15/11/2010

Strategie sociali: satrapie vs. liberismi

Tutti gli individui sono ispirati nel loro agire da un mix di motivazioni che mirano a gratificare una ampia gamma di bisogni che vanno dall’appagare le esigenze più egoistiche, individuali e rapaci a quelle più altruiste, trascendenti e solidali.

Si tratta di un equilibrio comportamentale precario e dinamico ispirato da una gerarchia di valori le cui priorità e pesi relativi variano al variare del livello culturale di ogni individuo ed all’associato modificarsi della sua percezione del grado di ostilità ambientale.

I criteri secondo i quali si rinuncia a perseguire la soddisfazione di certi bisogni a beneficio di altri sono altresì variabili e dipendono dal livello culturale di ogni individuo e dalla sua percezione dell’ostilità ambientale.

Tradurre questi elementi (gerarchia dei valori, loro pesi relativi, criteri di scambio tra i valori) in rigide procedure legali trasferisce l’influenza dei conflitti comportamentali dalla loro azione al livello individuale e volontario, alla loro influenza sui diversi aggregati sociali secondo i quali si raggruppano statisticamente le sensibilità, le percezioni e le disponibilità individuali.

Si passa da uno spontaneo formarsi di disponibilità individuali ad aderire ai mix di valori e comportamenti che caratterizzano la cultura egemone in una certa società (capace di evolvere grazie alla indipendente crescita di conoscenze, di assertività e di empatia), ad un’ortodossia politica imposta dall’alto tramite processi educativi ed a processi di repressione dei devianti.

Si tratta di due processi di sviluppo del progresso civile che mirano entrambi ad arricchire l’ispirazione del mix di valori, pesi e criteri di scambio cui si ispira la cultura di una società verso contenuti sempre più solidali e trascendenti le pure esigenze materiali ed egoiste delle società primitive.

Se entrambi i processi aspirano a compatibili punti di arrivo, i percorsi e gli strumenti da loro prescelti si divaricano invece in modo sostanziale ed incompatibile.

La religione cristiana accetta di agire sulle singole coscienze per riuscirle a far maturare con una crescita libera e consapevole. Ciò impone alla Chiesa di accettare la convivenza della sua testimonianza culturale con ogni contesto politico secolare.

Dai più autoritari ai più liberali. È questo il motivo che ha condotto alla separazione tra Chiesa e Stato ed alla successiva, ulteriore separazione delle istituzioni di interesse pubblico in sfere di autonomia delle reciproche contrapposizioni di interessi. È il processo seguito dalla civiltà ‘Occidentale’ con le sue istituzioni liberal-democratiche ma, soprattutto, con la sua attribuzione di priorità gerarchica alla ‘responsabilità’ del libero arbitrio - o libertà di comportamento dei singoli individui - ed al ruolo di ‘servizio’ riservato a tutte le istituzioni in crescenti gradi di sussidiarietà rispetto all’opposta priorità di attribuzione alle istituzioni (che i regimi autoritari legittimano accampandone finalità etiche e politicamente corrette) del ruolo autoritario di educare, di guidare, di controllare e di correggere i comportamenti non ortodossi e di punire quelli devianti. Tutte missioni attribuite allo Stato dai regimi etici autoritari. Oltre a quella totalizzatrice che consiste nella missione di redistribuire ‘equamente’ il reddito prodotto (in modo, impegno e qualità non egalitarie) tramite la ‘programmazione dei redditi’ – o pianificazione dello sviluppo industriale.

È ciò che sta accadendo negli USA dopo avere storicamente fallito sin dal suo nascere in URSS coi vari piani quinquennali intervallati da periodi di NEP (economia liberalizzata) necessari per evitare la bancarotta cui quell’approccio statalista regolarmente e periodicamente conduce ogni qual volta esso sia stato adottato nel mondo – dall’URSS, alla Cina, alla Corea del Nord, al Cile di Allende, alla Cuba di Castro fino all’Italia del compromesso storico.

