12/01/2010

Disagio e Demagogia

Stiamo assistendo da una nuova ondata di sfruttamento per ragioni demagogiche delle molte forme di disagio che l’irreversibile globalizzazione sta imponendo all’’Occidente’. La “demagogia” è in qualche misura giustificata dal fatto che non esistendo ancora istituti credibili della “governance” del Nuovo Ordine Globale i responsabili politici delle vecchie e impotenti istituzioni sono impossibilitati ad assumere concrete iniziative e non potendo ignorare il disagio cercano di cavalcarne l’onda emotiva deprecando l’inazione della contro-parte oppure evidenziando l’irresponsabilità dell’opposizione. 

Gli esempi di questa situazione sono molti e coprono temi di intenso disagio temporaneo e locale quali la disoccupazione creata dalla riorganizzazione della catena delle fasi produttive industriali dei grandi gruppi multinazionali ed incide immediatamente sul loro tradizionale “indotto” industriale in tutti i Paesi coinvolti come accade in Italia con la chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese oppure l’ondata di massicce immigrazioni “illegali” di manodopera disponibile ad accettare lo sfruttamento economico e standard di vita assolutamente inaccettabili alla luce degli standard sindacali, civili e morali ormai consolidati nei Paesi che si sentono colpiti da questo fenomeno che non può essere programmato senza imporre massicci oneri fiscali e traumi nei comportamenti e nelle abitudini di vita quotidiana in tempi così accelerati da rendere insostenibili i disagi psichici, economici e sociali nelle comunità più colpite dal fenomeno.

Occorre riflettere proprio sul fatto che il disagio è accettabile solo con una gradualità programmata che impone di erogare le cause del “cambiamento” a dosi-omeopatiche. Ogni accelerazione, voluta o subita non fa differenza, del “cambiamento” induce forme di disagio tanto insostenibili da spingere i soggetti colpiti ad arroccarsi pretestuosamente dietro ragioni solo strumentali che sono occasione preziosa per ogni demagogo per cavalcarne lo spirito “progressista” o in alternativa quello “reazionario” con squisiti o rozzi mezzi usati dalla dialettica sterile e partigiana cui siamo abituati.

Vorrei presentare qualche concetto preliminare al problema del disagio provocato dal cambiamento che ci stimola a crescere intellettualmente, umanamente e moralmente nel corso della vita.

Il disagio è percepito con maggiore chiarezza dai giovani nel corso della loro fase di sviluppo nell’adolescenza, tuttavia il disagio è anche una caratteristica rilevabile nel corso di tutta la vita adulta che è sempre animata dall’esigenza di dover scegliere alla rinuncia a situazioni stabili di vita per adeguarsi alle novità che spesso ci impone l’ambiente sociale o economico in cui svolgiamo la nostra costante crescita di maturità psico-fisica.

Ciò che caratterizza il disagio quindi non è tanto la sua prima manifestazione giovanile quanto il carattere della reazione fisiologica o patologica che ispira i soggetti ad assumere comportamenti più confacenti con la nuova inattesa o indesiderata situazione che sollecita il disagio.

I comportamenti di avvento e di rimozione del disagio sono pertanto gli elementi che una psico-terapeusi o psico-didattica dovrebbero mettere a fuoco circa il problema del disagio.

Il disagio si manifesta in sintesi ogni volta che un soggetto si vede costretto a rivedere i comportamenti che lo guidano nelle scelte quotidiane di vita. Scelte che si ispirano a gratificare in gerarchia e priorità una scala di bisogni identificabili nella scala di Maslow.

La percezione di un obbligo esterno a rinunciare a gratificare quell’assetto di scelte abituale eliminando al soggetto la possibilità di soddisfare abitudini acquisite lo costringe a rivedere almeno temporaneamente le sue motivazioni nei comportamenti individuali e nelle relazioni sociali.

Ogni soggetto legittimamente reagisce a questa percepita prevaricazione esterna alle sue abitudini in due modi distinti al fine di rimuovere il disagio:

  • tentando di ridurne gli effetti pratici assumendo nuovi comportamenti laddove riesce a eludere gli obblighi incombenti (spesso fonte di effetti patologici) o
  • cercando di assumere nuovi comportamenti che gli permettano di adattarsi alla nuova situazione accettando la revisione della scala delle priorità che compongono il paniere abituale che li ispira.

