19/06/2010

Astrazioni intellettuali e realtà naturale

Come in ogni altro comparto della conoscenza scientifica, anche in economia e in sociologia vale il concetto fondamentale che afferma “se un modello si dimostra inadeguato a rappresentare la realtà naturale, è il modello ad essere errato, non la Natura”.

Anche in politica, che è la scienza di negoziare il possibile tra obiettivi auspicati e realtà contingente, vale questo concetto fondamentale nella negoziazione di una nuova governance globale che la globalizzazione oggi sta mettendo in discussione in uno scenario diverso da quello che ha garantito la legittimità di accordi concordati nell’era precedente degli Stati Nazione e dell’associato stato sociale in cui i protagonisti erano le istituzioni pubbliche e private autorizzate a negoziare con lo stato la governance; sindacati operai, sindacati datoriali, corporazioni professionali.

Ciò che è cambiato in modo irreversibile oggi è il contesto in cui si svolgono le negoziazioni politiche. Esse avvengono per tutelare la specificità di interessi sociali e culturali che sono tutti fondati su un bilancio tra costi e benefici i quali a loro volta fondano la loro sostenibilità su un sistema produttivo industriale che sia competitivo nello specifico contesto vigente alla data.

La credibilità delle posizioni negoziali non si fonda quindi sulle affermazioni di principio né sulla supposta irreversibilità dei privilegi ‘locali’ raggiunti da specifiche comunità in epoche e contesti ormai superati ma si fonda sulla credibilità del sistema industriale che sostiene le ragioni della negoziazione politica.

Il problema vero è che il sistema industriale che produce, distribuisce e finanzia lo sviluppo industriale è stato letteralmente rivoluzionato dall’abbattimento dei confini dei vecchi Stati Nazione e ciò è avvenuto dopo un percorso travagliato da guerre civili e internazionali tutte incentrate sul vecchio paradigma delle relazioni tra Stati Nazione. Stati che erano legittimati a negoziare grazie al sostegno garantito dal sistema industriale nazionale; a scapito dei sistemi nazionali in competizione sugli ‘spazi vitali’ per la conservazione o l’aumento della propria competitività.

La rivoluzione industriale ha creato oggi un contesto produttivo totalmente diverso; la globalizzazione. Si tratta di un contesto industriale che ha creato una nuova divisione tra gruppi industriali che colpisce in modo trasversale ogni vecchio sistema produttivo nazionale. I gruppi industriali di maggiore dimensione e capacità competitiva si sono ormai liberati nelle loro decisioni economiche dai confini imposti dai vecchi paradigmi dettati dalla logica degli Stati Nazione mentre le aziende di dimensione inferiore, anche se molto creative e competitive, sono costrette a restare ancorate ai loro contesti produttivi tradizionali per la minore mobilità dei fattori produttivi che caratterizzano i loro meccanismi aziendali.

Questa nuova dimensione produttiva del benessere globale costituisce la ‘realtà’ a fronte della quale deve fare i conti qualsiasi modello politico che voglia acquisire un consenso sociale nazionale per sviluppare con credibilità possibili negoziazioni per conservare i benefici sostenibili e ammorbidire i tempi di rinuncia a quelli non più sostenibili dai sistemi nazionali residuali.

Occorre rivedere questa frattura creata dalla globalizzazione in modo trasversale in tutti i sistemi industriali dei vecchi Stati Nazione per cercare di stabilizzare nuovi criteri nazionali di consenso politico che alimentino la legittimità delle istituzioni vigenti nel corso della negoziazione dei nuovi assetti di una governance che sia condivisa in quanto riesca a compensare le rinunce ai vecchi privilegi nazionali con benefici altrimenti non raggiungibili tramite i vecchi sistemi produttivi nazionali.

Occorre paese per paese esaminare le peculiarità che ne caratterizzano la struttura aziendale e quella sociale più arroccata sui contesti regionali per agevolare la riorganizzazione del sistema produttivo dotato di minor grado di mobilità rispetto alla struttura industriale già inserita nel nuovo contesto del mercato globale per agevolarne l’attenzione a insediare i nuovi impianti produttivi nel paese d’origine senza creare vincoli di natura ideologica.

