17/03/2010

Legittimità ‘Occidentale’ di Israele

La “pace in terra-santa” è diventato un tormentone che data da almeno tre generazioni senza vedere alcuna apertura per miglioramenti nelle relazioni tra Israele e i suoi vicini geografici.

Questo dovrebbe essere un chiaro segno del fatto che il problema non possa avere soluzioni condivise tra i Paesi dell’area medio-orientale nel contesto geopolitico globale alla luce dell’ottica percettiva in cui esso è stato fino ad oggi presentato.

Si tratta di una negoziazione di relazioni tra Paesi che si ispirano a criteri della legittimità disomogenei tra loro e perfino (sappiamo ma ce lo nascondiamo per ragioni “politically correct”) “incompatibili” in quanto radici stesse della conflittualità tra la trionfante civiltà ‘Occidentale’ e chi se ne sente travolto senza risorse per riuscire ad opporsi all’avvento e teme di smarrire le proprie tradizioni e usi “locali”; in modo forse non giustificato - ma è la “percezione” a dettare legge nel corso delle negoziazioni politiche – ed esagerato dagli interessi demagogici del fondamentalismo ed integralismo religioso.

Questa considerazione chiarisce in modo semplice per quale motivo il problema dalla pace in terra-santa sia un problema ‘Occidentale’ prima che di Israele. E chiarisce anche le ragioni per cui le relazioni globali e la possibilità di concordare la nuova governance globale rischino di restare in stallo per lungo tempo a meno di escludere il mondo musulmano dalla condivisione dei criteri di base di quella governance che altri non possono essere che quelli della civiltà ‘Occidentale’ che tramite il capitalismo-liberista è riuscita a maturare con inarrestabile gradualità i diritti politici della liberal-democrazia e ad esportarli su base globale contro le resistenze opposte dalle corporazioni dei vecchi Stati Nazione nel loro tentativo di conservare i propri vecchi privilegi a spese dei Paesi più popolosi e caratterizzati da redditi da diseredati fino all’attuale avvento della trionfante globalizzazione.

Questa ripresentazione della questione della pace in terra-santa mentre chiarisce le ragioni per cui è interesse vitale per l’Occidente’ prendere direttamente parte alle negoziazioni, non chiarisce assolutamente la sterilità dell’impegno ormai cinquantennale degli USA a sostegno di una soluzione condivisa per raggiungere quella pace. Ciò che è evidente è lo schieramento costante degli USA in qualità di alleato militare e politico al fianco di Israele durante le crisi più drammatiche per la sopravvivenza di Israele. Quest’affiancamento USA-Israele non è stato utile perché gli USA potessero assumere una posizione “terza” tra le parti negozianti. Ciò è stato inevitabile durante la guerra fredda per le inevitabili interferenze dettate da interessi del contesto geopolitico obsolescente degli equilibri tra Stati Nazione ‘Occidentali’ alimentato da divisioni ideologiche e dagli interessi coloniali, dei gruppi petroliferi e minerari. L’accordo tra Israele e i Paesi confinanti in medio-oriente è stato ostacolato per lo sfruttamento della divisione politica esistente a beneficio di equilibri che non avevano a che fare con i concreti interessi degli Stati di quella regione al cui sostegno intervenivano i protagonisti primari dei vecchi equilibri geopolitici di quell’epoca. Francia e Regno Unito persero l’egemonia politica in quell’area contro gli interessi di URSS e USA. Israele fu sostenuta dall’URSS quando Paesi dell’area erano ancora alleati dell’”occidente capitalista” e fu il periodo dei kibbutz. Israele crebbe industrialmente e la cultura dei kibbutz fu sostituita in misura crescente dagli interessi industriali più avanzati mentre gradualmente l’egemonia dei vecchi Stati Nazione coloniali (europei) giustificò la sostituzione dei vecchi regimi filo-occidentali con regimi legittimati da ispirazioni più autoctone (quelle religiose erano le più solide e condivise in tutta l’area medio-orientale). La lenta trasformazione dell’area medio-orientale ha condotto a ricercare l’autonomia da tutte le interferenze esterne che si è ancorata alla religione ed ha premiato l’affermarsi di un’ideologia politica legata al rispetto dell’Islam (non ostante i tradizionali conflitti storici tra Paesi musulmani e non ostante i conflitti interni all’Islam sul piano dell’ortodossia religiosa – sunniti, sciiti, sette interne al mondo sunnita). Ciò ha radicalizzato i criteri della legittimità a gestire il potere secolare in tutta l’area medio-orientale. Dall’esistente separazione tra Stato e moschea che aveva condotto alla secolarizzazione dei “movimenti di liberazione” con il sostegno dell’ateismo marxista e della tolleranza multi-confessionale delle liberal-democrazie (che aveva consolidato il regime di Ataturk in Turchia e i regimi autoritari in Algeria, Tunisia, Marocco, Egitto, Persia, Iraq), si passò gradualmente a regimi teocratici (Iran di Khomeini e Ahmadinejad, Iraq e Afghanistan dei talebani, “fratelli musulmani” contro Sadat e Mubarak in Egitto). Questa fase di evoluzione degli equilibri geo-politici nell’area ha condotto alla sterilità delle negoziazioni affidate all’autonoma iniziativa dei Paesi di quell’area. Israele era chiaramente schierata con gli interessi ‘Occidentali’ la cui indifferenza nei confronti dei principi religiosi era rifiutata dai regimi più integralisti dei Paesi musulmani.

