15/01/2010

Drammi umani e Paradigmi politici

Tutti piangiamo sulle tragedie umane e solidarizziamo con i più deboli; indipendentemente dalla dimensione del dramma contingente o dall’orientamento politico che ci ispira.

Tutti abbiamo consapevolezza di dover dimostrare sul piano concreto la nostra solidarietà umana verso chi è stato colpito dal dramma per non nutrire un senso di colpa e disistima nei confronti di noi stessi fortunati a non vivere quel dramma che, in genere, potrebbe avere colpito in nostri cari o noi stessi.

Le forme in cui si esprime la solidarietà tuttavia sono in genere estemporanee e di breve persistenza grazie alla dose di fisiologici meccanismi di protezione di cui è dotata la psiche del rappresentante “standard” delle audience mediatiche. Pochi sono coloro che vengono “colpiti sulla via di Damasco” dallo specifico dramma e che, sulla traccia dei molti missionari laici o religiosi, abbandonano lo status privilegiato di cittadini della civiltà ‘Occidentale’ per andare nei Paesi non industrializzati a “condividere” della loro vita che è piena di più piccoli ma quotidiani drammi. Drammi forse meno spettacolari di quelli che aumentano le audience TV ma certamente più nocivi per la dignità di chi li vive ogni giorno nel terzo mondo o nei ghetti in cui vivono nel più distaccato disinteresse degli stessi che piangono e solidarizzano nelle forme più occasionali e organizzate della “carità multimediale”.

Si tratta di reazioni fisiologiche per tutelare la sopravvivenza della nostra civiltà ‘Occidentale’ garantendo la stabilità psichica dei singoli che riescono a partecipare senza eccessive conseguenze sui loro comportamenti nella vita quotidiana e aiutando a liberarci dei sensi di colpa di soggetti privilegiati incanalando in forme ben organizzate la nostra solidarietà entro meccanismi socialmente rassicuranti e mediaticamente liberatòri.

I casi Rosarno e Haiti sono emblematici di questa partecipazione. Tutti hanno solidarizzato con i più deboli in entrambi i casi. I negri a Rosarno e i diseredati delle bidonville ad Haiti. Se le audience hanno manifestato forme di “razzismo” nei confronti degli eventi di Rosarno esse si sono manifestate nei confronti dei calabresi che, resisene conto, hanno provveduto a manifestare la loro solidarietà con gli sfruttati da essi stessi. Per Haiti le stesse audience hanno mostrato la massima compassione per i derelitti delle bidonville e i missionari che ne condividono quotidianamente i drammi e minore partecipazione per le sorti di governanti e turisti in condizioni di vita privilegiata (una forma di “razzismo” di ceto). Costringere le audience a scegliere la forma psichicamente meno traumatizzante di collocarsi in solidarietà tra i soggetti colpiti dal dramma non aiuta a maturare una consapevolezza della realtà che riesca a costruire comportamenti più atti ad evitare i drammi in futuro e tipi più sostenibili e credibili di reale solidarietà nei confronti di chi è colpito dai drammi che non si possono evitare.

Occorre ad esempio rendersi conto che il Vesuvio è una bomba ad orologeria che (qualora esplodesse come il Monte St.Elene ai confini tra Washington ed Oregon negli anni ’80) inevitabilmente produrrebbe ecatombe e catastrofe epocale. Né proibire la costruzione sulle falde o alle pendici del vulcano potrebbe rimediare al fatto che se avvenisse avrebbe ripercussioni su tutta quell’area metropolitana. Analogamente occorre riflettere sul fatto che, al di la delle dimensioni e cause del dramma, esiste un problema di efficienza delle istituzioni che amministrano la zona colpita e che esaltano o contengono la dimensione delle ripercussioni del dramma sui residenti nella zona afflitta. Il problema della prevenzione e del soccorso è l’aspetto permanente che pesa in ogni dramma socialmente rilevante ed è su questo che converrebbe concentrare le attenzioni in futuro. Infatti queste ripetitive ed episodiche manifestazioni dei drammi umani non possono aiutarci a migliorare i comportamenti “politici” in occasione dei drammi analoghi in futuro.

Ciò era inevitabile al nascere della civiltà ‘Occidentale’ per la inadeguatezza tecnologica e organizzativa del sistema industriale e di quello delle istituzioni liberal-democratiche che esso aveva permesso di consolidare. È stato forse ancora inevitabile durante tutta l’epoca degli Stati Nazione che hanno dovuto consolidare i propri sistemi industriali e istituzionali in competizione reciproca ed “a spese” dei Paesi colonizzati. Sembra non fisiologico né per gli stessi interessi del sistema industriale attuale in via di globalizzazione irreversibile, né per gli interessi della nuova governance globale se vogliamo consolidare l’egemonia del sistema liberal-democratico ‘Occidentale’; il prodotto “politico” del capitalismo-liberista.

