18/04/2008

Autodeterminazione: la via alla liberal-democrazia globale

 

Il riassestamento del sistema industriale su base globale avviene tanto con tanta più rapidità e più efficienza quanto più risulta libero da vincoli di strutture obsolete ottocentesche sia statali che private. L’inserimento efficiente e profittevole di tutte le nuove realtà che vengono coinvolte nel processo di internazionalizzazione industriale è tanto più agevole quanto più le comunità locali coinvolte sono libere di aggregarsi come entità di omogenei interessi economici. Indipendentemente dalla loro natura culturale e religiosa. È questo un motivo per cui gli Stati Nazione risultano oggigiorno di intralcio allo stabilirsi di interessi convergenti della globalizzazione e delle autonomie locali nel comune interesse di ottimizzare la redditività delle rispettive risorse in reciproca sinergia. Le migrazioni di massa sono deteriori sia per i centri decisionali soprannazionali sia per quelli più periferici locali. La perdita delle risorse umane più intraprendenti è un danno sia per che ne potrebbe beneficiare per il proprio sviluppo sia per chi cerca partner efficienti presso le comunità più remote. Le tecnologie disponibili oggi sia le più innovative sia quelle più ‘mature’ consentirebbero di personalizzare a misura delle aspettative di stabilità e di crescita economica di entrambe soluzioni tecnico-organizzative che potrebbero risultare le meno traumatiche per il comune sviluppo di nuove relazioni produttive. La base per radicare le nuove istituzioni private e statali di domani che siano pragmaticamente compatibili con i criteri del libero mercato, quindi della liberal-democrazia. I criteri liberal-democratici di libera adesione al nuovo ordine produttivo sono i più capaci di adattamento alle esigenze ed alle aspettative di entrambi quei centri decisionali radicati nel reciproco interesse privato. Il più solido e meno soggetto alle sollecitazioni delle ideologie demagogiche. In questa prospettiva dello sviluppo occorre essere tutti consapevoli che il criterio della autodeterminazione politica delle minoranze è pienamente confacente con le esigenze della globalizzazione industriale. Una volta costituita l’UE non si capiscono le resistenze opposte dagli Stati Nazionali all’autonomia dei Baschi, del Kosovari, dei Kurdi, degli Armeni o della Padania. Tantomeno si possono condividere i centralismi nella CSI rispetto a Bielorussi, a Ukraini, a Georgiani né quelli della Cina nei confronti del Tibet, di Taiwan o del Sinkiang (Turkmeni). Si tratta di resistenze tutte anti-storiche e reazionarie oltre che a costituire un artificioso e masochistico handicap istituzionale politico sulle capacità di crescita economica potenziale capace di gestire in modo autonomo le proprie fasi transitorie di cambiamento garantendo un equilibrio seppure instabile alla crescita (omeostasi).

La Scienza Politica, come quelle ‘esatte’: non ha carattere ‘prescrittivo

 

Credo sia opportuno a beneficio del concetto di Occidentale’ proporre qualche considerazione di carattere generale che la scienza illustra sul modo in cui cambia nel tempo qualsiasi sistema (anche quello sociale) che presenti un’organizzazione complessa. Considerazioni in tema di ‘scienze esatte’ che hanno diretta relazione coi temi trattati dalle scienze umane, tra cui è eminente quello della ‘filosofia’ liberal-democratica in cui si riepiloga la civiltà Occidentale che forma oggetto del nostro dibattito. Civiltà che si fonda su un sistema complesso di ‘istituzioni’ private e statali che deve risultare instabile in quanto capace di evolvere ma auto-regolantesi per evitare il rischio di transizioni traumatiche nel corso del cambiamento. Nelle scienze naturali esistono ormai adeguate conoscenze scientifiche a proposito del comportamento evolutivo dei sistemi complessi ed esistono anche associati strumenti matematici che consentono di