Infatti ciò che dimostra l’eclatante fallimento della programmazione statale dello sviluppo industriale è oggi cronaca in Italia fondandosi con chiarezza emblematica nel ‘caso Fiat’.

Il ‘caso Fiat’, indipendentemente dal punto di osservazione (de destra o de sinistra), afferma con estrema chiarezza che la decisione di programmare lo sviluppo dell’economia in Italia è avvenuta per una acclarata volontà politica riassumibile nel consociativismo DC-PCI.

Quella indiretta forma di compartecipazione al governo del paese, illiberale se letta alla luce delle istituzioni liberal-democratiche, risultava anche bloccata da ragioni strategiche della geopolitica di allora riassumibili nella guerra fredda e nell’esclusione del PCI da ogni forma di partecipazione diretta all’esecutivo del paese. Le ragioni strategiche che suggerirono alla politica italiana di concepire l’illiberale, machiavellica e bizantina idea di associare il PCI al potere erano fondate sulla convinzione dell’irrefrenabile ascesa del comunismo nel mondo (associata alle due complementari convinzioni di DC e PCI: l’inevitabile crollo finale del capitalismo liberale e l’incompatibilità del paradigma del capitalismo-liberista rispetto all’ortodossia dottrinaria dei due partiti egemoni di governo e di opposizione – la dottrina sociale cristiana e la dottrina sociale marxista. La debolezza politica dei partiti liberali in Italia (socialisti riformisti e liberali) e la debolezza politica della piccola e media industria privata (l’80% del sistema industriale nazionale) agevolarono il varo dell’accordo politico. Esso si tradusse in una vera e propria programmazione statale dello sviluppo industriale mirata ad auto- legittimarsi gratificando in modo accelerato e non compatibile con la conservazione dell’equilibrio dei bilanci aziendali e statali le due constituency elettorali dei partiti egemoni. Furono varate quindi ‘avanzate’ riforme sociali a spese del debito pubblico compensando i sindacati operai, il mondo rurale e i ceti a reddito fisso con meccanismi iper-compensatori dell’inflazione che cresceva sempre più. L’onerosità fiscale e finanziaria che ne risultò per la Confindustria (in cui Fiat era egemone) fu assorbita dallo stato tramite agevolazioni a spese dei contribuenti (rottamazioni, cessione di aziende concorrenti a prezzi di favore, privilegiata assegnazione di contratti, etc.). L’industria di stato ereditata dal fascismo era già finanziata dallo stato nelle sue perdite.

Questo processo di enorme accumulazione del debito pubblico riuscì a gratificare sia la Confindustria, sia i sindacati più radicali CGIL-metalmeccanici che giunsero a fregiarsi dei successi strappati ai ‘padroni’ dalle loro lotte più dure (statuto dei laboratori, periodi di cure termali, assenze remunerate in eventi straordinari, etc.). Ciò consolidò la convinzione sulla correttezza della conflittualità marxista di capitale-lavoro. Il crollo del comunismo nel 1989 improvvisamente sottrasse i prerequisito logici e tecnici che avevano legittimato il consociativismo. Logici e cioè l’intramontabilità del comunismo internazionale. Tecnici cioè la correttezza della dottrina sociale marxista e della programmazione centrale dello sviluppo industriale.

L’Italia è un paese ‘trasformatore’ il cui bilancio economico cioè è dipendente dalla capacità del suo sistema industriale di produrre valore aggiunto che risulti competitivo sul mercato internazionale. L’onerosità del debito pubblico accumulato dall’illiberale accordo consociativo appesantì i costi di produzione industriali fino a costringere lo stato a distorsioni protezioniste dell’economia sempre meno compatibili cogli obblighi dei trattati ed accordi internazionali. L’accettazione finale della moneta unica in Europa condusse a ulteriori vincoli esogeni come l’impossibilità di emettere moneta, di agire sui cambi, di conservare lo squilibrio del rapporto deficit/bilancio, etc..

