14/12/2009

È in corso una patetica agonia politica post-bellica in Italia

In Italia si sta svolgendo sulla scena politica e in pieno stile della migliore tradizione del teatro popolare, una sceneggiatura a-canovaccio in cui inevitabilmente gli attori più guitti occupano la scena con ruoli da protagonisti rispetto ai professionisti di quell’avanspettacolo che è sempre stato lo scenario politico in Italia dopo il tracollo della Roma Imperiale. Una civiltà che crollò (nei soli assetti formali assunti in quella fase del suo sviluppo) proprio per la conversione delle istituzioni democratiche in puri simulacri della corretta regia di governo. Il Senato infatti si vide sostituito dalla nomina sul campo a quella dignità dei cavalli del sovrano e l’esecutivo vide sostituire la responsabilità individuale del leader (formalizzata nell’istituzione democratica di “dittatura” – magari a-vita come auspicato da Cesare) nell’irresponsabilità a-vita dell’Imperatore che ebbe quindi da allora perfino la legittimità di “nominare” il proprio successore (indipendentemente dal suo livello di consenso).

Il dramma in Italia non è mai esistito (tranne per gli aspetti umani che si riducono ai lutti familiari) anche nei periodi più oscuri. Ciò che ha sempre prevalso in Italia è la farsa sulla traccia della commedia dell’arte e del teatro popolare dai carri di Tespi, al teatro dei Pupi, al melodramma musicale, al teatro dialettale delle più varie culture regionali (da Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno fino a Petrolini e all’avanspettacolo di ieri e di oggi) al teatro “di protesta” dei De Filippo e Dario Fo con le sue irrisioni del “potere” che, svolgendosi sulle scene teatrali, resta condannata a forma artistica ma politicamente sterile. È per queste ragioni (non per più “intellettualmente” profonde ragioni politiche) che, ad esempio, il comitato di assegnazione dei premi Nobel per la letteratura ha gratificato il teatro di Dario Fo di quel riconoscimento. In pieno 2000 il teatro di Fo è rappresentativo della persistenza e vitalità della rappresentazione farsesca del dramma politico (al contrario del modo drammatico in cui si è espressa la narrazione del dramma politico in altre culture europee più in linea con lo spirito della liberal-democrazia – da Shakespeare, a Voltaire, a Ionesco, a Kafka e Orson Welles).

Della lenta e farsesca agonia sono spettatori nel ruolo di “tifosi” (altra delle migliori tradizioni italiane con i “partigiani” animati da bandiere e intolleranza ed armati di pietre di molotov o di monetine a seconda delle epoche più folkloristiche dagli Orazi e Curiazi, ai Guelfi e Ghibellini, ai Bianchi e Neri fino ai pro- o contro- Craxi di ieri o a quelli odierni pro- o contro- Berlusconi). Talvolta le istituzioni liberal-democratiche sono riuscite a gestire questa tradizionale forma farsesca di espressione del teatrino politico italiano. Infatti così come gli Orazi e i Curiazi risucirono a dare una rappresentazione del dibattito tra due parti in competizione allora per la gestione del potere disinnescando manifestazioni nefaste col dramma politico di una disfida solo teatrale, anche nel secondo dopoguerra in Italia l’essere stati “occupati” da eserciti sottoposti a regole liberal-democratiche ha “suggerito” anche i nostri più farseschi protagonisti di allora (dai Pajetta, ai Giannini, ai Parri, ai Giulio Paggio, ai Finocchiaro-Aprile) di incanalare le loro velleità politiche sotto le scelte d’esponenti molto più preparati e pragmatici (Togliatti, De Gasperi, La Malfa, Saragat).

