16/02/2010

Unione Europea: unione politica o economica?

L’Unione Europea resta un’utopia grazie alla scarsa mobilità interna ed alle elevate disomogeneità di cultura e di solidità economica che caratterizza gli Stati coinvolti. Ciò per non trovare altre ragioni nelle reciproche ostilità che le vicende storiche hanno stratificato nei pregiudizi e sospetti nazionali. Inoltre questa insanabile disomogeneità sociale, culturale e industriale è esaltata dalle ancora più deteriori disomogeneità che frenano il consolidamento accelerato del sistema produttivo industriale. Le differenze: linguistiche, amministrative, fiscali, giurisdizionali. In sintesi l’infrastruttura dei servizi che normalmente sono erogati dalle istituzioni di stato. Ad esse si affiancano le inevitabili e prevedibili resistenze al cambiamento che vengono opposte dalle corporazioni che godono dei privilegi associati alle vecchie istituzioni.

Come si è potuto verificare nel corso della storia, l’unione economica è possibile, anche se richiede sia tempi lunghi che una originaria complementarietà tra i sistemi industriali convergenti, sia una loro disomogeneità ridotta in termini di prodotti nazionali lordi, di popolazioni e di culture industriali. In quei casi positivi ma lenti, di dubbia efficienza e di faticosa omogeneizzazione (CECA, Euratom, CEE), non è neanche servita una moneta unica per implementare un progetto che era di riconosciuto interesse generale per gli aderenti e che, ma solo marginalmente, aveva la nobile legittimità di porre un termine alle guerre intestine che avevano dissanguato l’Europa tra 1789 e 1945. Le resistenze politico-istituzionali non ebbero ragione di emergere in quei casi di studio e ciò contribuì al successo. Anzi le aperture burocratiche nelle istituzioni europee ebbero il merito di compensare le ambizioni dei quadri statali. Appesantendo l’efficienza del sistema d’assieme che non era tuttavia ancora confrontato dalla competizione globalizzata di oggi.

Aspirare oggi a istituire un’Unione Politica su un insieme di Stati di gran lunga meno omogenei di quelli che decisero la CEE sembra alla pura luce del buon senso una utopia che rasenta l’idiozia. Questa utopica unione di etnie reciprocamente ostili dovrebbe vivere la perdita delle sovranità nazionali e vivere l’egemonia politica di etnie storicamente (fino a tutto il 1945) ostili, indifferenti o speculatrici sugli interessi dei Paesi più piccoli, poveri o di recente costituzione. L’imposizione della moneta unica è stato forse il passo più utile per accelerare il consolidamento di un sistema produttivo industriale senza dover accelerare la devoluzione di altre competenze nazionali se non quella dell’emissione di moneta. Si tratta di un uso ironico del termine riduttivo “se non quella”. Il Regno Unito infatti s’è ben guardato dall’accettare l’ingresso nella tagliola Euro.

Quel passo preliminare di intelligente accelerazione dell’Unione Monetaria rispetto alla molto più onerosa Unione Politica, avrebbe dovuto garantire una crescita del benessere interno tanto grande ed accelerata da riuscire a compensare le inevitabili e prevedibili ostilità culturali, etniche ed istituzionali che la devoluzione di competenze politiche dovrà comportare. Tuttavia, ai costi del sistema parassitario statale dei singoli Paesi si è aggiunto l’onere e intralcio del sistema istituzionale dell’Unione Europea. I costi han pesato sui sistemi produttivi nazionali mentre le nuove istituzioni non hanno potuto assicurare un apporto economicamente compensativo dei maggiori costi. Il sistema Europa si è dimostrato non competitivo sul mercato globale nei confronti dei Paesi emergenti e degli USA. Gli scambi interni all’Unione Europea hanno ricevuto benefici che tuttavia non sono sempre addebitabili a sana concorrenza industriale ma a sostegni protezionisti che hanno appesantito la competitività dell’Euro e del sistema finanziario europeo. La globalizzazione industriale si è sviluppata invece con grande rapidità offrendo anche ai gruppi industriali dei Paesi europei partecipi della utopica Unione Europea grandi opportunità di crescita rispetto a quelle offerte da un mercato europeo già saturo di offerta e scarsamente capace di sostenere le esigenze del sistema economico con apporti di efficienti servizi statali e di iniziative fiscali e monetarie che riescano a evitare l’esodo extra-UE degli investimenti dei grandi gruppi industriali (anche di proprietà degli stati).