Siamo arrivati ad oggi in cui si rinfaccia a Fiat di avere ‘approfittato’ dei finanziamenti statali per aderire a una scelta di politica economica fallimentare, illiberale e imposta invece al di sopra della legittimità elettorale al governo del paese.

Si rinfaccia anche a Fiat di non avere recuperato con investimenti innovativi la perdita di competitività che aveva subito per l’imposizione politica (non negoziata sindacalmente) di vincoli eccessivi rispetto alle altre legislazioni del lavoro vigenti all’estero. Si rinfaccia Fiat di agire sul piano politico e non sindacale quando chiede di rivedere il contratto di lavoro attuale, accampando l’illiberale equiparazione del diritto del lavoro con la sua presunta immodificabilità costituzionale (costituzione che, in regimi liberal-democratici, invece è anch’essa adeguabile ai tempi – contrariamente a ciò che pretendono i sostenitori dell’illiberale accordo ‘consociativo’ i piena coerenza con la loro visione illiberale del governo della società).

Si pretende che la conservazione dei privilegi sindacali, ormai palesemente insostenibili alla luce della sana competitività di libero mercato, venga ‘protetta’ a spese del bilancio nazionale per continuare a ‘incentivare’ Fiat nel privilegiate i suoi impianti industriali in Italia invece di offrire nuove opportunità di reddito a operai in condizioni ben più disagiate e indigenti in paesi di nuova industrializzazione – rinnegando con ciò una presunta ispirazione della dottrina sociale marxista o cristiana alla solidarietà internazionale. Il contesto globale in cui l’industria ‘trasformatrice’ italiana è costretta ad operare proibisce ogni illiberale forma di protezionismo industriale. Pretendere che, al fine di tutelare privilegi antieconomici, si istituiscano illiberali forme di protezionismo è pienamente in linea con l’irresponsabile paradigma marxista della conflittualità sociale come leva al raggiungimento del successo politico. Non stupisce che i sindacati cristiani, liberali e del socialismo riformatore abbiano rifiutato questa via protezionista per scegliere invece l’incentivazione dei produttori a prestare livelli di produttività superiori prima di chiedere di beneficiarne a posteriori.

La via della competitività di libero mercato riesce a superare le difficoltà industriali come dimostra l’accordo negli USA tra Fiat e sindacalismo liberale. La conflittualità conduce all’accumulo di minore competitività di tutto il sistema stato-industria ed alla associata paralisi decisionale su posizioni ideologiche troppo rigide per consentire l’identificazione di soluzioni contrattuali mutuamente credibili.

Questa è un’ulteriore prova del fallimento storico del marxismo e del suo paradigma del progresso come lotta sociale.

Le patetiche, sterili resistenze al trionfo del capitalismo-liberista (sostenuto dai socialisti con Craxi e, dopo di lui, da Berlusconi) proseguono sostenute da una minoranza illiberale iniettata lungo oltre cinquant’anni di consociativismo da DC e PCI all’insegna di illiberali soluzioni ispirate da due fallimentari dottrine sociali.

Il trionfo del capitalismo-liberista invece avviene per ragioni di maggiore produttività autonomamente sul mercato internazionale dove l’Italia è costretta ad operare. La soluzione ‘autarchica’ infatti è l’unica terza via di governo dell’economia. Una via che impone autoritarismo politico e pauperismo sociale; progressi che risultano estranei alla civiltà ‘Occidentale’.

Rassicuriamoci, indipendentemente dalle ‘resistenze’, ogni mese che passa rafforza i legami industriali tra l’Italia ed il mercato globale e riduce ogni possibilità di successo al duo-polio illiberale e autoritario che ha ‘sgovernato’ il paese a partire dalla scelta consociativa (compromesso storico – ‘storico’?!?) ma in realtà a partire dalla stesura della più sterile e inconcludente costituzione nata dall’accordo di vertice tra due partiti ispirati da dottrine sociali entrambe incompatibili con la competitività ed il progresso liberale di cui stiamo – non ostante tutto – beneficiando oggi.