Questa più recente rinuncia alla farsa teatrale del dramma politico non fu accettata per intima convinzione culturale di quei protagonisti. Essa venne accettata “obtorto collo” in attesa di potersi riappropriare di una autonomia culturale che vedeva tre diverse ispirazioni culturali tra quei protagonisti “illuminati”. Tutte in piena coerenza con le profonde tradizioni della politica italiana. La prima era quella dei Guelfi allineati alla dottrina sociale della Chiesa di Roma (la DC tacciata di catto-fascismo dalla parte avversa in quanto la sua componente più preparata assicurava la continuità alle istituzioni e ispirazioni normative del “deprecato ventennio” all’IRI, all’Agip/ENI, al codice Rocco, alla riforma Gentile, alla RAI/EIAR). La seconda era quella dei “proletari” allineati alla dottrina marxista del Comintern (il “blocco popolare” rappresentante una delle più tradizionali e folcloristiche ispirazioni ribelliste italiane – dai Cola di Rienzo, ai Masaniello, ai Ciompi, ai forni delle grucce, ai Vespri siciliani – ed allineato ad una riforma istituzionale coerente con la missione salvifica del “partito egemone” sulle scelte economiche, culturali e amministrative). La terza ispirazione era infine quella più solidamente al governo degli interessi economici e finanziari in Italia (il “partito d’azione” che era l’unico garante della continuità degli interessi industriali sia all’interno che all’estero – una elite di intellettuali che dovevano assicurare alle scelte politiche nazionali il sostegno dei “poteri forti” sia verso gli equilibri geopolitici di natura industriale che verso quelli di natura militare).

L’apparente autonomia concessa alla Costituente quindi dovette agire (pur con altisonanti, retorici ma sterili espressioni – tutte nella più genuina tradizione “culturale” italiana dalla caduta dei Catone e dei Cicerone) in un contesto politico ben definito che aiutò i protagonisti di allora ad evitare il prevalere dei loro più “italioti” comprimari. Ciò ad esempio suggerì a Togliatti di varare l’amnistia nei confronti dei “fascisti” (in pratica tutti gli italiani residenti in patria). Ciò suggerì al medesimo di espellere Pajetta dall’occupazione della Prefettura di Milano. Ciò suggerì allo stesso di raccomandare alla sua “parte” di evitare di dissotterrare le armi dell’Amiata per una farsesca eventuale “insurrezione” dopo l’attentato di Antonio Pallante.

Ciò che restò al di fuori delle decisioni politicamente significative e quindi disponibile ad una trattazione in spirito libero e animato perciò dalla tradizionale “cultura” nazionale, fu la Costituzione alla quale diedero il loro contributo “menti sottili” espressione delle tre incompatibili e configgenti ispirazioni politiche indicate. Tale lavoro di negoziazione della Carta Fondamentale si ridusse quindi a ricercare frasi che sarebbero restate interpretabili in modo equivoco in quanto formulate in modi accettabili dalle tre filosofie incompatibili che le avevano ispirate (cattolica, marxista, oligo-polista). Quella sterile e retorica Costituzione infatti formula nella sua prima parte una serie di banalità evidenti ad ogni creatura dotata di intelligenza mentre nella sua seconda parte (quella più operativa e efficace per ciò che concerne l’amministrazione degli interessi del Paese) essa elenca una serie di fatti politici che sono stati abbondantemente disattesi fino a oggi e che comunque hanno reso sterili i poteri dell’”esecutivo” spostando al “legislativo” e al “giurisdizionale” la possibilità di attuare qualsivoglia decisione politica. Questa sterilizzazione dell’esecutivo era coerente con l’impossibilità per i marxisti di occupare quel “potere istituzionale” (che quindi doveva essere isterilito) e per l’esigenza quindi di dover concordare extra-istituzionalmente ogni scelta politica prima di vararla formalmente in Parlamento (con un gioco di “facite ammuina” di voto contrario delle opposizioni - classico delle tradizioni italiote) e di attuarla sul piano esecutivo (con un altrettanto risibile farsesco gioco di “proteste di piazza” la cui legittimità restava ristretta a coloro che avevano contribuito a scrivere la Costituzione – il famigerato “arco costituzionale” e l’altrettanto famigerato “consociativismo” della Prima Repubblica).

