12/03/2008

 

“Globalizzazione” ed evoluzione di ‘libero mercato’ (coerente e pragmatica) delle istituzioni liberal-democratiche

L’avanzare inesorabile della globalizzazione genera disagi sociali e economici sia presso i sistemi politici in cui è più consolidata la civiltà industriale (‘occidentale’) sia presso quelli non ancora civilizzati dai quali orde di derelitti aspirano a liberarsi. Rinnovando quelle forme storiche (Volkswanderungen) di esodi di massa che noi abbiamo dovuto sperimentare in epoche remote caratterizzate da povertà per la carenza di adeguate soluzioni tecnologiche all’indigenza. Si tratta di aspirazioni ‘liberali’ in quanto si manifestano presso i più intraprendenti che in modo pienamente volontario si sottopongono ai rischi e ai disagi dell’emigrazione clandestina. Immigrazioni clandestine per il carattere di imperfetto liberismo dei Paesi liberal-democratici. È auspicabile che oggigiorno, in piena epoca di egemone globalizzazione, la politica possa e debba articolare soluzioni meno traumatiche ai disagi socio-economici rispetto alle ‘naif’ e disumane ‘Volkswanderungen’ cui erano costrette a sottoporsi (e sottoporci) le orde barbariche in altre ere. Anche qui occorre che gli elettori riescano a identificare i limiti e il carattere di due opposte soluzioni possibili: secondo il criterio liberal-democratico e secondo quello reazionario-conservatore. Ovunque nel mondo i politici si sono dovuti far carico del problema ma le loro proposte non possono risultare pienamente in regola con i due criteri in quanto ovunque gli elettori beneficiano e soffrono dell’avanzare della internazionalizzazione dell’economia industriale mentre perdura il vecchio contesto istituzionale geo-politico. Il ‘nuovo ordine mondiale’ non si è ancora potuto consolidare proprio grazie all’ancora instabile sviluppo degli assetti produttivi che definiranno la misura complessiva di costi e di benefici economici risultanti. Solo quando questo assetto, inizialmente gestito dalle istituzioni liberal-democratiche ‘private’ (ma di interesse pubblico quali le aziende, le lobby, le banche, le assicurazioni), sarà sufficientemente stabile e robusto, sarà possibile apportare modifiche alle istituzioni statali che, sostituendo quelle obsolete (Stati Nazione e ONU), daranno anche legittimità formale ai nuovi assetti. Fino ad allora è naturale che perfino nella ‘sede di Cesare’ del terzo millennio (gli USA) siano presenti anti-storiche proposte politiche ‘protezioniste’ (sostenendo ‘muri’ contro gli immigranti dal Messico o la revisione dei trattati NAFTA o l’isolazionismo con l’uscita dalla ‘guerra al terrore’ in Asia) anche tra i repubblicani (McCaine è avversato da illustri conservatori del GOP come Limbaugh). In liberal-democrazia ogni istituzione legale ha interesse pubblico ma si preferisce affidarne la gestione ai privati in libera concorrenza di mercato per garantire l’ottimizzazione economica e la piena responsabilità individuale. Solo alcune istituzioni vengono affidate allo stato cercando di costringerle a una gestione responsabile ed economicamente sostenibile tramite il rispetto del gioco di check&balance tra interessi contrapposti. Ciò non garantisce la competitività e l’ottimizzazione autoregolata sul piano economico ma è una strada obbligata per l’impossibilità dei privati a curare accessibilità diffusa a certi servizi (trasporti, poste, polizia, educazione primaria). Il progresso tecnologico e l’associato abbattersi dei prezzi di produzione e distribuzione rendono gradualmente più conveniente affidare anche quei servizi ai privati. Ciò aumenta la possibilità di scelta a parità di onere al consumatore e ne estende, quindi, la libertà di allocazione del reddito prodotto. È per questo motivo che, nella gestione del cambiamento, i sistemi liberal-democratici danno priorità alle istituzioni private mentre i sistemi illiberali accentrano la gestione programmata dello stesso allo stato. Col risultato di inefficienza e diseconomia, e quindi di perdita di competitività, a carico dei sistemi illiberali rispetto a quelli di libero-mercato. È ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi ogni giorno e che Pelanda cerca di segnalare coi suoi articoli. La fuga dai titoli a reddito fisso verso quelli azionari, la successiva fuga da questi verso titoli a rischio più elevato e poi i disinvestimenti in borsa valori per investire in borsa merci è una catena di libere uscite da comparti di mercato in via di obsolescenza rispetto a nuovi che ancora non sono riusciti a guadagnarsi adeguata solidità e credibilità. Queste ‘fughe’ danno tutela alla risorsa finanziaria che è quella necessaria per alimentare i futuri nuovi assetti produttivi e, nel contempo, provvedono a redistribuire i costi del cambiamento in corso addebitandoli anche a quelle istituzioni che ancora sotto il controllo degli Stati Nazione cercano di ‘proteggere’ i propri interessi ‘locali’. I costi dei cambiamenti di valuta a livelli regionali (l’Euro), ad esempio, o i costi della ‘guerra fredda’ un tempo e della ‘guerra al terrorismo’ oggi sono strade obbligate dal cambiamento industriale in corso i cui benefici sono globali mentre gli oneri sono stati sostenuti in modo diseguale dai diversi stati. Questa disparità temporale sostenuta dalle istituzioni statali viene riequilibrata nel tempo tramite le istituzioni private (finanza, assicurazioni, ricerca pura, ricerca applicata, delocalizzazione degli impianti, etc.). Cercheremo di esporre con considerazioni successive quanto sta avvenendo e come una soluzione pienamente liberal-democratica sia non solo possibile ma sia la sola che possa risultare sostenibile in una prospettiva di ortodossia con i criteri della civiltà occidentale, la sola cui aspirano i derelitti e la sola che i privilegiati vogliono ‘proteggere’ magari con metodi illiberali. Intanto si può affermare che quanto stiamo sperimentando sul piano socio-economico segue appieno i canoni scientifici che descrivono l’evoluzione naturale di ogni sistema complesso quasi-stabile che è stata descritta da Ilya Prigogine sul piano concettuale e da Per Bak su quello matematico. Niente c’è di nuovo né di misterioso nel fenomeno anche se ci troviamo a subire personalmente gli effetti di questa fase di transizione verso assetti più ‘economicamente’ sostenibili nell’ottica della minima dissipazione dell’energia che la Natura è obbligata a rispettare in ogni sistema in cui articola le sue manifestazioni. Si tratta di un costante succedersi di transizioni tra fasi di stabilità solo temporanea che caratterizzano i mutamenti di ‘forma’ che assumono i sistemi in cui regna la ‘vita’; mutamenti di ‘forma’ che sono le ‘catastrofi’ che storicamente osserviamo anche nei regimi politico-istituzionali. La ‘termodinamica dei sistemi caotici’ ci informa che non è possibile ‘stabilizzare’ definitivamente qualsiasi sistema complesso pena il condannarlo a morte ma ci dice anche che è possibile anticiparne le fasi critiche e il favorirne la transizione secondo percorsi più brevi e meno traumatici possibili. Ogni ‘resistenza’ conservatrice che contrasti l’evoluzione condanna il sistema complessivo a sperimentare più tardi ‘catastrofi’ meno gestibili e quindi più traumatiche.