Analoga situazione non si riscontra invece nella spontanea maturazione di comportamenti individuali se essa è ispirata da un autonomo sviluppo educativo che spinge il soggetto ad aderire a una scala di priorità di gratificazioni sempre più “trascendenti” le esigenze individuali e materiali verso crescenti contenuti di ordine relazionale e spirituale. In questo caso il disagio viene sostituito da un lento e stimolante processo di autoeducazione che sostituisce le forme di gratificazione meno elevate con altre più elevate nella scala di Maslow.

Educare gli adolescenti ad accettare questo processo auto educativo è il meccanismo che potrebbe prevenire il manifestarsi del disagio ed incanalarne l’eventuale residuale rimozione attorno al più fisiologico modo tra i due elencati.

Torniamo ora al tema dei recenti fenomeni di squallida demagogia che affliggono i responsabili politici in tutte le istituzioni (dal sindacato, alla chiesa, allo stato) nei confronti di fenomeni i cui emblemi possono essere quelli della riorganizzazione produttiva e dello sfruttamento umano ed economico degli immigrati illegali.

Le istituzioni sono tutte costrette ad assumere posizioni demagogiche e sterilmente retoriche in quanto tutte sono impotenti ad organizzare in autonomia qualche forma di “governance” d’un fenomeno che trascende ogni politica precedente e travolge ogni capacità di convertire il consenso sociale data la rapidità e l’intensità attorno a pur condivisibili valori morali, criteri etici e principi di convivenza civile.

È inutile sostenere demagogicamente le ragioni sterili di chi, colpito dalla disoccupazione, assume iniziative spettacolari (occupare fabbriche, vivere sui tetti, incendiare spazzatura, intralciare la viabilità). Ciò non può né risolvere un problema diffuso ma sintomo di un fatto globalmente positivo per la crescita del benessere globale e delle generazioni future, né può contribuire a creare una partecipazione intellettuale della pubblica opinione al lento impegno soprannazionale mirato a creare un’accettabile nuova governance dell’economia industriale globale cui saremo tutti saldamente ancorati nei decenni a venire. Occorre avviare il processo che riesca a sviluppare l’accettazione di nuovi istituti normativi e relazionali più adatti alla nuova realtà globale. Un processo che deve essere assunto a dosi omeopatiche per non sollevare forme di disagio tali da frenare il cambiamento e dissipare il necessario consenso politico nazionale frammentando la partecipazione politica in episodi violenti (come quelli delle banlieues parigine) o “sotterranei” (come quelli peculiari delle favelas o banlieues) tutti però sterili sul piano del cambiamento che sarebbe invece necessario nelle relazioni tra stato e cittadini e tra aziende e dipendenti.

Predicare l’”accoglienza” è altrettanto sterile del pretendere il rispetto delle tutele civili agli immigrati solo perché così è scritto nelle “leggi” civili o religiose che siano. L’insostenibilità di quelle leggi, prima che nei suoi costi economici, è scritta nella dimensione del disagio che provocherebbe l’applicazione erga omnes dei diritti a spese delle abitudini di vita attuali. Semplicemente le “leggi” non sono più “giuste” in quanto è il contesto che le “giustificava” ad essere stato stravolto dal progresso industriale che genera i sintomi del disagio. D’altronde sul piano religioso occorre che la Chiesa sappia spiegare per quale motivo sarebbe più “morale” privilegiare il temporaneo disagio dei disoccupati italiani o l’assegnazione di pari diritti a tutti gli immigrati rispetto ad agevolare il trasferimento di opportunità occupazionali nei Paesi di emigrazione che perdono con quel fenomeno le loro migliori risorse umane. Così come sul piano civile occorre che i sindacati riescano a spiegare per quale motivo sarebbe più conveniente rischiare la disoccupazione conservando vecchi istituti di tutela (paga minima sindacale, lavoro a tempo indeterminato) rispetto ad agevolare la crescita di entrate familiari aprendo la contrattualistica a forme un tempo “deprecate” (lavoro a tempo determinato o cottimo salariale per le attività meno gratificanti).

Tra l’altro proprio di recente in Colorado una legge di stato ha ridotto la paga minima sindacale proprio per elevare il tasso di occupazione e una recente indagine di opinione presso le attività di sportello (ferrovie, enti locali, banche, posta, prenotazioni musei e spettacolo, supermercati) ha segnalato una grande disponibilità nei confronti del ripristino del “cottimo”.