13/01/2011

Progresso civile e ‘progressisti’ reazionari

La scienza economica progredisce come ogni altro comparto delle conoscenze sulla base di riscontri sul campo di inadeguatezza delle vecchie teorie. Questo progresso è sollecitato dall’osservazione sperimentale di successi e fallimenti delle forbite ma costantemente inadeguate costruzioni intellettuali che l’’accademia’ ha sempre concepito come descrizione dei reali comportamenti umani alla ricerca di soddisfare bisogni sempre più numerosi e sofisticati.

I ‘progressisti’ invece aborrono ogni offesa che la realtà del mercato arreca ai loro modelli ideali dando così dimostrazione della loro inadeguatezza; una realtà ‘imperfetta’ che, per la sua perversità, non vuole aderire a paradigmi ideali ispirati da valori etici e comportamenti politicamente corretti. Ogni devianza diviene un ‘peccato’ che aggrava il reato di semplice infrazione alla legge.

Ciò che è avvenuto in materia di scienze umane dopo la macchinosa teoria di Marx denominata ‘socialismo scientifico’, è stata una successione di eventi che hanno contraddetto sul campo le previsioni di quella teoria mentre la nascita di scienze totalmente nuove (psicologia, quantistica, relatività, termodinamica dei processi irreversibili) o teorie matematiche rivoluzionarie (teoria dell’informazione, teoria del caos, teoria dei campi, teoria dei sistemi, teoria delle criticità auto-organizzate).

L’apporto di queste conoscenze ha condotto gli economisti a riflettere meglio sulla complessità che anima i sistemi sociali ai loro diversi livelli gerarchici di autonomia e di reciproco e instabile equilibrio dinamico.

La scienza economica ha visto integrare considerazioni psico-sociologiche alle vecchie, troppo semplicistiche considerazioni ottocentesche fondate sulla ‘razionalità’ dei comportamenti individuali ed aggregati e sulle aspettative e motivazioni che animano gli individui ad impegnare le proprie risorse psico-fisiche per mirare a compensi di diverso tipo di gratificazione. Come illustrato dall’accelerata evoluzione dall’applicazione della psicologia alla sfera delle micro- e macro-organizzazioni socio-economiche; terapia individuale e di gruppo, consulenza familiare, consulenza aziendale, formazione manageriale, comunicazioni sociali, propaganda e pubblicità, etc..

Le scienze economiche hanno accorpato in misura crescente considerazioni che ne hanno ridimensionato gli obiettivi e il ruolo socio-politico; dall’originaria organizzazione scientifica del lavoro, alla qualità totale, dai fini di programmazione del reddito industriale a quelli di socializzare l’azienda come istituzione-chiave della società, dalla gestione delle risorse umane sulla base d’un’assegnazione ottimale tra ruoli e profili individuali al ruolo del manager come promotore di motivazione e creatività del gruppo a sua disposizione.

Esempi eminenti (spesso soppressi dall’insegnamento accademico per ragioni di integralismo politico) delle nuove, fertili teorie economiche (tutte di stampo liberista) sorte tra la fine del 1800 ed oggi possiamo citare; Vilfredo Pareto coi suoi apporti sociologici alla concretezza della teoria neo-classica marginalista, Frederick W. Taylor con la sua teoria di gestione scientifica dell’azienda, Henry Ford coi suoi apporti tecnologici alla crescita della produttività aziendale e con gli apporti salariali a stimolo della crescita economica, Thomas J. Watson con la sua attenzione nei confronti della motivazione del personale alle relazioni coi clienti, John M. Keynes con la sua critica all’imperfezione del mercato e indicazione del ruolo dello stato come complemento al suo corretto funzionamento, Silvio Gesell ed Ezra W. Pound con la loro teoria della socializzazione ed autarchia come terza via a superamento del conflitto tra economia e finanza e tra collettivismo e liberismo per programmare lo sviluppo libero da sfruttamento e conflitti sociali, Herbert Simon e Daniel Kahneman con la teoria della psico-economia, Per Bak col la sua teoria dei sistemi complessi a criticità auto-regolata della teoria dei sistemi termodinamici complessi quasi-stabili e auto-regolarizzati, Ronald H. Coase con la sua teoria della azienda come istituzione caratterizzata dal suo apporto di risparmio alle transazioni richieste dalla società nella sua globalità risparmio misurato di continuo grazie alla oggettiva misurazione delle alternative sul mercato in cui le transazioni si compongono e vengono scambiate.