Siamo ora giunti a riconoscere l’impotenza (saggia e di buon senso) dei Paesi egemoni sul piano decisionale politico dell’UE a finanziare l’inadeguatezza delle scelte politico-economiche assunte da Stati marginali come Grecia, Spagna, Islanda, Irlanda, (Italia) e chi più ne ha più ne metta. A questo punto sperare ancora che la UE possa aspirare a imporre l’accelerazione dell’Unione Politica alla luce del fallimento del tentativo di dare un’Unione Economica e monetaria stabile e credibile, sembra più che un’utopia un perseverare diabolico nel primigenio errore di buon senso. Soprattutto dopo la patetica e fallimentare farsa del Trattato di Lisbona e del conseguente fallimento dell’unico tentativo di dar un, seppur solo formale, segnale di credibilità politico-istituzionale con l’elezione di Blair a Presidente e di D’Alema a Commissario alle Relazioni Estere. Come era stato suggerito con molto “buon senso” e interesse nazionale italiano da Silvio Berlusconi osteggiato infatti da tutte le corporazioni “de sinistra” in Italia e in Europa (ivi incluse i laburisti e gli spagnoli del Bambi ora alla ricerca del capro espiatorio – naturalmente nella finanza anglo-sassone demo-pluto-giudaica!).

Che fare?

Alla luce dei fatti osservabili (inefficienza europea, lentezza decisionale europea, accelerata globalizzazione, delocalizzazione industriale dei grandi gruppi europei, destabilizzazione dell’Euro, recupero del dollaro USA come valuta di riserva e scambio, accelerazione degli accordi di governance finanziaria, politica, militare sul piano geopolitico globale) e alla luce delle difficoltà interne all’Europa di definire una credibile istituzione che possa sperare di negoziare a nome e per conto di tutti i Paesi coinvolti propri spazi originali di egemonia politica io personalmente credo che l’inevitabile scelta sarebbe quella di inserirsi (grazie alle decisioni dei principali gruppi industriali dei Paesi più industriali di Europa) nel sistema industriale globale di cui è in corso il consolidamento della governance dietro una gerarchia decisionale ben definita (G2, G20, G20+) e nel cui ambito certamente potremmo concorrere a negoziare piccole modifiche che avessero l’ambizione di poter tutelare gli interessi di vertice di quel sotto-sistema industriale ancora saldamente legato a aspettative e a sostegni statali. Nazionali. Una volta che si fosse consolidato quel sottosistema industriale, sarebbe più agevole capire quali fossero le effettive priorità industriali gerarchicamente sottostanti che stabilissero la scala delle priorità delle politiche e dei servizi istituzionali necessari per agevolarne la competitività sul mercato globale. Sarebbe un modo pragmatico per definire le priorità al di fuori delle resistenze corporative che altrimenti verrebbero opposte da organismi ormai abbondantemente obsoleti, inefficienti e parassitari e sarebbe anche un approccio pienamente “liberista” secondo il quale è il mercato tecnologico a definire le aspettative e le esigenze sociali e dei servizi pubblici (non necessariamente statali) mentre deve essere lo stato ad adeguare i propri servizi a quelle aspettative ed esigenze istituzionali. Non l’astratto viceversa ideologico-intellettualoide che ha sempre generato fasi di stasi nell’avanzare del progresso e nell’abbattimento delle frontiere del benessere e della libertà.