16/12/2010 |
Permanente ritardo culturale delle relazioni industriali in Italia Esistono assonanze tra l’attuale svolta di diritto del lavoro proposta da Marchionne ai sindacati in Italia e negli USA e i principi ispiratori del diritto del lavoro presenti nella ‘Carta di Verona’ della R.S.I. del 1945. Sembra interessante collegare la stagnazione dell’economia in Italia al fallimentare ruolo svolto dallo stato unitario. In precedenza gli stati provinciali avevano prodotto ruoli politici coerenti con la crescita del PIL in ambiti troppo autarchici per stimolare lo sviluppo dei settori di industria più innovativi in competizione sul mercato italiano o estero. Le comunicazioni interne erano limitate alla rete delle strade consolari romane e quelle internazionali erano ristrette agli scambi mercantili di Venezia finché non perse la sua autonomia per subire un nuovo ruolo che né Napoleone, né l’Austro-Ungarico riuscirono ma ad attribuirle per i limiti che la geo-politica consentì alle due economie di possibile riferimento - Francia e Impero Asburgico – proprio nel periodo in cui lo sviluppo tecnologico e scientifico pose al servizio della crescita industriale le sue maggiori innovazioni; motori a vapore, a scoppio, gas, elettricità, telefonia, chimica, farmaceutica, metallurgia, etc.. Un’esplosione di potenziali interessi economici che avrebbe richiesto l’abbattimento dei confini fisici e legali che ne limitavano il consolidamento sul mercato soprannazionale. Come è sempre avvenuto nel corso della storia della civiltà ‘Occidentale’ le pressioni interne esercitate dai nuovi produttori potenziali si tradussero in istanze politiche a sostegno di una legislazione più propizia alla crescita industriale. L’epoca di Vilfredo Pareto avrebbe avuto a disposizione un legislativo la cui sovranità geo-politica era idonea a cogliere l’opportunità per immettersi nella competitività soprannazionale. Come è sempre accaduto in Italia invece sugli interessi ‘progressisti’ dei nuovi produttori industriali di allora (dare attenzione prioritaria alla ‘produzione di ricchezza’) prevalsero gli interessi parassitari delle vecchie oligarchie politiche incentrate sull’economia rurale pre-industriale. L’industrializzazione non riuscì quindi a ricevere l’attenzione legislativa adeguata alle esigenze finanziarie, fiscali ed amministrative che ne avrebbero stimolato il consolidamento. Tranne forse nel Lombardo-Veneto in cui la cultura amministrativa e bancaria riuscì a conservare una autonomia operativa adeguata a costruire quell’area competitiva che oggi chiamiamo ‘Padania’ che solo lentamente ha ‘inquinato’ marginalmente di modernità le aree adiacenti – Emilia, Liguria e, ma in modo paleo-industriale, il Piemonte aristocratico e latifondista (dai Martini, ai Gancia, agli Agnelli, etc.). Proprio l’egemonia politica esercitata dalle oligarchie paleo-industriali piemontesi si sono tradotte in un ulteriore fattore di ‘resistenza, resistenza, resistenza’ al progressismo potenziale dei nuovi produttori industriali; il sindacalismo nacque ispirandosi a due dottrine sociali all’epoca già mature e entrambe privilegianti la ‘redistribuzione’ del reddito rispetto alla sua ‘produzione’ su basi più gratificanti gli interessi più moderni del paese. Il ‘socialismo’ nacque rivendicando la ‘redistribuzione’ del vecchio reddito pre- o paleo-industriale. Quella sua, pur legittima, priorità stabilì l’ispirazione delle rivendicazioni ‘politiche’ attorno ai gestori del vecchio reddito industriale emarginando le istanze ancora frustrate nutrite dall’industria più ‘progressista’. Il ‘socialismo’ checché esso significhi, stabilì un’illogica gerarchia nelle priorità legislative; ‘redistribuzione’ che precede la ‘produzione’. Un’illogicità che ha sempre condannato all’insuccesso politico le ‘sinistre’, che le ha rese ‘reazionarie’ rispetto al potenziale d’innovazione industriale e che ha ispirato la conflittualità politica in veste extra-parlamentare nei processi negoziali coi ‘produttori’ egemoni (anche in parlamento) nelle varie decadi. Inoltre, per istituzionalizzare i risultati delle negoziazioni stesse, si è consolidata una legislazione del lavoro e industriale che si è ispirata ad un ‘progressismo’ incompatibile con il paradigma che governa l’economia industriale soprannazionale. Per legittimare la minore competitività del sistema italiano industria-stato si è consolidata in Italia l’utopia demagogica delle ‘terze vie’ al progresso civile. Dalla proposta ‘fascista’ dello stato corporativo come ‘terza parte’ garante degli accordi assunti nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni dai datori di lavoro e dalle maestranze di ogni grado professionale, fino al ‘consociativismo’ tra i due partiti anti-capitalisti che hanno cooptato lo stesso spirito nelle istituzioni formali dell’Italia repubblicana (il CNEL, l’IRI con il sistema bancario gestito dallo stato e lo ‘statuto dei lavoratori’ ne sono esempi emblematici di eterna arretratezza). Il consociativismo è stato infatti sostenuto dai due partiti anti-storici perché ispirati politicamente dalle finalità della dottrina sociale di parte; la marxista (conflittualità militante) e la cristiana (pauperismo paternalista). Inoltre l’originaria proposta ‘fascista’ dello stato-garante non venne rispettata per ragioni di opportunismo politico e venne rivitalizzata solo come bandiera di orgoglioso ‘progressismo sociale’ dalla Repubblica Sociale Italiana. Non per nulla oggigiorno è la Fiat a riproporre alle maestranze forme di ‘socializzazione’, sia in Italia con il conseguente annullamento dello ‘statuto dei lavoratori’ e con la conclusione del consociativismo (che è stato attuato nella ‘prima repubblica’ per assorbire la conflittualità sindacale col sostegno industriale deciso in parlamento dai catto-comunisti a spese dei contribuenti), sia negli USA. Non per nulla infatti negli USA la stessa proposta ‘fascista repubblichina’ trova attenti sostenitori negli Stati più ‘de sinistra’ in cui il voto di scambio del sindacato a sostegno elettorale convince Obama a erogare, a spese dei contribuenti, analoghi sostegni a quei privilegi sindacali assumendo un ruolo neo-fascista ‘repubblichino’; a fronte della responsabile scelta dei fondi pensione sindacali di partecipare alla proprietà del capitale aziendale assumendone i rischi di crescita o riduzione del reddito annuale. Per pura informazione, la rubrica pubblica nel seguito la ‘Carta di Verona’ che è stata sempre ‘soppressa’ dalla libera stampa democratica anti-fascista, sottolineando comunque che i contenuti di quella ‘carta’, a suo parere, mentre erano assolutamente ‘avanzati’ e ‘progressisti’ per l’Italia del 1940 (e certamente fertili per lo sviluppo successivo sia economico che sociale e politico rispetto alla sterile cooptazione ‘illiberale’ che è stata la ‘carta costituzionale’ nata dalla resistenza anti-fascista), non sarebbero comunque più in grado di rilanciare la competitività industriale del sistema industria-stato come ‘costituzione’ in un contesto geo-politico più ampio e competitivo come quello della globalizzazione industriale. Il potenziale di crescita del reddito globale portato da quel fenomeno ormai egemone su base globale è tale da sopraffare qualsiasi ottica di Stato Sociale che non è più sostenibile nel ristretto ambito degli Stati Nazione oggi. L’Italia post-bellica avrebbe ancora potuto tutelare una ‘carta del lavoro’ che si ispirasse alla Carta di Verona per ridurre la conflittualità militante entro un processo istituzionale di accordi produttivi decisi in piena ‘responsabilità’ tra le due parti e solo garantiti nella loro applicazione dallo Stato ‘terzo’ (le ragioni ideologiche dei ‘fascismi’ furono proprio quelle d’una ‘terza via’ per il superamento sia di ‘capitalismo’ che di ‘marxismo’) che rifiuta di entrare in gioco se non come ‘garante’ dotato di grandi poteri strategici ma di ridotti ruoli d’interferenza per quanto concerne la gestione delle produzioni industriali. Questa fu la ‘svolta’ che tentò Rauti nel 1990 e questa è la ispirazione politica della corrente ‘destra sociale’ di Misserville (sottosegretario nel 1999, governo D’Alema), di Alemanno, di Storace e di Bongiorno. Anche oggi in Italia risulta evidente quanto sia attrattiva la ‘socializzazione repubblichina’ per ispirare la politica economica più anti-storica e illiberale e quanto essa sia avversata dalla politica marxista ispirata da criteri del sindacalismo vetero-industriale ottocentesco del ‘socialismo scientifico’ ormai fallito nel 1989. Quelle due politiche sono sostenute dai sindacati cristiani che cercano di ‘conservare’ la ‘terza via’ dello stato sociale per quanto possibile e il loro ruolo di protagonisti politici, oppure dal più radicale sindacato marxista che rifiuta di ammettere la sconfitta del suo paradigma ideologico di egemonia culturale sulla società civile; mentre la globalizzazione procede senza una partecipazione moderna e competitiva del sistema industria-stato italiano e col solo beneficio ‘conservatore’ e illiberale dei grandi gruppi industriali italiani finanziati dai contributi statali a spese dei contribuenti. La ‘crisi’ di transizione fortunatamente sta riducendo i margini di finanziamento residui di quel sistema industriale ‘para-fascista’, paternalista e parassitario in quanto privo di autonoma competitività sul mercato globale. I diciotto Punti di Verona Il manifesto di Verona, elaborato durante il Congresso del P.F.R del 14 Novembre 1943, rappresenta la summa ideologica del Fascismo che, abbandonati i fasti e gli aspetti reazionari, torna alle origini, ai postulati di Piazza San Sepolcro. Ne riproduciamo integralmente il testo, sia per il valore storico di questo documento ignorato da quasi tutti i libri di storia, sia per far apprezzare alcuni aspetti più puramente legati alla situazione bellica del momento. Premessa “Il primo rapporto nazionale del partito fascista repubblicano leva il pensiero ai caduti del fascismo repubblicano, sui fronti di guerra, nelle piazze delle città e dei borghi, nelle foibe dell’Istria e della Dalmazia, che si aggiungono alle schiere dei martiri della rivoluzione, alle falangi di tutti i morti per l’Italia; addita nella continuazione della guerra a fianco della Germania e del Giappone fino alla vittoria finale e nella rapida ricostruzione delle Forze Armate destinate a operare accanto ai valorosi soldati del Führer, le mete che sovrastano qualunque altra d’importanza e d’urgenza; prende atto dei decreti istitutivi dei Tribunali straordinari nei quali gli uomini del partito porteranno intransigente volontà ed esemplare giustizia, e ispirandosi alle fonti e alle realizzazioni mussoliniane, enuncia le seguenti direttive programmatiche per l’azione del partito” Il Manifesto di Verona
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