15/11/2010

Trasversalità dell’’innocenza’ e della ‘criminalità’

È ridicolo e politicamente sterile (se non se ne abusi per fini demagogici con risultati incontrollabili sul piano emotivo ed altamente illiberali se non criminali – lanci di monetine al San Raphael, lanci dei Balilla di piazza Navona o piazza del Duomo, lanci di uova e di scarpe, etc.) impostare una linea politica sull’eticità presunta dote della propria parte politica. Ciò costringe a dare costante (indimostrabile) prova della moralità di ogni proprio adepto e perseguire per converso ogni adepto della controparte come incorreggibile criminale. Oltre ad essere scarsamente credibile, una tale suddivisione trasferisce da un lato la dialettica politica alle aule di tribunale, cedendo ad esse la propria egemonia liberal-democratica. D’altro lato essa priva a priori dalla scena i più intraprendenti ed efficaci protagonisti della politica costringendoli ad assumere ruoli nascosti di ‘mentore’ di figuranti ‘duri e puri’ quel tanto che riesca a soddisfare le aspettative demagogiche.

Occorre accettare che siamo tutti animati da visione compassionevole dei misfatti cui la vita ci costringe ad assistere quotidianamente. Ciò perché ognuno di noi è consapevole di non ‘essere in grado di scagliare la prima pietra’ se non è vittima dell’emotività più volatile che caratterizza i linciaggi, i roghi delle streghe o la persecuzione degli untori.

Nutriamo una compassione il cui grado dipende dal grado in cui ciascuno di noi si identifica con la vittima o col carnefice. È da ciò che discende l’opposizione popolare alla polizia durante le retate nei bassifondi delle metropoli ove è più densa la residenza delle bande organizzate del crimine.

Tutti sappiamo infatti nutrire empatia (metterci nei panni altrui) anche verso i più freddi e feroci criminali. Tutti cerchiamo di trovare qualche ragione tra le motivazioni dei crimini che non le riducano alla pura malvagità genetica (povertà, abusi subiti, etc.) e che consentano di identificare elementi individuali di riscatto sociale anche nei più perversi criminali per cercare di recuperarli reinserendoli nella società una volta che essa sia stata risarcita del danno.

Questo atteggiamento compassionevole discende da una consapevolezza naturale che ci aiuta a riconoscere la coesistenza in noi stessi della vittima unitamente al carnefice. Infatti spesso ciò che ci trascina ad assumere il ruolo di carnefice o di vittima è solamente frutto di pura casualità di successione dei fatti in cui ci troviamo immersi. Da pirati della strada ad eroi che mettono a repentaglio la vita in modo disinteressato per tentare di salvare un individuo che in mare rischia di soccombere. Ma anche offrire una affettuosa e fraterna assistenza a chi si prostituirebbe pur di riuscire a superare una situazione critica professionale o economica invece di cedere a sfruttare opportunisticamente quell’occasionale ruolo di privilegio e ricavarne la concessione di benefici individuali. Tutto ha un prezzo e la prostituzione non si limita a quella fisica ma si estende a analoga concessione delle doti intellettuali e morali della deontologia, del diritto e della religione.

La compassione ci si affina nel tempo con lo sviluppo di conoscenze e con l’adesione alle pratiche religiose.

Occorre tuttavia tenere ben distinte la nostra individuale compassione dalla remunerazione stabilita per ogni reato dalle leggi dello stato.

La certezza del diritto impone anche la certezza della pena. L’empatia che ispira la compassione resta invece un fatto altamente aleatorio ed individuale di cui ognuno assume individualmente il merito e ogni associata responsabilità.

È la compassione che anima noi tutti ad ispirare gli artisti a concepire le trame più paradossali letterarie e cinematografiche. Anche il criminale più feroce, crediamo, può essere stato motivato a compiere i suoi misfatti da finalità ritenute altamente etiche.

Anche i benefattori più acclarati possono essere stati motivati, sospettiamo sempre in modo malizioso, da forme di egoismo o da gratificazioni devianti seppure inconsce.

È noto dalla vita dei più noti filantropi e benefattori come essi non trascurassero di coltivare relazioni sociali rischiose pur di garantire sostegni adeguati ai loro progetti umanitari. Don Bosco non si esimeva dal frequentare boss del crimine organizzato in Piemonte e Liguria per ricevere finanziamenti grazie al sostegno della grazia divina capace di illuminare anche i cuori più duri. Così Padre Gemelli e Don Verzè non hanno rifuggito dal trattare investimenti finanziari caratterizzati da elevati livelli di rischio pur di completare i loro progetti sanitari.

Per converso, e specularmente, i vertici del crimine organizzato mostrano attenzione disinteressata verso il finanziamento di iniziative caritatevoli anche se visibilmente prive di scambi di interessi pratici. Così come spesso capita ai magnati, ai più abili speculatori ed arrampicatori sociali per ricavare dalle loro offerte una immagine che possa attrarre su di loro una popolarità che difficilmente potrebbe derivare dalla loro attività.