Caduto il muro di Berlino risultò troppo tardi per i marxisti per ricorrere ad una loro nuova legittimazione in stile liberal-democratico (che sarebbe risultata una Bad Godesberg poco credibile) ma soprattutto risultò impossibile per le “menti sottili” più alte del movimento marxista per due motivi convergenti. Il primo è in linea con la “cultura politica” partigiana che anima la “platea” del teatro-farsa. L’elettorato marxista non ha digerito la sconfitta ricevuta sul piano storico sperando in un’improbabile “rivincita” in pieno stile calcistico ed ha proliferato una genia di nuovi partiti nominati “comunisti”, si può quindi immaginare la difficoltà dei leader politici “illuminati” a compiere un “salto del cavallo” sulla scacchiera politica nazionale senza subire una totale disfatta. Il secondo era costituito da una situazione nazionale che era stata avviata da Craxi in Italia partendo da una minoranza politica ma in pieno spirito liberal-democratico e nazionalista capace di aggregare  il consenso dei liberali moderati dai due schieramenti (il cattolico e il marxista) in modo credibile rispetto ai due poteri “consociativi” e a quello “oligo-polista” dei grandi gruppi industriali. Tre centri di azione politica che risultavano ormai incompatibili con le aspettative maturate dallo sviluppo economico e dal contesto dell’internazionalizzazione globalizzata. Dalle TV-libere all’innovazione dei servizi statali e di pubblica utilità fino all’inadeguatezza delle vecchie corporazioni ottocentesche (sindacati operai e industriali tra i principali) che costituivano parte del Paese Legale era ormai accertata l’estraneità agli occhi del Paese Reale che cresceva “non ostante” le difficoltà oppostegli dal primo.

Craxi, contro il suo essere un leader politico innovativo e capace, aveva un solo handicap personale, l’essere erede di un partito “liberale” ma asservitosi nel secondo dopoguerra alla filosofia del “blocco popolare” di cui era egemone il marxismo sconfitto dalla storia.

I due interlocutori alle cui spese Craxi avrebbe aumentato il consenso politico del suo nuovo partito liberal-socialista (catto-consociativi e marxisti) ostacolarono evidentemente le iniziative di Craxi che, per agire sulla scena del teatro politico interno, ricevette sostegno mediatico e finanziario dai nuovi industriali di successo che erano stati ostacolati a loro volta dai “poteri forti” affiliati ai tre centri dell’arco costituzionale. Non per caso il sostenitore di maggiore successo (non solo come finanziatore ma anche come spalla nelle azioni di contrasto ad atti speculativi avviati dagli oppositori politici – ricordiamo solo il tentativo di “svendere” la SME a De Benedetti da parte di Prodi Presidente dell’IRI) fu Silvio Berlusconi. Quel conflitto politico interno crebbe con costanti successi di Craxi finché, esasperati dalla tendenza in atto, i due suoi oppositori politici principali (catto-consociativi e marxisti) misero in atto forme di lotta indiretta mobilitando la persecuzione unidirezionale della magistratura contro i socialisti di Craxi.

Il dramma si era nuovamente tradotta in farsa nel momento in cui Craxi dichiarò in Parlamento in modo formale che “tutti i partiti” politici avevano abusato da sempre di canali illegali di finanziamento e che era disponibile a chiarirne la storia di fronte non alle aule di una “giustizia politica” e partigiana ma di fronte al Parlamento con un atto di responsabile chiarimento. Craxi era certo che tale iniziativa avrebbe dissuaso gli interlocutori più settari dal proseguire per non aprire gli archivi segreti dei finanziamenti (noti da sempre) dei servizi segreti USA ed URSS ai vari partiti della loro “parte” sin dal secondo dopoguerra.

Il teatrino finale per Craxi si svolse di fronte all’Hotel Raphael con una simulazione in chiave teatrale dei più tradizionali linciaggi politici. Venne costretto a fuggire all’estero sotto l’indecente e patetico lancio di monete da parte dei soliti fan della “curva Sud”. Morto Craxi, i due restanti interlocutori del consociativismo arco-costituzionalmente corretto furono certi del loro successo finale. La gioiosa macchina da guerra del leader di seconda mano Occhetto si apprestò a formalizzare l’indiretta presa di potere in Parlamento. Le sinistre DC (i catto-consociativi) stavano preparandosi al governo di unità nazionale già fallito anni prima per la morte di Aldo Moro, prima, e per quella di Enrico Berlinguer poi. A quel punto Berlusconi, animato da ragioni sia ideali che di interessi industriali, dopo avere inutilmente sollecitato molti leader di seconda mano della DC, decise di entrare direttamente nell’agone politico.

