19/02/2010

Niggers ed Etnie: “omini, ominicchi e quaquaraquà”

La recente celere progressione dell’internazionalizzazione industriale vede l’associato procedere della nuova governance globale. Un procedere che è inevitabilmente più lento sia per l’esigenza di riferire le negoziazioni politiche ad interessi che siano già saldamente consolidati sul mercato internazionale (e cui è quindi inevitabile si lasci il tempo perché si stabilizzino) che per dare attenzione preminente (e in modi e “pesi” selettivi) all’associata gerarchia di interessi-pilota che sono in corso di consolidamento nel nuovo contesto produttivo geopolitico che, infine, per le contemporanee “resistenze” opposte dai vecchi Stati Nazione e dagli obsolescenti interessi delle loro corporazioni ormai sempre più parassitarie alla luce del nuovo mercato unito.

Ciò colpisce tutti gli Stati coinvolti nella globalizzazione industriale, sia i protagonisti egemoni nell’attuale fase (USA e Cina), sia quelli più immediatamente coinvolti e già partecipi come gregari nel processo in corso (India, UK, Commonwealth), sia quelli meno disponibili ad accettare un ruolo gregario nel processo in corso proprio per la maggiore perdita di status e la presunta maggiore forza negoziale (essenzialmente l’UE), sia infine quelli privi di concrete alternative negoziali che non siano basate su ricatti economici o militari (Paesi produttori di “commodities” sui quali si giocano le azioni diplomatiche tra i protagonisti egemoni e quelli che ritengono di essere esclusi dalla fase in corso e cercano di costituire “fronti di resistenza” – tanto più sterili quanto meno competitivi siano gli sponsor).

Anche negli USA quindi si manifesta l’esigenza di ricercare una nuova strategia di azione in politica estera che riesca a svolgere un ruolo egemone nello scenario industriale globale agli occhi della maggioranza degli Stati coinvolti (per spuntare un ruolo-guida nell’ambito delle future istituzioni della governance globale e cioè la NATO e l’ONU di domani) e che riesca a raccogliere adeguata continuità di consenso politico interno agli USA (per garantire continuità nel corso dell’inevitabile lungo processo di transizione dalla stabilità del sistema industriale di ieri e quella del sistema emergente; già valido ma ancora in corso di consolidamento e di estensione).

Obama si trova a dover affrontare (sperabilmente con la mente aperta e priva di pregiudizi ideologici) sia i nuovi problemi di politica estera (credibilità ed egemonia ideologica globale), sia quelli, altrettanto nuovi e ben più critici per la sua sopravvivenza politica, che richiedono di formulare una proposta di azione che sia pienamente compatibile, sia col prevalente “comune sentire” dell’elettorato (conservatorismo trasversale), sia con gli interessi economici attuali che con quelli in divenire. Le proposte politiche non possono risultare tra loro incoerenti né gli sviluppi delle difficoltà economiche possono essere previsti con chiarezza (in quanto ancora in formazione). Obama quindi deve riuscire a definire un unico “paradigma” capace di legittimare le sue scelte di politica estera e nazionale consentendogli tutte le esigenze di flessibili variazioni decisionali associate alla turbolenza del cambiamento in corso.

