istituzioni che aveva innovato la governance nel passato ormai morto col ‘muro di Berlino’; ultimo baluardo ottocentesco della legittimità assegnata alle ideologie di svolgere un ‘ruolo guida’ extra-industriale sulla crescita del benessere economico.

Il carattere esogeno a ogni Stato Nazione dei cambiamenti produttivi in corso rende sterile ogni iniziativa di influenzarne il progresso tramite istituzioni nazionali adeguate ad una governance dell’economia che ormai è obsoleta. In un contesto di collaborazioni soprannazionali attraverso istituzioni e logiche geopolitiche che risultano analogamente obsolete. Solamente successivamente alla fase di consolidamento del nuovo assetto di produzione industriale sarà possibile identificarne le esigenze auspicate per stabilizzarne le relazioni e, su quelle esigenze, organizzare i nuovi servizi di pubblico interesse nella legittimità definita dal nuovo spirito di cooperazione geopolitica. Questo processo adegua le istituzioni, le procedure e la loro legittimità a-misura di un elemento pragmatico e di concreto comune interesse sociale ed economico; la globalizzazione industriale.

Non è possibile anteporre i criteri della nuova governance all’avvenuto consolidamento del sistema al cui beneficio viene organizzata la governance stessa.

Ciò vale per i sistemi stato-industria di ogni Stato Nazione; dai più egemoni ai più insignificanti.

Il sistema industria-stato d’Italia, in particolare, è caratterizzato da un’assoluta dipendenza estera per svolgere il suo tradizionale ruolo di paese trasformatore industriale. La sua economia industriale inoltre è caratterizzata da un grado di competitività secondario tra i paesi industrializzati e la dimensione della sua produzione industriale totale si colloca tra quelle di categoria intermedia tra sistemi più piccoli ma molto più solidi e sistemi meno solidi ma di dimensioni quantitative molto superiori.

Questa collocazione del sistema stato-industria italiano rende inoltre più marginale di analoghi tentativi ogni sua iniziativa mirante a incidere sulla direzione della futura nuova governance globale.

Queste considerazioni suggeriscono a qualsiasi governo in Italia di limitarsi ad assumere iniziative atte al recupero della competitività del sistema stato-industria nazionale lasciando che il resto dell’economia più dipendente dall’estero trovi in autonomia il suo nuovo assetto produttivo. Le risorse limitate e il livello di qualità delle prestazioni erogate dallo stato all’industria nazionale sono già così ridotte che, anche se si concentrasse ogni attenzione a questo parziale obiettivo, difficilmente si riuscirebbe a recuperare livelli di competitività del sistema produttivo nazionale entro i tempi ridotti in cui sta progredendo il processo della globalizzazione industriale. Estendere la dimensione degli obiettivi politici nazionali a più ambiziosi fini sarebbe patetico e scarsamente credibile.

Quale politica quindi è obbligato a seguire qualsiasi governo nazionale oggi in Italia?

Fino a quando la politica in Italia sarà obbligata ad aderire a questa linea di obiettivi ristretti?

Sono quesiti ai quali può essere data risposta osservando la graduale evoluzione del sistema produttivo globale e come riesca ad adeguarsi alle nuove esigenze il sistema produttivo nazionale. Si tratta di un ‘gioco di rimessa’ cui è obbligata qualsiasi istituzione di interesse pubblico nazionale tutte costrette a riformarsi in funzione di quel processo-pilota pressoché pienamente esogeno rispetto al vecchio sistema stato-industria.

Detto ciò, la linea politica del governo nazionale non può che essere impostata sulla necessità di lasciare al sistema industriale già sottoposto a pressioni esterne ogni possibile risorsa disponibile; riducendo al minimo le proprie necessità finanziarie. Ciò, per un sistema stato-industria come l’Italia oberato da enormi costi per il suo debito accumulato nel passato e dall’enorme porzione di risorse finanziarie richieste per alimentare le dimensioni abnormi dello stato (le cui prestazioni come visto sono ormai parassitarie in misura crescente), significa poche cose: 1) ridurre i costi dello stato (per non poterne ancora definire i futuri assetti nuovi e più produttivi per la lentezza del processo d’attuazione delle connesse riforme – giudiziario, infrastrutturale, fiscale, etc.), 2) ridurre i costi del debito passato (per l’impossibilità di generare fenomeni di crescita del PIL che bilancino positivamente ogni ulteriore crescita del debito stesso), 3) reperire nuovi cespiti erariali (senza poter aumentare la pressione fiscale già insostenibile dal sistema produttivo), 4) aumentare la fiducia estera per la stabilità del sistema stato-industria nazionale.

Il primo punto obbliga il governo a favorire l’esodo dei suoi addetti essenzialmente riducendo il turn over in ogni comparto non immediatamente interessato a doversi riformare per adeguare le prestazioni al servizio delle nuove esigenze del sistema produttivo ed alle emergenti aspettative del sistema civile. Ogni iniziativa di riforma intrapresa oggi sarebbe solo sterile ed ancora priva di chiarezza negli obiettivi perseguiti.

