11/03/2011

Italia: Istituzioni e Cultura

Esiste una discrasia che affligge chiunque viva o osservi dall’esterno l’Italia.

La discrasia è nutrita da un consolidato conflitto che l’’Italia’ ispira universalmente sin dall’epoca di Roma e della sua evoluzione dall’originaria piccola ed aggressiva tribù di predoni all’assetto finale consolidato nella prima versione della globalizzazione dell’Impero Romano, proiettato nei secoli successivi nell’era degli Stati Nazione nati dal crollo delle istituzioni statali imperiali che avevano garantito la governance con la rete delle infrastrutture civili e militari (acquedotti, strade e con gli standard ingegneristici, giuridici, amministrativi).

Ciò che ogni osservatore, sia nato nella penisola che altrove, ha ammirato (o per cui ha nutrito l’orgoglio di appartenere) nel corso di tutta quella storia di civiltà ‘Occidentale’ è stato sempre riconosciuto come ‘Italia’.

Sono ritenuti ‘italiani’ i fondatori di Roma, Cesare, Nerone ma anche ogni Imperatore pur se nato in altre regioni dell’impero globale; tutti ‘cives romani’.

Sono ritenuti ‘italiani’ Cicerone, Livio, Plinio, ma anche Seneca, Dante, Ariosto, Machiavelli, Italo Svevo e Prezzolini indipendentemente dall’epoca in cui essi scrissero, dalla loro cittadinanza politica, dalla loro fede e perfino dalla lingua in cui essi formularono le proprie idee. Perfino Ezra Pound è entrato di diritto, per scelta culturale, a far parte dell’Italia che ne ispirò i lavori più significativi ed alle cui sorti associò (da ‘stoico’) le sue scelte finali.

In ogni campo, ricercatori, capitani d’arme, imprenditori d’industria o spettacolo sono ‘italiani’ Terenzio, Vitruvio, Galilei, Goldoni, Vivaldi, Marco Polo, Eugenio di Savoia, i Farnese, i Malatesta, gli Strozzi, i Medici i Fellini ma anche gli Amadeo Giannini, i Frank Capra, i Sinatra, i Dean Martin ed i Francis Ford Coppola o i Martin Scorsese la cui matrice culturale è ‘orgogliosamente’ italiana nel senso più tradizionale ed universale della cultura riconosciuta come ‘italiana’.

In questo senso anche la Curia di Roma e la Chiesa Cattolica sono ‘italiane’ in quanto hanno identificato da sempre l’universalità e la continuità della scelta di civiltà a partire da Costantino con Roma come la stabile sede dei criteri etici che ispirano la compatibilità nell’esercizio della libertà civile e del libero arbitrio.

I pontefici sono restati nei millenni l’autorità rappresentativa dell’universalità della civiltà ‘Occidentale’ per la sua fondamentale componente di tolleranza religiosa e per il carattere aristocratico e democratico in cui si è tramandato il ‘governo’ della Curia; dall’integrazione in ogni nuova cultura del suo messaggio universale, all’incarnazione nel messaggio universale delle nuove aspettative proprie della cultura dei nuovi popoli che sono stati inclusi a beneficiare della civiltà greco-romana-cristiana.

Sono ‘italiani’ tutti i Pontefici ed è ‘italiana’ la cultura che sprigiona da Roma col suo eterno carattere di universalità alla cui difesa tutti i Pontefici hanno dedicato le loro priorità di scelta a partire da Pietro che scelse col suo sacrificio di identificare il cristianesimo con la civiltà ‘greco-romana’.

È stato ‘italiano’ Celestino V col suo gran rifiuto ed è stato ‘italiano’ anche Sisto V con la sua rivoluzione ‘machiavellica’ tra le famiglie potenti ma sono stati ‘italiani’ anche Pio II, Leone X e perfino Alessandro VI Borgia. Anche pontefici nati in altre regioni dell’eucumene come Wojtyla e Ratzinger sono ‘italiani’ per scelta in quanto come Ezra Pound, hanno riconosciuto il carattere ‘universale’ della cultura che caratterizza l’Italia ed al cui arricchimento la Chiesa Cattolica ha contribuito in piena continuità a consolidarne sin dalle origini l’egemonia ‘spirituale’ sia sul piano secolare (umanesimo rinascimentale), sia su quello trascendente (cattolicesimo).

