14/02/2009

1. Crisi mistificata

ciò che rende il dibattito corrente assolutamente inadeguato a comprendere la realtà è la carente contestualizzazione della ‘crisi’ stessa. Ciò che è in corso è un riassetto fisiologico del sistema industriale dalla sua base precedente che poggiava sui mercati nazionali a quella successiva che tiene conto di un unico mercato globale. Si tratta di un fisiologico processo di crescita dell’economia industriale che è stato ormai innescato in modo irreversibile e che, affinché il sistema possa sviluppare appieno il suo potenziale di maggiore redditività produttiva e partecipazione distributiva, richiede che le procedure della vecchia ‘governance’ siano sostituite da altre più adeguate a soddisfare le esigenze della economia globale e che possano ricevere legittimità e consenso politico al di là delle ristrette visioni degli Stati Nazione.

La ‘crisi’ quindi di cui si parla si compone di almeno tre distinti aspetti: uno finanziario, un secondo industriale e il terzo strettamente politico.

Il primo contesto cui fa riferimento la ‘crisi’ è quello che concerne il comparto d’industria finanziario che, dopo avere implementato l’avvio irreversibile della internazionalizzazione dell’economia industriale, richiede che la nuova stabilità monetaria venga definita tramite nuove procedure di controlli finanziari soprannazionali libere dai vincoli ideologici peculiari di tutte le dottrine che hanno legittimato il ruolo dei vecchi Stati Nazione per assicurare tutela al proprio mercato interno nel corso delle varie fasi di crescita dell’economia industriale dalla fase a prevalenza rurale ed estrattiva attuale nel Sud a quella paleo-industriale a quella di sviluppo dell’industria-pesante fino a quella a struttura prevalentemente terziarizzata attuale nel Nord. Si tratta di una ‘crisi’ che non può essere gestita dalle vecchie procedure istituzionali nazionali e che infatti viene definita in ambiti che in genere svolgevano ruoli di ‘lobbying’ presso le vecchie istituzioni quando esse erano ancora capaci di esercitare azioni efficaci. Le banche d’affari che hanno sviluppato i nuovi prodotti di raccolta del risparmio e di finanziamento dei programmi di delocalizzazione delle produzioni da Nord al Sud impongono ora alle vecchie istituzioni politiche degli Stati Nazione di accettare questa situazione di fatto e di adeguare le procedure della ‘governance globale’ cedendo porzioni della vecchia egemonia ed accettando nuovi ruoli ‘locali’, ‘regionali’ o globali a misura della credibilità posseduta dai propri sistemi produttivi nazionali nel nuovo contesto industriale globale. È un processo naturale se si vuole impedire che la massa di risorse finanziarie circolante sul mercato globale venga incanalata nell’ambito di regole atte a massimizzare il ritorno sull’investimento e minimizzare le molte nuove forme di ‘rischio locale’ che incombono sui programmi di investimento industriale ormai avviati. È naturale e fisiologico quindi sia il processo di revisione delle procedure sia quello, molto scomodo, che esso impone alla parallela revisione delle procedure delle istituzioni politiche ancora formalmente in auge.

Il secondo contesto cui fa riferimento la ‘crisi’ è quello che concerne i comparti d’industria produttivi e distributivi dei beni e servizi di diffuso interesse per il mercato. Si tratta dei settori rurali, manifatturieri, commerciali, dei servizi di pubblica utilità e del credito al consumo. Questi comparti produttivi sono già stati coinvolti in modo massiccio e graduale dalle conseguenze della globalizzazione industriale e stanno rivedendo le proprie strutture e processi produttivi tramite la ‘crisi’ dei vecchi e la ‘sostituzione’ con altri più adeguati. La ‘crisi’ che stanno attraversando le istituzioni finanziarie e quelle politiche ad esse connesse potrebbe travasarsi su questo secondo contesto dei mercati nazionali solamente se quelle non riuscissero a istituire nuove efficaci procedure di ‘governance’ delle masse finanziarie internazionali in tempi utili a prevenirne incontrollabili e ‘spontanee’ fughe dettate da forme emotive della speculazione. Si può dire che questo contesto sta attraversando una ‘crisi fisiologica’ cui siamo abituati già da anni e che quindi non è in ‘crisi’. Esso costituisce solo il livello che è soggetto alla ‘minaccia di crisi’ che il primo contesto potrebbe travasare se le istituzioni politiche nazionali non riuscissero a concordare le nuove procedure della ‘governance’ rivedendo ed assumendo i conseguenti ruoli ‘locali’ nel contesto della produzione globalizzata.