Ciò è possibile e doveroso per poter costruire una governance politica condivisa che si fondi saldamente sul consenso sociale diffuso evitando al massimo ogni possibile disagio senza compenso nel corso del processo di riorganizzazione istituzionale.

Pretendere come avviene per Pomigliano o Termini Imerese la conservazione di investimenti industriali ormai economicamente non competitivi in quei contesti o, più in generale, pretendere la conservazione di privilegi nazionali insostenibili sul piano dei costi economici (statuto dei lavoratori, stato sociale, previdenza sociale) difendendone la conservazione all’insegna della ‘intangibilità’ costituzionale e l’’irreversibilità’ dei diritti acquisiti, è come pretendere la perpetuazione degli imperi coloniali per non nuocere alle economie imperialiste. Queste sono crollate di fronte alla nascita di nuove realtà nazionali in grado di convincere i gruppi multinazionali a rinunciare a forme tradizionali di sfruttamento della propria posizione industriale fondate sulla logica di potenza dei vecchi Stati Nazione europei. Oggi è già accaduto un analogo fenomeno in cui i confini di tutti gli Stati Nazione sono stati isteriliti da una logica di sviluppo industriale che riesce a creare globalmente maggiore ricchezza a fronte di una riorganizzazione produttiva soprannazionale che sia più remunerativa per le limitate risorse finanziarie esistenti su base globale.

Le istituzioni della governance politica devono ricavarsi nuove basi di consenso per legittimare agli occhi dei produttori-consumatori-risparmiatori-elettori il loro ruolo nella negoziazione dei nuovi assetti istituzionali.

Ogni ritardo in questo processo riduce i margini di capacità negoziali e privilegia protagonisti caratterizzati da sistemi industriali maggiormente predisposti strutturalmente ad operare nel mercato globale. Paesi che si trovano in una fase emergente (Cina) e che quindi non hanno motivo di arroccarsi attorno a vecchi criteri di privilegi manifatturieri o paesi che sono caratterizzati da una struttura industriale altamente terziarizzata e da privilegi istituzionali (lingua, sistemi legale, giurisdizionale e commerciale, mobilità sociale, etc. – come USA e UK) tali da ridurre al minimo la fase di riorganizzazione produttiva; fonte dei disagi temporanei. Israele è, tra gli Stati Nazione, l’unico paese già pienamente inserito nel nuovo contesto globalizzato grazie al tessuto sociale che lo compone (alte qualificazioni professionali, adozione di lingua e dei sistemi legale e giurisdizionale inglese). Ciò rende possibile la sopravvivenza di quel peculiare Stato Nazione come tale nel nuovo contesto globalizzato.

Pochi studiosi, come il professor Pelanda, cercano meritoriamente di suggerire linee di azione politica che si possano percorrere per costruire assetti istituzionali temporanei in grado di costituire credibili interlocutori nel corso della negoziazione della nuova governance istituzionale. Si tratta in genere di studiosi che sanno guardare la luna invece del dito che la indica e che quindi (oltre all’oggettiva difficoltà di identificare percorsi politici soprannazionali caratterizzati dalle necessarie efficacia e tempestività per poter sostenere le ragioni di più Stati Nazione tradizionalmente in reciproca concorrenza) non sono sostenuti da alcuna delle tradizionali lobby politiche che sono ancora egemoni sullo scenario politico nazionale. Da ciò deriva lo sterile carattere di Cassandre di quei pochi studiosi che riescono a presentare gli inevitabili rischi comportati dalla rinuncia delle istituzioni (sindacati, corporazioni, stato e governo) degli Stati Nazione a coalizzarsi con proprie azioni politiche a sostegno di pochi, comuni interessi nel corso delle negoziazioni già in celere divenire tra i pochi paesi egemoni ed efficienti (USA, Cina, UK, Israele).