Che la linea politica di Craxi e Berlusconi fosse ormai popolare in Italia grazie allo sviluppo industriale che aveva reso ormai totalmente inadeguate le istituzioni del Paese Legale (tranne i carabinieri e la Chiesa di Roma) alla luce delle nuove sensibilità del Paese Reale fu chiarissimo con la prima inaspettata sconfitta della gioiosa macchina da guerra occhettiana. Gli sconfitti, in piena coerenza collo stile farsesco del teatrino della politica in Italia, cominciarono a “rosicare” scatenando le loro tifoserie di cui sono ancora piene le istituzioni italiane parassitarie che hanno quindi tutta la convenienza a “resistere, resistere, resistere” all’avvento del vento nuovo del Nord industriale e escluso dai privilegi finanziari a spese del contribuente di cui beneficiano invece le corporazioni statali e parastatali ottocentesche.

È evidente quindi che, spostatosi il gioco politico serio dal teatro drammatico di stile liberal-democratico in farsa para-sportiva della più tradizionale ispirazione partigiana nazionale, Berlusconi erede politico di Craxi, sia l’oggetto centrale della persecuzione giudiziario-consociativa nel tentativo di ripristinare tipi di governo unitario nazionale all’insegna del bene del Paese. L’ostacolo unico sul piano politico è Berlusconi che, una volta eliminato, non potrebbe essere sostituito da alcuno dei suoi leader di seconda mano che tra l’altro non sarebbero ispirati da finalità industrialmente solide e pragmatiche ma dovrebbero ricorrere a strategie ispirate da ideologie ormai abbondantemente squalificate presso la pubblica opinione e comunque da sempre saldamente nelle mani dei catto-consociativi e dei marxisti (entrambi inadeguati a gestire una moderna società industriale).

Quanto sopra spiega perché il recente attentato al Silvio Berlusconi possa trovare ampio plauso sia presso leader politici di seconda e terza mano (da Di Pietro alla Bindi), sia presso le loro orde di partigiani che si esprimono con i mezzi mediatici più moderni di Internet “linciando”, “plaudendo”, “incitando”, “rosicando” di fronte all’atto di un folle della “curva Sud” (folle come tutti i “partigiani” ma comunque sempre nella “curva Sud” anch’egli).

La farsa continua e il Paese Reale cresce costantemente grazie all’irreversibile consolidarsi della dimensione internazionale dell’economia industriale che è l’unica fonte di PIL nazionale (sia essa emersa delle aziende più competitive sia invece essa quella sommersa dell’evasione, del mercato nero, del contrabbando, dello spaccio di prodotti contraffatti o illegali – “it’s the economy … stupid!”). Questo è l’ammonimento che i nostri leader politici più dotati – ed attualmente emarginati - dovrebbero meditare per dare rapidamente mano a poche iniziative: 1) ripristino dell’immunità per le cariche politiche e istituzionali, 2) rinnovo di una Costituzione ormai obsoleta, 3) rinnovo dei regolamenti parlamentari, 4) rinnovo della legge elettorale in senso decisionista, 5) definizione della personalità giuridica di sindacati e partiti e delle attività di lobbying politico-industriale, 6) definizione delle responsabilità istituzionali individuali per i due poteri oggi ancora esclusi dalle carte costituzionali – stampa e ricerca pura, 7) piena privatizzazione di tutto ciò che è possibile dei servizi di interesse pubblico (da Poste, a Ferrovie, a aereoporti, a utilities, a energia, a smaltimento scorie urbane/industriali/tossiche, a scuola, a ricerca.

La farsa ritornerebbe ad essere dramma teatrale nell’alveo delle istituzioni e l’Italia potrebbe sperimentare per la prima volta in vita sua di una politica moderna.