13/10/2009

Sostituire il dollaro USA

Nel tentativo di inserirsi con qualche speranza di ruolo vantaggioso nella negoziazione del Nuovo Ordine Globale che è in corso di definizione per stabilire istituzioni e procedure condivise di una governance del sistema industriale globalizzato, molti dei vecchi Stati Nazione che in epoca precedente ricoprivano ruoli di protagonismo sullo scenario geo-politico cercano di trovare un’alternativa alla gerarchia dei centri in cui si sta sviluppando da tempo la negoziazione dei nuovi interessi politici internazionali. Si tratta di sedi in cui si svolgono incontri in una gerarchia di importanza che riconosce i ruoli gerarchici di peso decrescente dei vari interlocutori politici coinvolti nell’avvenuta globalizzazione industriale; G2 in testa, poi a-scendere G8, G20.

Questa gerarchia non si è ancora consolidata in istituzioni e soprattutto nelle procedure che verranno loro assegnate per gestire la governance a-misura di quanto negoziato dai molti partner in campo. La gerarchia fa riferimento pragmaticamente al volume degli interessi in campo e quindi misurabile tramite i parametri classici del Prodotto Nazionale Lordo dei vari interlocutori e delle loro mutue esposizioni di crediti e debiti e dimensione dei flussi commerciali e finanziari che essi alimentano. Cina (India) e USA sono i primari sistemi industriali che hanno innescato, finanziato e sostenuto l’espansione industriale su base globale che, a sua volta, ha destabilizzato la vecchia governance dell’era degli Stati Nazione (banche centrali, accordi monetari, accordi commerciali, finanziamenti internazionali). Le vecchie istituzioni (ONU, FMI, BMI, NATO, WTO) si potranno conservare ma i loro compiti dovranno essere riappresi in funzione delle decisioni concordate dai partner coinvolti nelle indicate sedi gerarchiche. Influire su quella gerarchia è possibile e necessario per poter definire ruoli nazionali più convenienti nello scenario politico della governance globalizzata.

Questa legittima ricerca di alternative più convenienti di quella che si è venuta delineando finora trova dei vincoli oggettivi imposti dal contesto degli interessi economico-industriali in corso di sviluppo. Interessi che assicurano la certezza e credibilità di remunerazione delle risorse già investite nella fase di alimentazione del processo di internazionalizzazione dell’economia industriale. Le ideologie sono pressoché assenti dai possibili giochi negoziali alternativi. Perfino l’appartenenza a istituzioni di grande solidità come la NATO sembra che possa offrire vantaggi solo in funzione dell’adesione preliminare alle scelte definite da USA, Cina e India in modo da tutelare i loro interessi globali nello scenario futuro che coinvolge nuovi equilibri in Asia centrale, Africa e America Latina.

Quegli interessi si compongono non solo di volumi finanziari già coinvolti dalla globalizzazione maturata fino ad oggi; a essi si affiancano soprattutto gli interessi finanziari che i principali gruppi industriali multi-nazionali prospettano di poter maturare in volumi, tempi e rischi. Questi fattori sono molto più influenti di quelli già misurabili a seguito delle decisioni industriali che hanno scatenato la globalizzazione finora. Sono più influenti in quanto più consistenti dei primi ma soprattutto sono più influenti in quanto più adeguati a definire gli interessi strategici sulla base di pragmatiche considerazioni tecnologico-industriali rispetto alle altre di carattere ideologico-intellettuali su cui si fondano le decisioni politiche “interne” agli Stati Nazione. Le “multinazionali” sono insomma lo strumento che ha creato la globalizzazione, che sta imponendo agli Stati di adeguarvi le istituzioni e le procedure della governance futura e, infine, che risultano globalmente accettabili proprio in grazie dei criteri puramente di convenienza delle loro strategie alla luce della redditività degli investimenti e della divisione del lavoro in funzione della massima produttività delle risorse impegnate nell’implementazione delle strategie stesse. Redditività e produttività che sono i soli fattori capaci di definire credibili programmazioni di investimenti industriali la cui struttura può essere quindi definita solo tramite il migliore impiego delle tecnologie disponibili a fronte del credibile livello di abilità professionali disponibili nei Paesi coinvolti e nel contesto di efficienza dei servizi che lo Stato può credibilmente erogare negli stessi.