Allora che fare?

Esistono due tradizionali paradigmi politici nel mondo politico ‘Occidentale’: quella del capitalismo-liberista che si fonda sul laissez faire e sul paternalismo aziendale (entrambi impongono la massima responsabilità nelle scelte economiche) perché il progresso si manifesti nel modo più imprevedibile e libero da preconcetti e quella della programmazione statale dello sviluppo industriale (che presume di riuscire a gestire lo sviluppo dell’innovazione sulla base di una previdente somministrazione di incentivi che avvicendino carote e bastoni finanziari e fiscali in modo da guidare verso assetti prevedibili e auspicabili.

Nei confronti dello sviluppo interno agli Stati Nazione il paradigma egemone è sempre stato una miscela dei due. Dosi abbondanti e prevalenti di capitalismo-liberista per assicurare la crescita del reddito nazionale e di conseguenza della potenza competitiva del sistema nazionale sui mercati esteri (imperialismo e colonialismo che hanno civilizzato il globo – con tutti gli aspetti deprecati ma premessa dell’attuale esplosione globale del benessere) dosi integrate da dirigismo centrale dello stato per proteggere gli interessi di oligopoli dominanti per l’interesse del Paese. Questo gioco di dosaggio dei due paradigmi si è sviluppato sulla costante tendenza di una graduale liberalizzazione del sistema produttivo che ha visto passare dai monopoli industriali iniziali, agli oligopoli fino all’abbattimento delle frontiere nazionali verso la costruzione del mercato globale di oggi.

Proprio alle soglie del mercato globale con la relativa esigenza di definire una governance globale e condivisa (le istituzioni dello stato di domani) occorre replicare questo modus operandi politico per garantire sia la graduale crescita del reddito, sia la stabilità politica necessaria al sistema industriale per progettare il ritorno sugli investimenti finanziari che deve assumere in piena responsabilità. Responsabilità che deve prevedere di norma i “fallimenti” industriali pur dovendo accettare la convivenza marginale e minoritaria del paradigma illiberale e protezionista della programmazione statale dello sviluppo industriale.

Se questo è l’approccio che si dovrà assumere nella governance del sistema globalizzato, occorre ritornare a esaminare come potrebbero essere affrontati in modo coerente i drammi futuri; sia sul piano preventivo che su quello dei correttivi.

Il primo elemento critico causa dei drammi è l’organizzazione delle istituzioni che provvedono a prevenirla e ad erogare i correttivi. Si tratta di disporre di una raffinata, efficiente e tempestiva cultura organizzativa che deve intervenire selettivamente e “per eccezione” senza istituire una propria dominanza persistente su ogni altra attività produttiva industriale. Ciò che è avvenuto a l’Aquila e a Napoli in occasione del terremoto e dei rifiuti urbani sono due esempi emblematici non sospettabili di surrettizie dosi di “razzismo”. La istituzionale carenza di una cultura organizzativa industriale in certe realtà sociali (Napoli o Haiti) richiede il temporaneo scavalcamento del ruolo di governo locale per risolvere il dramma acuto e avviare forme di correttivi stabili alla portata della cultura manageriale locale alla cui responsabilità possono essere restituiti. È una forma di saggezza adottata da millenni per la gestione e per la diffusione del benessere industriale e della liberal-democrazia ‘Occidentale’ che, pur sotto etichette di episodi storici deprecati (mercantilismo, imperialismo, colonialismo), ha costruito il benessere globale cui oggi possono partecipare masse enormi di indigenti. Con la dovuta gradualità e stabilità del sistema di cui è la governance soprannazionale che dovrà farsi carico.

Così come è risultato necessario sospendere l’autonomia locale per dare soluzione a l’Aquila o a Napoli, si deve accettare che l’Occidente’ sospenda in Paesi come Haiti l’autonomia locale fino a dare soluzione ad assetti attuali inaccettabili e causa di dramma permanente e cronico sul piano sanitario e civile. Non occorre attendere eruzioni o terremoti per imporre la salutare eliminazione degli insediamenti “liberali” nelle favelas o nelle baraccopoli. Chi piange e solidarizza con Telethon televisive in occasione di eruzioni o terremoti non si deve scandalizzare di fronte all’intervento di stile “neo-colonialista” di un’istituzione soprannazionale coi suoi Bertolaso di cui è ricco l’’Occidente’ e povero il terzo mondo. Sospendere a termine la democrazia dove non ne esiste il prerequisito culturale e organizzativo non è illiberale. È invece criminale rispettare le regole formali consapevoli che le capacità di intervento locali sono inadeguate alle esigenze umanitarie e civili.