Il secondo punto costringe a favorire il calo del tasso di sconto e ad accelerare in ogni modo l’afflusso nelle casse dello stato di risorse finanziarie che riducano l’esigenza di nuove emissioni obbligazionarie a rinnovo di quelle in scadenza. Ciò significa rientro di capitali italiani fuggiti all’estero, lotta all’evasione fiscale, lotta alla criminalità organizzata in competizione sull’appropriazione dei capitali e sulla loro attribuzione a scopi non industriali, aumentare le entrate prodotte dai giochi d’azzardo, dilazione delle uscite finanziarie, ridurre i costi del welfare state, etc.. Tutte iniziative impostate sul laissez faire in attesa che nel frattempo il sistema industriale definisca in piena autonomia e responsabilità i suoi assetti nazionali per riuscire a competere con i concorrenti emergenti e per sfruttare le nuove opportunità di sviluppo stabilendo nuove cooperazioni sul mercato internazionale.

Il terzo punto spinge ad accelerare la lotta alla criminalità organizzata e ad appropriarsi a fini produttivi dei capitali sequestrati, a vendere o cedere in gestione tutti i possibili beni erariali dando privilegio a quelli che si prestino ad agevolare investimenti produttivi nei più diversi comparti industriali.

Il quarto punto impone di evidenziare credibili comportamenti politici all’estero per ridurne il costo sul sistema finanziario (spread delle emissioni obbligazionarie e contributo al cambio valutario) e per attrarre i nuovi investimenti in corso grazie all’evoluzione del fenomeno esogeno della globalizzazione industriale (gli sgravi fiscali, la riforma costless delle relazioni industriali, le semplificazioni amministrative, il sostegno alle autonome iniziative dei principali gruppi industriali nazionali nel loro inserimento nei mercati esteri, etc.).

Sono tutte iniziative che il governo Berlusconi ha mirabilmente perseguito con un apparente ‘laissez faire’ se valutate nell’ottica neo-keynesiana che ha generato le istituzioni protezioniste degli Stati Nazione grazie al paradigma (ormai insostenibile) del welfare state degli stati-etici di Bismarckiana memoria. Tremonti ha garantito il rigore amministrativo delle finanze nazionali senza allargare i cordoni della borsa erariale e con l’avvio d’una riforma l’efficacia dei cui effetti potrebbe essere troppo lenta per produrre risultati effettivi ma la cui efficacia psicologica e di immagine sul mercato finanziario internazionale è invece immediata. Inoltre Berlusconi, in quanto credibile tycoon sul piano internazionale indipendentemente dal suo ruolo di primo ministro (altrimenti totalmente sterile per valutazione teorico-istituzionale e storico-pragmatica), ha dato sostegno alle poche iniziative industriali nazionali già avviate in autonomia (ENI, ENEL, Finmeccanica, Fiat, Generali, Mediobanca, Fininvest, etc.) inaugurando nuove relazioni interpersonali libere dall’inefficienza ed obsolescenza del sistema stato italiano (MAE, MICA, ICE, etc.) che si incentrano sulla personalizzazione della politica che è in corso in tutti i paesi e nei loro vecchi sistemi di governance in piena analogia in quanto un analogo processo è imposto sui sistemi stato-industria di tutti i vecchi Stati Nazione. Il valore aggiunto che Berlusconi ha dato a sostegno della riorganizzazione industriale italiana sullo scenario globale viene taciuto per ragioni di lotta politica interna e non è evidenziato dallo stesso Berlusconi in quanto ne è stato autore in un ruolo di tycoon e per obiettivi Fininvest e non di primo ministro.

Tutte le iniziative assunte sono state fertili di risultati la cui dimensione è stata condizionata solo dal ruolo competitivo del vecchio (scadente) sistema stato-industria italiano ancora egemone e dalla lentezza con cui i nuovi lineamenti della globalizzazione stanno consolidando la futura cooperazione produttiva industriale.

Il ‘laissez faire’, costless e minimale per le funzioni statali, sta pagando proprio per un paese come l’Italia la cui competitività è scadente e quella del futuro assetto stato-industria non potrà che essere migliore.

Il ‘laissez faire’ è il paradigma elettivo per teoria e prassi impugnato dai più ‘conservatori’ liberisti che con ciò riescono a dare evidenza dell’assoluta egemonia del capitalismo-liberista in contesti turbolenti (i soli in cui è necessario il ‘governo’ dall’alto del sistema stato-industria) come protagonista; grazie all’invadenza-minimale della sua filosofia liberale di governo ‘dal basso’.

Le ‘menti sottili’ keynesiane e ‘de sinistra’ che hanno sempre fallito nel prevedere le crisi e nel superarle con i loro interventi illiberali ‘dall’alto’ son costrette dagli eventi irreversibili del capitalismo-liberista sul mercato globale ad assumere atteggiamenti di sterile critica impotente ed incentrati sul protezionismo; la soluzione dei più tradizionali regimi reazionari.

Un’eterogenesi degli obiettivi teorici che ha sempre afflitto ogni paradigma delle elite intellettuali dietro le quali si formano le sempre verdi oligarchie parassitarie dei sinedri più illiberali; il ‘trotzkismo’ più anarchico è l’inevitabile sbocco di ogni rivoluzione etica promossa dall’alto da elite intellettuali. Altrimenti si ripristina l’ordine tradizionale delle oligarchie sotto altri nomi ma nello spirito del Principe di Salina di turno.

‘Sic transit gloria mundi’ (de imitazione Christi)! Ovvero! ‘vanità delle vanità, tutto è vanità’ (Ecclesiaste).