A questa base culturale ‘universale’ hanno dato il fertile e libero contributo tutte le forme ‘artigiane’ di cui si compone la migliore espressione della creatività umana in ogni epoca; le botteghe d’arte, le scuole dei mestieri e gli studi delle professioni.

Il carattere di libertà è stato garantito in particolare all’Italia proprio grazie alla persistenza dello spirito ‘federale’ che Roma aveva garantito al suo interno alle varie nazioni sottomesse alle leggi di Roma. Sin dalle origini le città-stato erano lasciate alla gestione dei loro notabili e delle aristocrazie locali ciò che le rendeva alleate era il riconoscimento del diritto e della giurisprudenza di Roma (pretori, censori, pubblicani) e del valore aggiunto che l’adesione a Roma assicurava al reciproco interesse grazie alla garantita rete di scambi commerciali, terziari e industriali (strade, acquedotti, terme, moneta, giurisprudenza, scolarità, lingua).

Al crollo di Roma Imperiale quasi tutti i paesi esterni alla penisola trovarono ‘naturale’ costruire un proprio sistema di stabile governance affidandone la legittimità al più abile tra i protagonisti capaci di farsi capire in tutta la ‘regione’; il primo elemento utile per definire i confini divenne la comprensione della lingua più diffusa ‘localmente’ (al di la del latino che era stata l’infrastruttura comune alle oligarchie partecipi del sistema globale di Roma).

In altri paesi, come la Germania, si tentò di garantire una continuità alla governance globale di Roma con il trasferimento da Roma della sede della legittimità civile e la conservazione in Roma di quella religiosa. Ciò creò una separazione formale oltre che concettuale dei due poteri separati e contrapposti che fino ad allora avevano avuto la stessa sede in Italia a Roma. Ma i criteri della governance romana restarono integri e sopra ordinati a quelli della governance ‘locale’ dei singoli stati federati.

Gradualmente il potere imperiale perse egemonia rispetto a quello crescente in molti stati-nazione che avviarono la graduale autonomia politica da quella del Sacro Romano Impero detenuta dall’Imperatore e dal Pontefice in modo concettualmente inscindibile.

L’avvio della disgregazione della governance imperiale ebbe luogo con la graduale perdita di utilità civile di ‘Roma’; decadimento delle reti infrastrutturali di utilità civili – acque, terme, fogne, strade, giustizia. Il restante prestigio imperiale degradò successivamente con la diminuzione del potere militare che dipendeva sempre più dall’apporto degli Stati federati per raggiungere obiettivi legittimati moralmente dal potere etico del Pontefice. L’autonomia religiosa divenne il modo per distruggere la residua legittimità al ruolo imperiale e le varie ‘riforme’, al di la delle giustificazioni ‘locali’, accentrarono nel sovrano i due poteri civile e religioso creando un deteriore iato sulla strada del progresso civile ‘Occidentale’.

L’intolleranza religiosa venne promossa dal valore politico che assunse la professione del credo ‘nazionale’, il razzismo emerse tra stirpi affini grazie alla diversità del gergo usato (ne sono testimoni le storie di Alsazia e Lorena tra Francia e ‘Germania’ ove l’egemonia imperiale del Sacro Romano Impero ebbe maggiore durata e dove quindi lo Stato Nazione non ebbe possibilità di imporsi rispetto ai Principati componenti la ‘nazione’ germanica.

La crescita industriale divenne funzionale agli interessi delle oligarchie nazionali che furono spinte quindi a guerre espansioniste utili per costruire Imperi Nazionali con ‘sudditi’ in altri continenti; distruggendo così i residui elementi di ‘universalità’ dell’Impero nell’accezione originaria di Roma Cristiana. Il ‘colonialismo’ è stato l’opposto di ciò che legittimò Roma nell’estensione dei confini della civiltà ‘Occidentale’. Il colonialismo degli Stati Nazione è stato la negazione della civiltà ‘Occidentale’ nella sua esportazione di contenuti formali occidentali; istituzioni, cultura, legalità, etc..