Questa affermazione mi consente di rivolgere attenzione all’aspetto della prevenzione dei drammi il cui caso emblematico può essere quello di Rosarno e dei suoi conflitti tra poveri sfruttatori e sfruttati. Anche in questo caso occorre riferirci al paradigma “misto” della governance del sistema industriale. Il dramma di Rosarno è esploso il primo di gennaio 2010 ma la situazione illegale e schiavista era in opera già da anni e la sua genesi è proprio nella componente statalista di programmazione dello sviluppo economico. Vediamo il caso per trasferirne la lezione in altre situazioni per analogia interventista-programmatoria.

L’Unione Europea dovendo “razionalizzare” il sistema industriale unificato, ha deciso che convenisse che le produzioni competitive coincidessero con le zone di massima predisposizione ambientale e che quindi i produttori nazionali rinunciassero a produrre laddove esistessero prodotti costo/economici più convenienti. Occorreva quindi agevolare l’esodo delle coltivazioni dalle zone più svantaggiose compensando le perdite del bilancio delle aziende da chiudere con l’acquisto delle dettare eccedentarie e la successiva distruzione per non creare concorrenza ai produttori delle zone di scelta elettiva.

Quella decisione favorì l’esodo dai vigneti toscani, lombardi o veneti perché le condizioni ambientali meno favorevoli rispetto a Francia e Spagna e i temporanei sussidi erano affiancati da offerte occupazionali per i giovani nelle aziende industriali in costante crescita. In Calabria, le condizioni ambientali molto più ostiche non erano invece affiancate da offerte occupazionali se non l’assunzione in impieghi statali (i forestali, i professori e i maestri) o l’emigrazione in altre aree del Paese. L’ingegnosità dei piccoli produttori rurali e i meccanismi di assistenza finanziaria combinati tra loro (ammortizzatori sociali e sussidi agricoli) hanno suggerito invece di aumentare le produzioni diseconomiche per ricavare maggiori sussidi dal maggiore tonnellaggio di beni prodotti. Ciò richiese l’afflusso di manovalanza non qualificata e sottopagata a tutti noti da anni (i negri con nuove forme di schiavismo, caporalato e condizioni di vita da favelas o baraccopoli da terzo mondo).

Finalmente le “menti sottili” in carico della programmazione dello sviluppo industriale dell’UE accortisi che qualcosa non funzionava e sollecitati dalla crisi che riduceva la sostenibilità dei sussidi, hanno deciso che a partire dal primo gennaio 2010 i sussidi venissero computati non più sulla base delle tonnellate di derrate prodotte ma sull’area coltivata in ettari. Caduto ogni interesse a produrre e raccogliere i beni è caduta ogni necessità di impiegare gli schiavi negri che però non potevano sparire né rinunciare a mangiare e dormire. A quel punto è scoppiato il dramma con grande scandalo della Chiesa, dei prefetti, dei sindaci e dei media. È necessario comprendere che il paradigma della programmazione di un’economia in via di sviluppo e così complessa come l’attuale è estranea alle capacità culturali di chiunque tra i sapienti della terra e che quindi il solo meccanismo che consente di spalmare i drammi a dosi omeopatiche su masse diffuse di famiglie, lungo archi temporali accettabili è la massima responsabilizzazione nelle scelte occupazionali prive di sussidi surrettizi. È improbabile che in Calabria esista l’esigenza smodata di forestali che dovrebbe giustificare quel numero elevato di assunzioni. È altresì improbabile che in Calabria esistano tanti veri invalidi sul lavoro e coltivatori diretti. Solo per prendere una regione europea a caso. La malattia del “fatta la legge trovato l’inganno” è permanente ovunque nel mondo.

Per prevenire i drammi occorre spalmarli sulle responsabilità individuali eliminando ogni presunto sussidio programmatore “buonista”. Altrimenti piangere sul “razzismo” delle reazioni occasionali dei calabresi o sul “razzismo” di chi parteggia per i poveri negri sfruttati è solo uno squallido esercizio dialettico tra presunti progressisti e presunti reazionari.