Trovare pochi elementi di comune interesse sarebbe possibile in astratto, come Carlo Pelanda indica spesso, grazie al peso ancora rilevante (ma in costante diminuzione col crescere della globalizzazione) della vecchia Europa come consumatore e produttore di beni, servizi e risorse finanziarie (non come potenza militare che è ormai insostenibile se non riducendo le dimensioni dello stato sociale). La negoziazione del valore dell’euro sarebbe possibile purché si riuscisse ad aggregare attorno all’UE tutti i paesi che non hanno ancora accettato quella moneta unica ma che ne dipendono prioritariamente per il loro sviluppo interno e, probabilmente, se si riuscisse a diversificare l’adesione di tutti i paesi a quella moneta unica graduandoli in una gerarchia in funzione di obblighi e di conseguenti benefici percorribile nei due sensi – a entrare e uscire. Ciò imporrebbe di dividere l’appartenenza all’UE in almeno tre fasce di sistemi economici: a pieno diritto (la vecchia Europa dei 12), in corso di accettazione (i più competitivi dei nuovi arrivati - est-europei, Spagna, Grecia, Ungheria, Portogallo) con oscillazione valutaria tra fasce concordate e controllate in analogia col vecchio SME, in una area di libero scambio doganale (in analogia con l’adesione ai vecchi accordi originari CECA, Euratom, etc.).

Sono utopie alla luce degli errori che sono stati commessi, alla luce delle resistenze corporative delle lobby politiche nazionali più efficienti e alla luce della giustificata prudenza da parte dei paesi più competitivi (Germania, Scandinavia o Regno Unito – non la Francia troppo debole per colpa delle scelte nazionaliste più recenti di enorme costo e privo di adeguati mercati commerciali – force de frappe, colonie oltremare, sistemi di comunicazione, aerospaziale e satellitare).

Tutto ciò associato all’accelerazione continua con cui si sviluppa l’internazionalizzazione industriale e si consolidano gli accordi politici tra i protagonisti egemoni (salvo gli errori gratuiti degli Obama-change-we-can).

In definitiva risulta scarsamente credibile qualsiasi strategia politica internazionale che ipotizzi l’assunzione di credibili accordi preliminari tra esecutivi e legislativi di sistemi industria-paese in reciproca competizione, arroccati attorno a vecchi criteri di legittimità e caratterizzati da diversi gradi di competitività e inserimento nel nuovo contesto soprannazionale sempre più rapido nella sua evoluzione industriale. È più probabile che esecutivi privi di efficacia di intervento e sempre meno dotati di autonomia finanziaria e politica (come gli esecutivi di tutta Europa tranne forse la Germania) cerchino di navigare con le superiori doti di efficienza, di competitività economica e di consenso interno cercando di ricavarsi spazi di credibilità sui quali fondare il proprio ruolo gerarchicamente superiore agli altri paesi europei. Da questo ruolo primario potranno agire in seguito per stabilire proprie posizioni di protagonismo regionale che saranno comunque necessarie anche in una governance globale.

Questo più probabile sviluppo delle azioni politiche in Europa suggerisce comunque a ogni paese di rivedere al suo interno la struttura degli interessi industriali e sociali per potersi comportare in modo da aumentare il consenso nel corso degli inevitabili disagi congiunturali imposti dalla auspicabile globalizzazione di tutta l’economia nazionale.

La struttura industriale interna a tutti i vecchi Stati Nazione (da USA, Cina, UK fino a Grecia, Portogallo e Ungheria) dipende da fattori umani e culturali che costituiscono sia un onere sia un valore aggiunto utile per riorganizzare il sistema industria-paese nazionale in modo compatibile col mercato globale.

In Italia (ma la cosa vale per quasi tutti i paesi europei) le produzioni industriali in ogni comparto hanno un carattere artigianale che le rende qualitativamente competitive ma poco adatte alla commercializzazione di massa più efficiente. Dai prodotti eno-gastronomici a quelli dell’arredamento di interni e degli stilisti della moda in tutti i settori i margini di valore aggiunto della produzione devono essere ridotti per competere sul mercato globale, né la produzione di massa riesce ad abbattere i costi o addirittura a realizzarsi per l’assenza dei fattori primari necessari (skill professionali e territorio di produzione i principali).