Finita l’epoca degli Stati Nazione sono restate tuttavia quelle chiare percezioni di “schieramento” ideologico tra USA e Israele mentre è diminuita la capacità dei regimi più secolari dei Paesi musulmani di imporre nella negoziazione i criteri degli interessi economici, sociali e dello sviluppo industriale rispetto a quelli religiosi più integralisti che rifiutano le crescenti “libertà individuali” che, trascinate dal crescente aumento dei redditi “corrompono” i comportamenti della società civile. Come è avvenuto per secoli nel mondo ‘Occidentale’, ne discende il tendenziale “rifiuto” del progresso industriale. E di conseguenza la demonizzazione del progresso industriale e delle libertà civili ad esso connesse.

Oggi finalmente, alla luce della irreversibile globalizzazione industriale, gli USA cercano di agire nell’area del medio-oriente mostrando una “terzietà” rispetto a Israele e ai Paesi musulmani per riuscire a raggiungere la pace “regionale” che risulti compatibile con i criteri della legittimità politica nel contesto più vasto del nuovo ordine globale. Ciò impone accordi che siano condivisi non solo da israeliani e musulmani ma anche dagli USA a nome e per conto della governance globale ancora in fieri.

L’urgenza imposta dalla velocità con cui si sta consolidando la globalizzazione non agevola il superamento della vecchia percezione di unilateralità dei comportamenti USA nei confronti di Israele. La perdurante debolezza dei regimi secolari al potere nei paesi musulmani (Iran, Iraq, Afghanistan, Turchia, Egitto, Siria, Libano) esclude criteri compatibili con gli interessi dello sviluppo industriale dalle negoziazioni che i regimi musulmani sono legittimati ad accettare. Ogni acquiescenza dei negoziatori musulmani a criteri non dettati dalla dottrina religiosa viene stigmatizzata come satanica. Etichetta formalmente attribuita infatti a tutto il mondo ‘Occidentale’.

Questa situazione “culturale” rende totalmente sterile ogni iniziativa di accordo tra gli interlocutori del medio-oriente e rende improbabile che gli USA possano assumere una credibile posizione super partes agli occhi dei Paesi musulmani dell’area. È quindi inutile che (chiunque sia al governo a Washington) si impegni ad accelerare i tempi di un accordo che è inevitabile diverrà realtà grazie al consolidamento dello sviluppo della globalizzazione e del diffondersi del suo benessere anche nei Paesi più integralisti.