descriverne le possibili evoluzioni. Ogni sistema organizzato in modo complesso costituisce un sistema che può essere osservato e studiato solo in quanto presenta un tipo di stabilità nel tempo. È ciò che ha permesso a Newton di descrivere la realtà naturale e a Leibnitz di formalizzare quella descrizione con uno strumento matematico che fece credere agli ‘scienziati’ agli albori del 1800 di poter ‘prevedere’ in modo ‘deterministico’ ogni fase dell’evoluzione della Natura pur di conoscerne certi dati iniziali. Se i sistemi osservabili anche quelli organizzati nei modi più complessi (come i corpi stellari) seguissero leggi deterministiche sarebbe possibile risalire a ‘fotografare’ ciò che avvenne all’inizio dei tempi e da lì, via via, a ricostruire la storia dell’evoluzione. Ciò rafforzò nella società la fiducia nelle capacità della mente umana (la ‘ragione’ dell’Illuminismo) di poter svelare ogni segreto della Natura e di poter giungere in ultima analisi a modificarne artificialmente quegli aspetti che risultino più ostili alle esigenze umane. Da lì crebbe una fede radicale nella scienza e nella tecnica che inizialmente si ripercosse sulla frattura tra scienze umane (tra cui filosofia morale e teologia) e scienze esatte (fisica, chimica e biologia) e sulle ‘istituzioni’ liberal-democratiche (tra cui le chiese e la massoneria) creando una incompatibilità nella loro ispirazione politica. In Francia la Rivoluzione Francese mutò l’emblema della ‘ragione’ (che sino ad allora rappresentava nella civiltà occidentale la separazione compatibile tra il campo di ciò che ‘è di Cesare’ dal campo di ciò che invece ‘è di Dio’) in quello della ‘Ragione’ (che sarebbe stata in grado di soppiantare quella separazione-integrazione tra i due campi cancellando ciò che è ancora ignoto e strumentalizzato dalla religione oppio dei popoli per ricondurlo gradualmente sotto il dominio della ‘Scienza’). Scienza divenne sinonimo di ‘esatta’ mentre le scienze umane vennero disposte lungo una scala di ‘credibilità’ in funzione della loro capacità di tradursi in ‘combinazione’ di scienze esatte. Le scienze mediche e quelle naturali presero indirizzi che cercavano di rinnegare in modo ‘a-prioristico’ ogni fattore che non fosse ‘materialmente osservabile’ e descrivibile in modo deterministico nei suoi sviluppi. La genetica, l’evoluzionismo, la microbiologia, la neurologia, la psichiatria, la psicologia con le loro teorie avviarono un’era di celere progresso nelle conoscenze che restò afflitta da quella frattura rispetto al carattere ‘umanistico’ dell’Illuminismo occidentale. Il materialismo prese il sopravvento su una visione della conoscenza in cui l’esistenza del ‘trascendente’ (Dio e le religioni) restasse praticabile negli studi accademici (teologia e morale) e nelle loro applicazioni pratiche (etica nella ricerca), almeno come ipotesi. Il Darwinismo venne eretto a dogma e tuttora è ‘proibito’ dibattere anche la possibilità che esista un ‘disegno intelligente’ che guidi l’evoluzione delle specie nel loro percorso. Ciò non ostante l’unica strada scientificamente ‘ortodossa’ attribuisca una ‘probabilità’ assolutamente infinitesima che l’evoluzione delle specie si sia svolta secondo una serie puramente ‘materialista’ di cause concatenate. Quella frattura tra Illuminismo scientista e Illuminismo umanistico si è travasata poi sulle nuove scienze dalla sociologia (darwinismo sociale) alla psichiatria (pavlovianismo e michurinismo) fino a quelle politiche e morali (relativismo e egualitarismo). Fino al momento in cui la critica fondamentale al ragionamento scientifico ha condotto ad ispirare una nuova epistemologia della scienza che ne ha spostato la tradizionale capacità delle ipotesi di saper prevedere in modo deterministico i cambiamenti sostituendola invece con la criticabilità delle ipotesi esposte. Karl Popper ha consolidato questa svolta in filosofia dopo che si erano venute