La disgregazione della federazione di Stati Nazione avvenne su un lungo arco di tempo e storicamente si concluse all’inizio del 1800 con la conquista d’Italia di Napoleone e la fine della Repubblica di Venezia e con lo scioglimento del Sacro Romano Impero da parte di Francesco II dopo la pace di Presburgo dopo l’azione militare di Napoleone.

Anche le ‘italiane’ enclavi dalmate, istriane e le isole sparse nell’Egeo e nello Ionio persero contatto politico con l’Italia nella veste di Venezia ma restarono ‘italiane’ attraverso ogni traversia politica ‘locale’ che le afflisse.

L’Italia fortunatamente è restata fuori da quella tragedia fino all’alba della globalizzazione nella sua seconda versione attuale. Anche l’inefficiente e tardivo sistema istituzionale dello Stato Nazione infatti è stato spinto ad ispirarsi ai criteri ‘anti-occidentali’ degli Stati Nazione; le guerre coloniali che, tuttavia, grazie alla solida tradizione culturale ‘universale’ degli italiani ha assunto forme totalmente diverse da quelle di altri imperi coloniali. Gli italiani si sono insediati nelle colonie come cittadini di quelle nuove terre, sposandosi con le donne locali ed inserendo nelle istituzioni locali anche gli indigeni purché aderissero ai principi universali di Roma Cattolica. Razzismo e intolleranza religiosa non hanno inquinato la fase coloniale italiana.

L’attuale seconda versione della globalizzazione è stata promossa dalle ragioni industriali del sistema dei gruppi industriali USA, un sistema egemone sul piano economico e sostenuto dall’unico Stato nato contro la legittimità degli Stati Nazione ‘anti-occidentali’. Uno Stato che si ispira alle radici storiche della civiltà di Roma; la separazione di Chiesa e Stato e l’universalità della cittadinanza.

I criteri per la cittadinanza USA o per appartenere alla federazione di Stati che ne fanno parte è affidata alla condivisione dei principi costituzionali ed istituzionali del 1776; moderna libera adesione di un intero paese alla carta costituzionale USA o di singoli individui con l’affermazione giurata di ‘civis romanus sum’.

L’adesione allo spirito universale USA comporta l’accettazione di tutti i principi sviluppati nei millenni dalla civiltà ‘Occidentale’ (greco-romana-cristiana) inclusivi del principio di responsabilità individuale in ogni campo d’azione. Nella responsabilità individuale risiede ogni diritto a fruire appieno della libertà individuale.

Il principio che ha generato la libertà di scambiare risorse accumulate con responsabili assunzioni di rischio a compenso di risorse che altri desiderano scambiare in un bilanciamento libero e responsabile di benefici e di costi fondati solamente sulla personalissima e libera definizione di utilità, di benessere e di desiderabilità.

Il ‘libero mercato’ sul quale s’è sofisticata la gerarchia delle istituzioni liberal-democratiche legittima i valori di scambio a reciproca compensazione di risorse tra loro disomogenee ma traducibili in prezzi che ognuno è disponibile ad accettare o rifiutare ricorrendo a consumi alternativi e succedanei più accessibili. Ciò innesca la libera concorrenza tra produttori stimolati dalla propria individualissima avidità ad acquisire il favore dei consumatori insoddisfatti dalle offerte precedentemente disponibili sul mercato; purché il mercato sia libero e non eriga vincoli protezionisti alla nascita di nuovi produttori.

Il capitalismo-liberista travolge ogni frontiera eretta dagli Stati Nazione ed al loro interno da istituzioni che, pur emulando i canoni della civiltà ‘Occidentale’, sono sempre ‘controllate’ dalle oligarchie cui è affidata la governance del sistema stato-industria; ciò vale sempre nel corso del progresso della civiltà ‘Occidentale’ in quanto ogni oligarchia resiste all’avvento di maggiori forme di concorrenza che ne destabilizzerebbe il ruolo e i privilegi che sono ad esso connessi.

È solo l’aggregarsi costante di ‘liberi’ scambi al livello quotidiano e micro-economico che genera interessi ed aspettative tali da sovvertire ogni vecchio assetto di stabilità interna al regime del momento, innescando tipi nuovi d’offerta di ‘servizi politici’ capaci di destabilizzare nel sistema macroeconomico l’assetto istituzionale della governance estendendone il grado di liberal-democrazia.