Tutte le innovazioni della scienza economica, ivi inclusi i progressi più ‘tecnici’ (econometrici) e meno ‘concettuali’ (psico-economia) hanno gradualmente confermato l’impossibilità di consolidare previsioni di tipo ‘prescrittivo’ che possano garantire la ‘programmazione’ della crescita economica. Ciò esclude quindi la possibilità di una gestione statale dell’economia industriale.

L’unica alternativa residua offerta allo stato è tra il restare estraneo alle scelte assunte dalle istituzioni di livello gerarchico inferiore (individui, famiglie, aziende, associazioni, etc.) ed adeguare i servizi delle proprie istituzioni ai compiti residuali permessi dall’eventuale maggiore economicità dei residuali servizi collettivi rispetto ad analoghi servizi svolti da istituzioni private, oppure imporre il proprio ruolo gerarchicamente preposto a prevenire e risolvere tutti i conflitti generati dal mercato che nella realtà non è mai pienamente ‘libero’. Questo è il ruolo ipotizzato dalla ‘terza via’ per lo stato corporativo che elimina tutti i conflitti del diritto privato imponendo l’egemonia gerarchicamente preordinata del diritto pubblico. Ogni istituzione, ad ogni livello gerarchico, è ritenuta portatrice di due aspetti; uno privato che si riferisce alle relazioni private dei contratti tra i soggetti che le contraggono in piena libera responsabilità, l’altro pubblico che si riferisce alle inevitabili ripercussioni che quei contratti privati riverberano sulla società più vasta che viene così addebitata di conseguenze spesso indesiderate. L’azienda quindi è vista come la prima istituzione di interesse pubblico. In essa i soggetti privati assumono prioritariamente i loro accordi contrattuali che mirano a generare maggiori livelli di produttività, di redditività e di remunerazione dei fattori impiegati in pieno paradigma di capitalismo-liberista. Una volta che i soggetti privati abbiano definito le loro libere scelte, le istituzioni di livello gerarchicamente preposto (gerarchia dei servizi) devono farsi garanti della rimozione dei conflitti potenzialmente conseguenti. Lo stato corporativo ha quindi, in fase posteriore, ogni legittimità di intervenire per definire il nuovo sistema di regole che assicurino l’applicazione priva di conflitti delle nuove decisioni private. Un paradigma industriale di questo tipo è tendenzialmente ‘paternalista’ sul capitalismo-liberista che esso si propone di liberare dai conflitti ‘potenziali’. Lo stato corporativo rischia di scadere in forme illiberali e autoritarie che sfocerebbero nella soppressione del (pur imperfetto) libero mercato nel laissez faire. Qualora non scada nell’autoritarismo esso comunque impone ai liberi accordi regole esogene che inevitabilmente rallentano o inibiscono il raggiungimento dei livelli di produttività aziendale auspicati.

Questa maggiore lentezza e minori prestazioni aziendali si ripercuotono sulla minore competitività del sistema stato-industria corporativo rispetto alla loro alternativa di libero laissez faire (pur inquinato dai costi di rientro dai possibili conflitti generati). Ne discende quindi che la praticabilità di un’economia industriale liberista è possibile qualora le istituzioni dello stato possano legittimamente esercitare il loro ruolo di governance su tutte le istituzioni private attive nel territorio sotto il suo controllo. Ciò è possibile solo in due casi; piena sovranità degli Stati Nazione, oppure piena unitarietà del mercato industriale sotto istituzioni soprannazionali.