Il terzo contesto cui fa riferimento la ‘crisi’ è quello più strettamente riferito alle istituzioni politiche. Si tratta di una vera e propria ‘crisi’ che è imposta ai protagonisti di quel mondo istituzionale dall’ormai consolidato mercato globale. Le risorse vengono ormai prodotte da processi industriali che condividono una logica di divisione del lavoro capace di ottimizzare la redditività e la produttività globale. Ciò rende i produttori di ricchezza nazionali sempre meno sensibili alle esigenze di ‘conservazione’ della stabilità dei vecchi sistemi politici nazionali. D’altronde le sacche industriali meno competitive e quelle clientelari e parassitarie riescono ad esercitare efficaci azioni di lobby legislativa che hanno il risultato di rallentare il processo di revisione delle procedure della ‘governance’ dalle vecchie nazionali a quelle internazionali che richiedono i primi due contesti seppure con diversi gradi di urgenza e di rischio di destabilizzazione.

2. Fine di un’epoca sconclusionata

la globalizzazione con la sua raggiunta egemonia globale ha posto fine al periodo culturalmente più sconclusionato del secolo scorso: il ‘sessantotto’.

È stata un’epoca di totale smarrimento di ogni buon senso e collegamento con le radici culturali della civiltà ‘Occidentale’. Un’epoca durata un’intera generazione che ha vissuto modi diversi di inserimento nel contesto nazionale a seconda dei Paesi in cui si è manifestata.

In Italia in particolare la generazione del ’68 è stata agevolata ad inserirsi stabilmente nelle istituzioni da parte di una generazione di intellettuali formatisi nel ventennio fascista che avevano ereditato un Paese di recente industrializzazione in un contesto internazionale in cui le scelte politiche potevano solamente essere subite. Quella era una generazione di intellettuali altamente selezionati nel corso di una delle più moderne e qualificate formazioni superiori inaugurata dalla riforma Gentile. Si trattava di intellettuali di alto livello che abbracciarono due opposte visioni politiche entrambe gestite da centri decisionali non italiani: la Chiesa Cattolica e la Chiesa Comunista.

Quella generazione di intellettuali poté esprimersi con l’unico grado di libertà nazionale di scrivere la Costituzione Repubblicana. Questa Carta fondamentale infatti è stata frutto di una lunga negoziazione di linguaggio in cui esprimere concetti condivisibili da entrambe le ‘chiese’ ma interpretabili da ognuna di esse secondo i valori opposti che le ispiravano. Un’opera assolutamente superba in quanto al testo e ai principi retorici indicati ma totalmente sterile per ciò che concerne la sua applicazione pratica.

In ambito industriale quella generazione di intellettuali ebbe analoghi vincoli decisionali dal contesto in cui cercò di inaugurare la sperimentazione delle proprie capacità. Gli unici gruppi industriali che ebbero la possibilità di svilupparsi con una certa autonomia furono quelli ‘capital intensive’ (chimica, energia, comunicazioni). In quei comparti gli industriali migliori dovettero internazionalizzare i propri interessi oppure inventare una propria struttura di relazioni estere che potesse essere libera dai vincoli politici del governo nazionale e che potesse acquistare il sostegno del legislativo nazionale. Pirelli e ENI sono due dei casi di studio tipici di questi gruppi industriali.

I gruppi industriali più ‘man-power intensive’ furono invece costretti a subire il peso degli stessi vincoli ideologici che pesavano sulla gestione delle istituzioni politiche nazionali. I sindacati operai erano infatti di fiancheggiamento alle due filosofie politiche che avevano scritto la Costituzione Repubblicana con due ispirazioni opposte ma entrambe autonome dall’unica ispirazione non ideologica e liberale compatibile con la competitività produttiva sul libero mercato internazionale.

Sia la dottrina sociale della Chiesa Cattolica che quella comunista ostacolano decisioni industriali che si ispirano alle esigenze di redditività e produttività dei fattori produttivi che organizzano la divisione del lavoro dei processi industriali in reciproca competizione tecnologica. Entrambe le ‘chiese’ pretendono di inserire nei programmi della produzione industriale elementi sociali che, estranei ai puri fatti tecnici, costituiscono oneri aggiuntivi rispetto a soluzioni più ‘materiali’ e lineari risultando in una minore competitività dei prodotti offerti sui mercati internazionali.

Anche gli intellettuali responsabili dei gruppi industriali ‘man-power intensive’ di cui la Fiat è emblema dovettero quindi adeguare le proprie scelte industriali ai vincoli politici interni al Paese. La convergenza generale della generazione intellettuale più qualificata disponibile nel Paese alla fine degli Stati Nazione condusse inevitabilmente a stabilire una sorta di regime illiberale a misura del regime fascista con la sola sostituzione di due gruppi di partiti politici a quello unico precedente ma in continuità con i metodi decisionali dello Stato Fascista. Il consociativismo fu l’obiettivo costante della politica che gradualmente maturò nel corso dello sviluppo industriale pianificato in stretta armonia tra sindacati operai, gruppi industriali egemoni e parlamento. Ciò richiese l’esecutivo debole come quello definito dalla Costituzione e tutti gli istituti di Stato per l’erogazione dei servizi dello stato sociale in piena continuità con lo stato fascista. Ciò richiese altresì un sistema mediatico organico con il sistema decisionale illiberale anche esso in piena continuità con la filosofia fascista.