accumulando una notevole messe di scoperte scientifiche che avevano messo in crisi la visione ottocentesca del determinismo. La struttura ‘curva’ e non euclidea dello spazio-tempo era stata accertata da Maxwell e Einstein, la indeterminazione delle misure in fisica era stata accertata come elemento fondamentale della fisica dei quanti da Bohr e Heisenberg, la ‘quasi stabilità’ dei sistemi complessi esistenti in Natura era stata consolidata da Ilya Prigogine che ne aveva anche ipotizzato lo stato di costante caoticità (e quindi non-misurabilità) tranne che per brevi periodi di quasi stabilità ‘locali’ nel cui ambito valgono le ‘leggi’ che la ragione umana riesce a rilevare per ricavare una pseudo-comprensione di quel parziale equilibrio. La logica matematica con Gödel aveva inoltre chiarito che nessun sistema logico ha la possibilità di risultare completo e coerente in assoluto. Infine la ricerca fondamentale sulla struttura della materia ha dissolto molte certezze ottocentesche sulla consistenza della realtà naturale rilevando come, dall’unico campo energetico primordiale in cui siamo immersi, prendano ‘forma’ le più diverse manifestazioni che cadono sotto le nostre limitate capacità di osservazione (ivi incluso la stessa ‘massa’ della materia, grazie al principio di Einstein E=mc2 che stabilisce equivalenza tra ‘energia’ e ‘massa’). È grazie alla teoria matematica di un giovane danese Per Bak che la teoria dei sistemi quasi stabili di Ilya Prigogine è stata recentemente illustrata ad un livello che ne permette la comprensione qualitativa e concettuale anche su un piano divulgativo. Questa teoria dei sistemi termodinamici quasi stabili dice che ogni sistema complesso in Natura esiste in un divenire caotico e che solamente fasi di quasi stabilità ‘locali’ ne permettono studio e descrizione dell’evoluzione. Ciò cancella ogni possibilità di descrivere i sistemi complessi con modelli di tipo ‘deterministico’ (o ‘prescrittivi’ delle fasi evolutive) ma non impedisce di studiare i caratteri che ne descrivono le dinamiche. L’esempio che Per Bak prese come illustrazione delle dinamiche evolutive di un sistema termodinamico caotico in successione di fasi quasi stabili è quella delle dune di sabbia. Le dune si spostano continuamente e continuamente cambiano di forma esposte come sono alle variabili situazioni meteorologiche nel deserto. Esse tuttavia conservano una quasi stabilità sia come ubicazione che come forma macroscopica. È come il fiume di Parmenide, sempre lo stesso globalmente ma mai il medesimo nelle onde e flussi ‘locali’. Se lasciamo cadere dall’alto una sequenza continua di granelli di sabbia su un cumulo, possiamo osservare che il cumulo, raggiunge periodicamente stati di instabilità nei quali avvengono improvvise ‘slavine’ che trascinano a valle placche di sabbia che formano aree di granelli accomunate dalla stessa evoluzione. A conclusione delle ‘slavine’ il cumulo si trova a godere di un nuovo periodo di quasi stabilità durante il quale riesce ad accumulare nuovi apporti di granelli con cui la sua forma complessiva conserva la vecchia e tradizionale ‘forma’. I cambiamenti repentini di forma (catastrofi in senso etimologico e topologico) che hanno avuto luogo concorrono a conservare al cumulo la forma complessiva che resta una delle sue caratteristiche ‘costanti’. La teoria di Per Bak riesce a descrivere il susseguirsi di queste fasi di caos locale e di accumulo quasi stabile fornendone le probabilità di accadimento ma rinunciando a darne una previsione ‘prescrittiva’ del tempo e luoghi in cui i fenomeni si manifesteranno. Ebbene anche i sistemi complessi in cui opera l’uomo presentano le medesime caratteristiche di ‘quasi stabilità’ locale e di costante tendenza a cambiamenti repentini di assetto e di forma complessiva dietro le sollecitazioni interne che promuovono una loro intrinseca caoticità. Le placche che tengono coese le slavine