Il primo caso è tramontato con il crollo del muro di Berlino, il secondo caso sta ancora consolidandosi con la globalizzazione industriale.

Mentre la governance degli Stati Nazione ha ormai crescenti inefficacia e illegittimità e rende impossibile il ripristino di forme di corporativismo e socializzazione all’interno dei singoli sistemi nazionali, la governance soprannazionale non ha ancora definito le sue istituzioni politiche e ha potuto avviare quindi solo sporadici tentativi di consolidare istituzioni corporative e di socializzazione a livelli aziendali come nel caso Chrysler-Fiat. Se le proposte di Marchionne si estenderanno ad altre aziende in altri paesi industriali, ne emergeranno regole di vigenza soprannazionale sulla cui base le istituzioni di ordine gerarchico superiore definiranno i loro ruoli. Potrebbe nascere una governance globale di stile corporativo a sostegno di un sistema industriale di capitalismo-liberista orientato alla socializzazione in vece che al laissez faire. Un sistema industria-stato le cui dinamiche risulterebbero più lente e le cui prestazioni risulterebbero meno efficienti di quelle di un sistema pienamente liberista ma la cui competitività non sarebbe confrontabile per la mancanza della controparte.

Il risultato dei recenti progressi evidenziati dalla storia della scienza e della prassi economica è che mentre il sistema fondato sulla ‘programmazione industriale’ è impossibile sul piano teorico e fallimentare su quello pratico, il sistema fondato sullo stato corporativo è stato sconfitto sul piano pratico da quello del laissez faire per le sue maggiori prestazioni e reattività omeostatiche dimostrate nel riassorbimento dei conflitti.

Gli stati corporativi hanno mostrato eccellenti prestazioni industriali e dinamiche di sviluppo che hanno potuto consolidare erigendo barriere protettive contro le economie più liberiste; cioè con l’’autarchia’.

Nel contesto geo-politico degli Stati Nazione si sono sviluppati e consolidati sistemi industriali autarchici in Italia, in Germania, in Argentina, in Spagna, etc.. Difendere oggi in piena era di globalizzazione industriale lo Stato Nazione invece di accogliere la sfida della governance fondata sulla revisione delle istituzioni in chiave di ‘federalismo’ dimostra un atteggiamento fondato sulla visione miope della realtà geopolitica e su un tentativo reazionario di conservare la struttura corporativa ed i privilegi politico-istituzionali dello Stato Nazionale ‘contro’ i cambiamenti imposti dalla graduale perdita di competitività del sistema stato-industria fondato su un mondo in via di estinzione; bene o male che ciò possa essere ritenuto da ciascuno.

È per queste ragioni che la celebrazione in corso in Italia del centocinquantennale dello Stato Unitario rischia di ricevere una traumatica valenza politica al di la di quella condivisibile di pura memoria storica.