Questo processo consentì dapprima una certa crescita di benessere economico data l’arretratezza del Paese che sperimentò tassi di aumento del reddito pro-capite forse minori di quelli sperimentabili in ipotesi di regime pienamente liberale ma tuttavia assolutamente superiori a quanto mai era stato possibile fino allora. Man mano che il contesto internazionale costrinse il Paese ad allinearsi alla realtà estera i tassi di minore competitività industriale sui mercati risultarono sempre più manifesti fino a costringere molti gruppi industriali a trasferire le proprie sedi produttive altrove. Le imprese di più ridotte dimensioni furono costrette a ricercare una costante innovazione industriale per assorbire le diseconomie dei gruppi maggiori di cui costituivano l’indotto produttivo oppure a ricercare nicchie di produzione che assicurassero loro un’egemonia di specialisti sui mercati internazionali.

Questo modello di sviluppo industriale riuscì a garantire all’interno una apparente ‘pace sociale’. Apparente in quanto fondata su negoziazione di reciproche richieste entrambe ispirate tuttavia da aspirazioni strategiche incompatibili.

Le menti sottili che avevano concepito questo sistema illiberale para-fascista di sviluppo pianificato del reddito nazionale dovettero agire secondo procedure istituzionali formalmente rispettose della liberal-democrazia ma in realtà tarpate da modalità illiberali che consentissero loro di rispettare accordi presi in sedi extra-istituzionali. Questo modo di procedere costrinse le menti sottili formatesi nel sistema scolare di Gentile di circondarsi di nuovi intellettuali che non minacciassero la loro egemonia decisionale. Il modo migliore fu quello di cooptare nelle sedi decisionali i pochi professionisti capaci di garantire la attuazione pedissequa delle decisioni e di inserire nelle istituzioni statali e para-statali professionisti di seconda qualità che non fossero in grado di concepire alternative o ostacoli operativi e che potessero aderire a richieste esecutive anche le meno legittime. Ciò avvenne squalificando il sistema educativo ma aprendone le porte alla generalità delle nuove generazioni. Gradualmente maturò la ‘generazione sconclusionata’ dei sessantottini attualmente in carica nelle posizioni formali del Paese.

I nuovi professionisti di formazione assolutamente inadeguata a gestire le strutture industriali e di governo del Paese popolarono quasi tutte le professioni liberali. I meno attrezzati intellettualmente e i più ambiziosi politicamente vennero inseriti massicciamente nell’ambito dei media. L’adesione generale dei nuovi responsabili della comunicazione sociale a questo sistema scadente li rese disponibili a ruoli ‘organici’ alle esigenze di propaganda dei due poli di partiti para-post-fascisti. Il sistema produsse consenso sociale tramite diffusione di ‘veline’ e di esclusione dai centri di diffusione dei pochi maverick che nascono sempre in ogni regime anche il meno liberale.

La carriera dei giornalisti venne compensata a spese della qualità e della produttività del sistema e la ridondanza di giornalisti rispetto alle esigenze effettive della comunicazione sociale venne compensata arricchendo i quadri politici dei partiti e quelli amministrativi dello stato (comuni, provincie, regioni, comunità montane, enti morali, etc.). Questa inflazione di personale scadente in politica e nello stato appesantì ulteriormente la competitività produttiva del Paese sui mercati esteri ma garantì alle menti sottili una corte di intellettuali omologati alle decisioni di vertice e un complesso di lobbying politica a sostegno della conservazione del sistema.

I costi e l’improduttività del sistema illiberale condussero alla nascita di un doppio mercato interno. L’economia legale che aderiva alla struttura dei costi e delle provvidenze di legge e l’economia reale che costituì una sorta di mercato nero capace di produrre fino al 50% del prodotto nazionale lordo.

Una volta crollato il muro di Berlino, venute meno le ragioni di consociativismo tra due filosofie incompatibili con le esigenze industriali di libero mercato, sono emerse rapidamente sia l’assoluta irrilevanza della Costituzione Repubblicana sia delle istituzioni formali ancora egemoni in politica (dai partiti, ai sindacati, ai media).

L’avvento sempre più imponente della globalizzazione industriale e l’abbattimento formale dei confini nazionali ha reso ancora più apparente l’assoluta insignificanza delle istituzioni pubbliche nazionali rispetto alle aspettative economiche del Paese. Solamente la bassissima ‘mobilità’ professionale rende ancora tollerabile il ruolo di scambio clientelare tra l’economia ‘locale’ e le istituzioni capaci di gestire le scelte politiche di uno stato parassitario.

Siamo finalmente giunti alle soglie della estromissione dalla storia della generazione sconclusionata dei sessantottini dalla vita attiva del Paese produttivo.