durante le fasi di cambiamento sono le comunità locali che, durante la ‘catastrofe’ locale, sono rese solidali grazie ai fattori economici e culturali della solidarietà. La ‘forma’ complessiva del sistema conserva una individualità peculiare attraverso ogni ‘catastrofe’. Le cadenze e consistenze secondo cui si manifestano le inevitabili ‘catastrofi’ locali sono funzione delle caratteristiche di coesione delle ‘placche’ interne e di loro autonomia nel ricercare nuovi assetti più compatibili con i vincoli esistenti nei confronti delle altre ‘placche’ interne e con gli stimoli che vengono esercitati su esse dall’esterno. È per questo che i sistemi liberal-democratici risultano i più capaci di adattarsi alle nuove esigenze ambientali sfruttando ogni possibile flessibilità presente nelle loro ‘minoranze’ di diverso potenziale di resilienza, mentre quelli illiberali, per la rigidità loro imposta dai vincoli tra le ‘minoranze’ interne manifestano più lunghi periodi di apparente stabilità per subire periodicamente vere e proprie ‘catastrofi’ traumatiche e massicce che conducono alla loro cancellazione definitiva. È forse utile menzionare qui che i cambiamenti di forma furono descritti sul piano teorico e su quello matematico a partire dalla fine del 1800 da studiosi di scienze biologiche (D’Arcy-Thomson) e negli anni 1960 da matematici come Renè Thom (teoria delle catastrofi) e poi da Per Bak. Gestire i cambiamenti sociali dall’alto è tanto ambizioso quanto arrogantemente impossibile mentre sembra sia più compatibile con le conoscenze ‘scientifiche’ sui sistemi complessi in Natura il lasciare la massima responsabilità di adattamento alle più piccole minoranze locali (laisser faire) sia come loro reazioni alle novità economiche, sia come consequenziali mutamenti delle istituzioni di comune interesse (azienda, servizi, comune, stato). Anzi si può forse affermare che il concetto di liberal-democrazia si è venuto ad arricchire di contenuti di ‘libertà’ proprio grazie alle più recenti nozioni scientifiche in termodinamica dei sistemi. Dall’originario ed elitario concetto del ‘laisser faire’ che si poggiava su una concessione di libertà dall’alto dei governanti (top-down) si è gradualmente giunti ad apprezzare la libertà come uno degli elementi che caratterizza lo stato-adulto di ogni singolo e comunità spontaneamente aggregata. Il ‘laisser faire’ è divenuto un ‘donnez nous la paix’ (lasciateci stare) che chiede che ogni autonomia sia pagata esclusivamente da chi se ne sente ‘responsabile’ senza dover niente a nessuno. Ciò significa che ogni ‘benevolo sostegno’ a nuovi soggetti dotati di pari libertà-responsabilità si ritenga ‘incompatibile’ con lo spirito ‘filosofico’ della liberal-democrazia. Esso può infatti nascondere modi per creare forme di permanente dipendenza che vincolano la libera assunzione di responsabilità e quindi di vera ‘libertà’. Tutte le considerazioni esposte si applicano sia nelle scienze manageriali (in cui la ‘sicurezza del posto di lavoro’ nasconde una perdita vera e propria della libera negoziazione delle proprie prestazioni a fronte del costante e responsabile miglioramento delle proprie abilità), sia in quelle politiche (in cui il riconoscimento delle autonomie alle minoranze si accompagna con l’offerta di privilegi economici a spese delle restanti minoranze). Pochi ‘liberi professionisti’ baratterebbero la propria autonomia col vincolo di riservare le proprie prestazioni esclusiva a un unico cliente per non rischiare la graduale perdita di competitività sul mercato. Poche delle attuali minoranze privilegiate dalla ‘concessione’ di autonomia rinuncerebbe ai trasferimenti di reddito dallo stato centrale, così come poche minoranze oggi sarebbero disposte a richiedere il riconoscimento della propria ‘indipendenza’ se questa implicasse anche la rinuncia a fruire dei servizi e trasferimenti di reddito dall’attuale stato da cui dipendono.