Quando si aprono le celebrazioni dei centocinquantanni in Emilia citando due icone della ‘resistenza’ invece della condivisa genesi del ‘tricolore cisalpino’ (pur esso di radici liberal-radicali elitarie ma mai condivise in un paese a forte componente ‘vandeana’) si crea un riferimento sempre rovente e divisivo alla costituzione di un paese ‘cobelligerante’ legittimato dalla sua vittoria partigiana contro il fascismo ‘male assoluto’. Una interpretazione che, oltre a non essere creduta neanche dai suoi sacerdoti, non è condivisa dalla opinione pubblica. Questa associazione di una commemorazione puramente storica (e perciò stesso memoria di una serie di periodi tutti storicamente efficaci per l’attuale realtà politica anche se singolarmente non siano stati mai condivisi dalla maggioranza della popolazione - democraticamente) a uno dei più contestati ed oscuri episodi della storia nazionale non giova a rianimare lo spirito ‘nazionale’ (sempre vivo da secoli ben prima della fondazione storica dello Stato Nazionale e unitario) ma anzi interviene con tutto il peso autorevole dei protagonisti a sottolineare la vuotezza politica del centocinquantennale in via di celebrazione. Celebrare oggi i fasti storici della dinastia sabauda nel contesto della storia italiana dal crollo di Roma non offenderebbe la sensibilità politica di nessun italiano. Come nessuno si sentirebbe offeso dalla celebrazione storica di Roma come fondamento della storia italiana; né ciò verrebbe confutato. Analogamente celebrare storicamente le singole dinastie che hanno arricchito e costruito ciò che il mondo riconosce come Italia (ben prima che lo Stato Nazione fosse fondato in epoca tardiva e con episodi storici spesso non condivisi e contestati sul piano politico) dai Medici, agli Este, ai Borboni di Napoli e Sicilia, a Genova e a Venezia dei Dogi perfino alla Chiesa di Roma, pur contestati e criticabili sul piano politico attuale sarebbe un programma di memoria storica di vasta condivisione e fertile di un sommerso orgoglio ‘nazionale’ al di la della partigiana proposta di legare la celebrazione dei centocinquantanni alla più recente, drammatica frattura di unità politica che dalla guerra civile si è protratta fino ad oggi con episodi di terrorismo ideologico di cui le morti di Giugni e lo stesso ‘caso Battisti’ sono emblemi.

Ammonire il processo di revisione in chiave federalista di una costituzione mai pienamente condivisa (l’arco costituzionale ne fu l’emblema più illiberale) né pienamente applicata o rispettata per oltre sessantanni dei centocinquanta che vorrebbe celebrare il centocinquantennale, sembra un’iniziativa politica miope che aiuta a ‘dividere’ la nazione italiana tra i ‘conservatori’ di un regime ormai fallito e storicamente inadeguato alla nuova realtà geopolitica e i patrocinatori di una rilettura radicale (già presente in epoca risorgimentale) delle istituzioni come ‘federazione’ di realtà produttive e culturali ‘locali’ aggregate in realtà gerarchiche superiori che abbattano i confini geopolitici degli Stati Nazione ottocenteschi. Le aggregazioni culturali ed economiche ormai legittimate da accordi politici internazionali legittimano regioni soprannazionali che stanno nei fatti ormai consolidandosi ‘contro’ i vincoli corporativi delle istituzioni obsolete degli stessi Stati Nazione. La Repubblica Ceca, dopo la divisione da quella Slovacca, sta aggregando i propri interessi con regioni tedesche che godono già oggi di ampie discrezionalità federali. La Slovenia e la Croazia stanno integrandosi alle regioni di Stati confinanti con gradualità ma reciproca convenienza e condivisione. Il Belgio si è liberato dal vincolo unitario imposto da pure ragioni dinastiche, l’aspirazione all’autonomia nel Regno Unito è sempre stata forte e riceve maggiore attenzione dallo Stato centrale oggi. In Spagna e in Francia esistono movimenti politici che chiedono autonomia o perfino autodeterminazione in spirito separatista; dalla Catalogna, ai Baschi, alla Corsica.

Con questa messe di eventi storici in corso risulta patetico l’appellarsi allo Stato unitario proprio in Italia in cui è elevatissimo il dissenso nei confronti di istituzioni parassitarie e inadeguate rispetto alle aspettative dei cittadini di ogni regione.

Cavalcare il ‘federalismo’ ispirandone la percezione di strumento del cambiamento nazionale sarebbe una azione più saggia e politicamente unificante che non intralcerebbe le commemorazioni in corso le quali sarebbero altrimenti crescentemente percepite come strumento reazionario contro la nascita d’una soluzione politicamente legittima e internazionalmente molto diffusa all’est e all’ovest in tutta Europa.