Fino alle più quotidiane e individuali situazioni in cui siamo coinvolti è evidente la ‘trasversalità’ del bene e del male che ispira i nostri comportamenti.

Occorrerebbe riflettere su chi è più criminale, il diseredato degli slum che, pur di non soccombere, s’inventa imprenditore della prostituzione oppure le ragazze che, invece di scegliere mansioni meno ‘schiavizzanti’ e sgradevoli ma meno remunerative, preferiscono aderire ai servizi offerti da quel tipo illegale di impresa che è classificata priva di qualsiasi forma di dignità oppure ancora i clienti delle prostitute che, pur classificando la professione come ‘spregevole’ sia per la manodopera che per l’imprenditoria che la gestisce, corre in massa a chiederne i servizi rendendo remunerativo per tutti i diseredati che vi sono coinvolti di parteciparvi. Oppure ancora lo stato che, rinunciando ad assumere provvedimenti ‘etici’ magari a spese dei clienti, pensa di codificare quella professione secondo tabelle e criteri che ne consentano la tassazione. Non c’è maggiore criminale di colui che genera e gestisce un’imprenditorialità autosufficiente e costretta all’illegalità. Clienti, Stato; con ogni sua istituzione dal fisco alla pubblica sicurezza.

La renitenza (peccato di omissione) a dare il nostro sostegno alle vittime dei soprusi più ‘locali’ e minimali in apparenza che assicura ai più violenti ed arroganti una franchigia che se non frenata sin trasforma nella omertà che crea l’ambiente favorevole a ogni tipo di criminalità organizzata in bande. La rinuncia ad offrire solidarietà immediata a chi subisce lesione dei suoi diritti civili da parte di interlocutori privati o statali che siano e che dimostra un diffuso disinteresse per la partecipazione alla ‘politica’ che è un oggetto di interesse comune e non quell’astrazione intellettuale che viene proposta periodicamente da ‘professionisti’ demagoghi fruitori del diritto elettorale ‘passivo’ all’elettorato in-attivo ma nominalmente detentore del diritto elettorale ‘attivo’. Astrazioni istituzionali che restano formali e bizantine rappresentazioni di ciò che anima invece nelle liberal-democrazie l’impegno ‘gratuito’ nei ‘tea party’ impegnati nella difesa immediata a ogni assalto ai principi fondatori della civiltà ‘Occidentale’.

Un impegno che oggi in Italia, di fronte all’universale, dichiarata ‘impasse’ della politica (a causa dell’unico problema ‘etico’ d’una franchigia o amnistia ‘ad personam’) riconfermata da vent’anni sul piano elettorale, sceglie di conservare opportunisticamente (demagogicamente) bloccata la politica in tutti i suoi aspetti di più diffuso interesse pubblico invece di eliminare il presunto problema-chiave con un atto realmente politico che si traduce in un generale accordo tra berlusconiani e anti-berlusconiani di disinnescare quel problema, solo strumentale alla ‘conservazione’ di interessi ormai insostenibili che si traducono nei privilegi di status detenuti dalle caste che popolano istituzioni post-belliche ormai obsolete; oltre che incompatibili con le esigenze politiche di un paese trasformatore integrato nel mercato competitivo globale.

In realtà le crisi costanti che affliggono la politica in Italia sono dettate dall’imminenza di tutti i tentativi di ‘riformare’ la costituzione e l’associato corpus giuridico su cui fondano i loro privilegi le vecchie oligarchie parassitarie. Queste, non più funzionali con le aspettative del sistema produttivo industriale del paese che si può sintetizzare come ‘paese reale’, sono consapevoli di perdere ogni loro prerogativa che si può sintetizzare nell’etichetta di ‘paese legale’.

Le ragioni della perdurante stabilità del consenso di Silvio Berlusconi (e di Umberto Bossi a nord) discendono dalla sua credibilità agli occhi dell’elettorato di essere un non-politico (quindi non-chierico del ‘paese legale’), di rappresentare in modo eccellente gli interessi del successo e innovazione industriale (quindi il ‘paese reale’) e di costituire per il ‘paese legale’ un corpo estraneo e da perseguitare in quanto minaccia delle sue più reazionarie ‘resistenze, resistenze, resistenze’. Egli inoltre usa un linguaggio e stile comunicativo moderni che, oltre a renderlo comprensibile all’opinione pubblica, ne conferma la disparità rispetto ai tradizionali linguaggi paludati, bizantini ed esoterici usati dai sinedri della politica e dell’intellettualità del ‘paese legale’.

Comunque possano evolvere le crisi del sistema istituzionale in Italia saranno garantiti due elementi: 1) che Berlusconi/Bossi, a meno di un loro prematuro decesso, resteranno i protagonisti egemoni sul piano post-elettorale, 2) che il semplice passare del tempo in un atteggiamento del ‘laissez faire’ più ‘naif’ possibile sarà fonte del decesso dei vecchi apparati istituzionali e dell’innovazione del sistema istituzionale ‘dal basso’.

È il trionfo del pragmatismo liberal-democratico che si adegua al pionierismo innovatore del capitalismo-liberista.