In definitiva le decisioni vengono prese sulla base dei volumi delle risorse già impegnate, sull’aspettativa della loro remunerazione ma, soprattutto, sul potenziale di crescita futura dell’economia connesso con il consolidarsi della prima fase (considerata “esplorativa”) del nuovo contesto industriale apertosi ai futuri investimenti. Questo potenziale di sviluppo dell’economia industriale globale prende in considerazione fatti pragmatici alternativi tra i quali figurano la velocità in cui le prospettive si potranno tradurre in realtà e il rischio connesso dalla stabilità politica nel cui contesto dovranno prodursi gli investimenti industriali nel futuro. Si tratta del “rischio Paese” e della stabilità della governance che emergerà dalle negoziazioni. Gli appetiti di partecipazione al futuro banchetto sono nutriti da tutti gli attuali interlocutori ma la loro avidità di appropriarsi delle fette più succulente deve rispettare il livello di rischio che potrebbe minacciare le forme più smodate di avidità. Tutte queste considerazioni sono connesse ai gruppi multinazionali che hanno dato l’abbrivio alla globalizzazione. Quei gruppi multinazionali hanno una chiara percezione sulla efficienza dei vari sistemi istituzionali dei Paesi alla ricerca di nuovi ruoli da protagonisti. Sembra improbabile che USA e Cina possano rinunciare alle loro posizioni di comprimari nella definizione e nella imposizione delle decisioni agli interlocutori anche i più determinati perché ciò significherebbe comunque un rallentamento dei processi di consolidamento della governance. Ogni rallentamento non riceverebbe compensazioni dall’apporto di risorse maggiori dai partner eventualmente accolti nella primaria fase di negoziazione. Quei Paesi infatti si trovano già coinvolti dal debito in dollari impegnato negli investimenti industriali già operanti mentre non offrono mercati aggiuntivi di consumi significativi rispetto a quello asiatico. I produttori di commodities industriali (energia, materie prime, beni rifugio) d’altronde dipendono in toto dalla velocità in cui le loro risorse potranno essere impiegate nell’alimentare la crescita industriale globale. Anche se gli appetiti dei fornitori di commodities e quelli dei marginali e vecchi Stati Nazione volessero coalizzarsi per imporre al G2 una loro partecipazione primaria, la via dovrebbe essere quella della sostituzione del dollaro con una nuova valuta internazionale. Ciò risulta wishful thinking alla luce di almeno quattro fattori:

  1. l’eccessiva lentezza con cui quella “coalizione” di Paesi potrebbe definire le procedure di sostegno e sostituzione della nuova valuta al dollaro USA (perdita di tempo che è ritardo di ritorni finanziari che sono invece di immediata crescita e continuità se si conservasse il dollaro);
  2. l’assoluta disparità tra i sistemi istituzionali e politici che dovrebbero garantire alla nuova valuta una comparabile credibilità rispetto al dollaro USA (dai regimi politici ai sistemi istituzionali e alle lingue in cui si dovrebbero consolidare nuove procedure di governance monetaria e giurisdizionale);
  3. la perdita di valore delle riserve di quei Paesi (che oggi sono essenzialmente in dollari USA) prima che la nuova valuta riesca a costituire una credibile alternativa sui mercati globali (un danno che è passibile di creare problemi di diversissima dimensione in Cina, in India, nei Paesi islamici o America Latina);
  4. la assoluta disparità dei sistemi industriali che si confronterebbero (USA e resto degli “emergenti”) in termini non tanto e non solo di produttività ma soprattutto di reattività e capacità di adattarsi al cambiamento del contesto produttivo internazionale (gli USA risulterebbero molto più attraenti per gli investimenti in innovazione tecnologica che comunque risulterebbe essere la risorsa primaria per alimentare la redditività e il ritorno sugli investimenti anche nel blocco dei dissidenti).

L’unica alternativa praticabile a questa soluzione di sostituzione del dollaro in approccio anti predominio USA nella definizione della nuova governance dovrebbe discendere da una perdita della maggiore reattività e adattabilità del sistema industriale USA al cambiamento, questo è un obiettivo che, di per sé, chiederebbe di sostituire il sistema istituzionale liberal-democratico USA con un più handicappato sistema di welfare state social-democratico. Una volta appesantito dalla concezione del welfare state dei vecchi Stati Nazione, gli USA perderebbero non solo la loro leadership in termini di produttività e di capacità innovativa, ma anche in termini politico-istituzionali; il “sogno americano” verrebbe meno e anche gli USA rientrerebbero nella norma dei vecchi Stati Nazione.

Questo passo preliminare alla perdita di vantaggio industriale del sistema USA mi sembra essere altrettanto wishful thinking del precedente. Chiunque volesse “convertire” il sistema industriale USA dovrebbe farlo manu militari per l’impoverimento immediato e di lungo termine cui dovrebbe sottoporre la popolazione e per l’elevata probabilità che tale tentativo “illuminato” dall’alto solleciterebbe un ripetersi di tirannicidio in un Paese in cui quel mestiere non è alieno alla cultura anarco-liberale vigente sin dal 1776.