Inoltre un secondo tema che tuttavia è venuto ammorbidendosi con il termine dell’epoca degli Stati Nazione ha impedito e continua ad impedire che i Paesi medio-orientali possano raggiungere un accordo di pacifica convivenza in quell’area. Infatti Israele trova “giustificazione” in due elementi che non sono accettati dai Paesi musulmani. Il primo criterio di legittimità per lo Stato di Israele discende da una lettura della bibbia come storia di Israele più che non come storia della “rivelazione divina” a Israele dapprima e poi a tutte le “genti” del mondo indipendentemente dalla appartenenza fisica alla stirpe di Israele. Questa lettura religiosa di Israele come “entità storica” è stata trasferita in termini di diritto internazionale con un atto unilaterale di un governo ‘Occidentale’ solo di recente e dietro pressione di un movimento integralista (il Sionismo). Dopo quell’atto unilaterale lo Stato di Israele ha perso ogni atteggiamento integralista e il regime che lo governa è pienamente liberal-democratico, multi-culturale e multi confessionale. Tuttavia la legittimità del nuovo Stato di Israele resta connessa a diritti derivanti agli ebrei dalla loro lunga diaspora durante la quale la sua unità è stata conservata dalla fedeltà del “resto di Israele” alla comune lettura “conservatrice” della Bibbia. Dopo le persecuzioni sofferte dagli ebrei nella diaspora si è legittimato il diritto degli israeliti ad una Patria. Tale patria non poteva escludere i luoghi dai quali la diaspora era iniziata; la terra-santa (da Ur dei Caldei in Mesopotamia, al deserto del Sinai, dal Mediterraneo alla Cisgiordania). Tuttavia queste ragioni storiche non sono universalmente accettate ma solo emotivamente rispettate da chi “parteggia” per terminare la diaspora e inoltre si collocano nel quadro della legittimità dell’epoca ormai terminata degli Stati Nazione. Ogni etnia ha diritto a una propria patria per omogeneità di lingua (l’ebraico infatti è stato ripristinato come lingua ufficiale), di religione (Israele come Stato degli ebrei), di “razza” (tra le popolazioni semite gli ebrei restano uniti per la loro discendenza diretta e ininterrotta da Abramo, Isacco, etc. – sotto questo profilo essi sono le aristocrazie di sangue più datate e comprovate esistenti al mondo). Ebbene il diritto ad uno Stato Nazione in piena epoca di globalizzazione perde parte della sua legittimazione mentre l’accettare un diritto all’auto-determinazione di una comunità nell’ambito di una regione medio-oriente sarebbe più accettabile alla luce della globalizzazione e della relativa, emergente governance. Se si tiene conto che le guerre per sopravvivere che ha sostenuto Israele negli ultimi cinquant’anni legittimano la sua espansione territoriale a spese dei Paesi aggressori ma sempre in un’ottica di diritto internazionale ormai in disarmo (vedi il mancato diritto delle città italiane dell’Istria, della Dalmazia e delle isole dell’Egeo a poter optare per l’Italia nel secondo dopo-guerra) emerge chiaro che il criterio della legittimità a conservare le sue conquiste sul campo di battaglia venga negato dai Paesi musulmani che non hanno accettato il diritto “biblico” di Israele come Stato Nazione di ebrei.

Che fare allora per raggiungere una governance globale universalmente condivisa in tempi compatibili con le esigenze dello sviluppo industriale?

L’urgenza suggerisce di scavalcare l’impasse culturale esistente nelle relazioni tra i Paesi che rifiutano una negoziazione sulla base di criteri e principi condivisi e compatibili con le esigenze dello sviluppo economico globale.

Le dimensioni della diffusione nel mondo della cultura musulmana suggeriscono di non escludere dalla fase della negoziazione della governance tutti i Paesi caratterizzati da quella cultura e fede islamica.

Per ottemperare a queste due esigenze di coinvolgimento di tutte le culture confessionali in un processo di negoziazione celere e universalmente accettato, non resta che negoziare le regole della governance globale con Paesi musulmani estranei alle specifiche sensibilità integraliste del medio-oriente.

Il Pakistan, l’Afghanistan, l’Iran e la Turchia sembra siano i Paesi più appropriati per assumere un ruolo di leadership in questo processo. Successivamente all’avvio degli accordi potrebbero più agevolmente associarsi anche Paesi del Mediterraneo e del medio-oriente che esiterebbero invece a svolgere un immediato ruolo di protagonisti; Paesi quali il Marocco, l’Egitto,, la Tunisia, l’Algeria, la Giordania e anche la Siria e il Libano.

Ciò che ostacola una tale strategia di scavalcamento della situazione di stallo mediorientale è l’attuale regime integralista dell’Iran più che non la situazione interna ancora instabile in Iraq, in Afghanistan e in Pakistan. È per questo motivo che un “regime change” in Iran potrebbe essere l’assoluta priorità per un celere consolidamento del nuovo ordine globale.

Ogni altro impegno concentrato sulla riduzione del peso delle frange più integraliste sia in Israele che tra i Palestinesi non potrebbe risultare utile per accelerare il processo della governance globale.

Infatti gli israeliani hanno ogni diritto a costruire nuovi insediamenti nelle terre da loro occupate con guerre vinte e non da loro innescate mentre i palestinesi hanno ogni diritto a rivendicare le stesse terre “occupate” da Israele e legittimate da atti internazionali unilaterali che hanno concesso il diritto ad uno Stato di Ebrei in una epoca che necessita di nuove regole di governance politica globale proprio in quanto ha concluso l’epoca degli Stati Nazione. Ciò alla luce delle due percezioni del concetto di legittimità che nutrono i due sovrani interlocutori della negoziazione “regionale”.una opposta visione del criterio di legittimità che condurrebbe l’’Occidente’ a prendere le parti di Israele qualora la negoziazione, fallendo, esplodesse in conflitto armato.