D’altronde in un mondo globalizzato sappiamo che il turismo agevola i consumi delle produzioni locali di maggiore qualità che, come i beni culturali elemento fondamentale di attrazione di quei consumatori, sono accentrati nei paesi europei per oltre il 50%. Portare c0onsumatori di massa e di qualità a spendere i propri risparmi in Italia dovrebbe quindi essere una delle priorità dell’esecutivo, del legislativo e delle corporazioni più popolari.

L’altra strada per agevolare una diffusa partecipazione al nuovo mercato industriale globale di strutture industriali e sociali caratterizzate da scarsa disponibilità e attitudine alla mobilità, potrebbe emergere da un nuovo impegno (e rapido nella sua realizzazione e nei suoi effetti produttivi) in materia di formazione professionale e di riduzione dei costi burocratici dello stato. Infatti se si illustrasse con chiarezza divulgativa ai lavoratori statali e ai giovani in via di formazione la struttura dei costi della forza lavoro nei vari settori produttivi si riuscirebbe a indicare l’assoluto privilegio che la globalizzazione sta regalando a paesi come il nostro in cui l’istruzione è diffusa e a livelli superiori a quella dei paesi emergenti.

I costi e l’efficienza dei servizi erogati dallo stato potrebbero fare un salto di qualità solo che i sindacati accettassero di reinserire il ‘cottimo’ come regola base per la remunerazione dei nuovi assunti. Tutti i servizi di sportello e quelli ad essi immediatamente preposti nella catena burocratica, se informatizzati e snelliti nelle procedure, potrebbero decuplicare la loro redditività rispetto a oggi. I restanti ruoli amministrativi intermedi potrebbero essere remunerati con contratti a termine incentivati sui risultati conseguiti purché lo staff al vertice dei rapporti con l’esecutivo politico fosse remunerato in modo commisurato alle professioni private ma reso responsabile in analoga misura.

I sindacati e la scuola dovrebbero pretendere che i programmi di formazione delle nuove generazioni si aggiornassero in modo da ridurre le maestranze meno qualificate (che possono essere importate da o affidate a paesi a minore reddito) e aumentare le qualificazioni degli operai per rendere meno costosa l’introduzione dell’automazione in azienda.

Mentre il costo-orario di una maestranza non qualificata nei paesi emergenti risulta spesso minore di un decimo rispetto a quella italiana (rendendo così improbabile scelte di insediare nuovi impianti manifatturieri in Italia), occorre segnalare che il costo-orario di un ingegnere in Italia risulta almeno di un ventesimo rispetto al costo corrispettivo nei paesi emergenti. Ciò grazie all’esistenza del contesto terziario più moderno e diffuso nel nostro paese. Lottare quindi per conservare privilegi insostenibili per gli operai a Pomigliano è una scelta priva di sviluppi futuri mentre eliminare qualche insostenibile privilegio corporativo degli statali potrebbe risultare un fattore di promozione dello sviluppo del paese e un aumento di reddito per molti degli attuali dipendenti pubblici. Ivi inclusi i professionisti del giurisdizionale se eliminassero la fasce ‘operaie’ cui essi affidano spagnolescamente spesso mansioni che ogni professionista privato svolge ormai in proprio con risultati più efficienti e redditizi per il funzionamento del proprio comparto.

Stiamo assistendo invece a una ‘resistenza, resistenza, resistenza’ di tutte le corporazioni ottocentesche che con le loro lobby cercano cavilli da legulei per giustificare quegli irragionevoli privilegi pretendendo la ‘irrinunciabilità’ dei privilegi acquisiti (anche se non sostenibili economicamente se non aumentando il livello fiscale) oppure pretendendo l’’intangibilità’ della prima parte della costituzione (anche se essa non è mai stata efficace né chiara nei suoi principi astratti di ‘modello ideale’ ma non confacente con la realtà di oggi). Un’intangibilità tanto sterile (se insostenibile nella sua lettura più ideologicamente ‘avanzata’) quanto giuridicamente insostenibile, quindi pretestuosa (alla luce della stessa storia civile che vede costanti revisioni delle carte costituzionali – secondo modalità perfino descritte nelle stesse carte costituzionali).