Questo “paradigma” può essere raccolto da Obama sotto immaginifiche e suggestive esternazioni retoriche (in cui egli è eccellente) ma deve essere chiaramente identificabile anche dagli elettori americani meno colti e più settari ed egocentrici, inoltre deve risultare attraente anche all’estero per convincere tutti gli elettori degli altri Paesi che continuano anche nella “globalizzazione” gli USA come soggetto “diverso” e “unico”. La meta auspicabile cui ambire (come individui) emigrando oppure (come società sedentaria) pretendendo dai propri governi nazionali di assomigliargli emulandone il paradigma su cui fondare la nuova legittimità istituzionale. L’egemonia soprannazionale USA infatti è dettata dall’attrazione suggestiva esercitata dalla sua costituzione liberale e dall’individualismo della sua storia di “pionierismo continuo” più che non dal suo reddito, dal suo potere militare, dal benessere distribuito o dall’eccellenza dei suoi scienziati, artisti, politici e filosofi. Chi emigra negli USA non chiede di ricevere “food stamps” del welfare state che è invece tradizionale in Europa e nei Paesi in cui governi “top-down” provvedono ad una “equa” programmazione dei redditi, chiede invece di potersi liberare dall’oppressione delle corporazioni di stati illiberali e autoritari per “guadagnarsi” in santa pace il pane quotidiano in famiglia e nell’ambito di comunità responsabili e solidali o chiede di potersi liberare dalla noia senza sogni dei welfare state più efficienti per tornare a poter “sognare” di costruirsi una “felicità” la cui composizione, consistenza e sicurezza possa dipendere dalla propria dedizione quotidiana e dalla scelta del migliore ambiente fisico e sociale in cui gli sembri soggettivamente degno insediare la propria famiglia.

Alla luce di questa naturale “proiezione” positiva che il “paradigma” USA esercita storicamente su tutti i popoli del globo (dalla Svezia, all’India, al Pakistan, all’Africa Nera, alla Russia, alla Cina e all’UE) sembra difficile credere a Pistolini che Obama (non un quaquaraquà) voglia proporre ai suoi elettori USA e agli attuali diseredati nel mondo intero un “paradigma” incentrato sulla “programmazione del reddito” e sul “welfare state”. Quelli sono antistorici (e insostenibili) obiettivi “sessantottini” che ancora infatuano le “menti sottili” più parassite dell’economia USA (pennivendoli filo-marxisti e utopisti che cercano di alimentare quel “senso comune” tramite Hollywood e i Media demagogici). Gli elettori di “buon senso” sia democratici che repubblicani sono in maggioranza conservatori e reattivi a proposte come quelle spontanee e suggestive dei “tea parties” e dei predicatori non finanziati dai gruppi industriali (Limbaugh, Beck, Palin, Scott Brown, Huey Long, Charles Coughlin, Pat Robertson) né di destra né di sinistra ma “conservatori” dello “spirito del ‘76” che auspicava Libertà dallo Stato. Auspicando uno Stato minimo e non intrusivo che limiti la sua avidità fiscale e sia gestito da un Governo che, come affermò Jefferson, “è liberale se è esso a temere gli elettori mentre è autoritario se sono gli elettori a temerlo”.

Con queste premesse, con l’accelerazione della globalizzazione e con il lasso di tempo a sua disposizione, dubito che un Obama “non nigger” possa decidere di proporre alle mid-term e alla sua seconda elezione un “paradigma” che si ispiri alla fallimentare e disgustosa utopia corruttrice e parassitaria del “welfare state” all’europea. Il “socialismo” significa portare a tutti i consumatori indiscriminatamente l’accesso a un’offerta sempre più ampia di beni e servizi. Le “vie” verso la costruzione del “socialismo” percorrono legittime scelte nel contesto di due distinti e opposti paradigmi: il “welfare state” in cui è la fiscalità statale a definirne priorità e criteri con decisioni ideologiche e imposizione autoritaria “top down”; il libero mercato e la competizione tecnologico-organizzativa privata è quello “liberal-democratico” che sfrutta l’avidità degli imprenditori ad erogare beni e servizi a costi accessibili alla totalità dei consumatori concependo costanti soluzioni innovative che a costi minori assicurino qualità comparabili a ogni problema.

Il paradigma “buonista” e demagogico del “welfare state” ci ha costretto a percorrere patetiche o terrificanti esperienze secolari (tutte fallite o fallimentari e insostenibili per la corruzione, l’inefficienza e la scarsa capacità innovativa tecnologica e scientifica) in Europa. Riproporlo come soluzione su base globale suona patetico prima che anti-storico o economicamente insostenibile.

Obama lo rinnegherà, tutto può essere ma credo che ci si possa scommettere.