È ciò che sta avvenendo oggi sul piano della riorganizzazione della divisione del lavoro industriale sul piano globale su sollecitazione dell’innovazione industriale alla ricerca di un maggiore livello di redditività delle risorse finanziarie disponibili per la crescita del prodotto interno del mondo globalizzato. Ciò richiede che si abbattano le vecchie frontiere geopolitiche tra tutti gli Stati Nazione coinvolti dal processo industriale e che, al loro interno, s’elimini ogni vincolo opposto oggi al libero intraprendere dalle oligarchie corporative come difesa illiberale dei loro privilegi. È un processo che sollecita ogni regime che al momento cura la governance dei sistemi stato-industria nazionali, per quanto autoritari essi possano essere, a sostenere la legittimità dei principi liberal-democratici su cui si fonda la competitività sul mercato globale dei loro specifici sistemi nazionali. Senza adeguata soddisfazione nei confronti delle aspettative delle masse di consumatori nazionali cresce il disagio sociale. Senza adeguata offerta di opportunità occupazionali le stesse masse non possono essere poste in condizione di accedere ai consumi. Senza adeguata riconfigurazione delle fasi produttive industriali le risorse finanziarie disponibili non sono in grado di alimentare il mercato di beni e servizi che risultino accessibili alle masse dei nuovi consumatori. Senza accesso diffuso dei potenziali consumatori ad adeguate e libere comunicazioni sociali essi non maturano aspettative di consumi capaci di essere gratificate dalle proposte di beni e servizi rese disponibili dall’innovazione tecnologica.

È una catena di cause-effetti che risulta indipendente dalle ideologie politiche sulle quali fonda la legittimità dei regimi dei vecchi Stati Nazione (sintetizzabile nel bismarckiano ‘welfare state’). Le cause risiedono nella capacità di servizi e beni industriali di appagare aspettative psicologicamente esogene alle priorità dottrinarie dello ‘stato etico’. Cesare deve escludersi dalla sfera di Dio affinché il sistema industriale possa riuscire a dare soddisfazione alle masse di diseredati costretti fino a ieri dall’era degli Stati Nazione al ruolo di ‘sudditi’ il cui benessere era competenza delle oligarchie di governo.

L’avvento della seconda versione della globalizzazione è stata avviata dall’egemonia negli USA dei concetti di una governance soprannazionale che si ispira alla Roma Imperiale: separazione di reato e peccato, libertà di intraprendere, separazione e bilanciamento tra ‘poteri istituzionali’, governo ‘dal basso’, rispetto d’ogni tipo di cultura ‘locale’ ma esclusione d’ogni tipo di integralismo, criterio della giurisprudenza nella gestione della giustizia, priorità della responsabilità individuale sul parere delle autorità, etc..

Questo rilancio della cultura nazionale a valore universale costituisce una riconciliazione e ricucitura della discrasia storica che ispira il concetto di Italia.

Infatti non è lo Stato Nazione ‘Italia’ a costituire l’elemento sopravvissuto nei millenni grazie all’attività degli italiani che anima di nuovo vigore la seconda versione della globalizzazione. È la cultura ‘italiana’ che esce di nuovo dal ‘privato’ in cui si è sviluppata sia sul piano religioso (Chiesa di Roma), sia sul secolare (la eccellenza della sua cultura artigiana nelle arti, mestieri e professioni), ad animare il mercato più ‘locale’ sollecitandolo a fornire in reciproca competizione e nell’autonoma evidenziazione delle proprie peculiarità il proprio apporto produttivo al mercato globale senza vincoli imposti dall’alto dei protezionismi di vario tipo.

La celebrazione dei centocinquantanni dello Stato Nazione è solo una celebrazione di calendario; l’Italia ha ben altra e più alta importanza della sua storia alle soglie della nuova era globale.

Essere ‘italiani’ non ha mai coinciso in modo intollerabilmente riduttivo con la disponibilità del passaporto emesso dallo Stato Nazione; sono ‘italiani’ tutti coloro che considerano ‘grande’ ‘universale’ ed ‘eterno’ lo spirito che da sempre anima la apertura creativa e sinergica dell’individuo ad esprimere le sue doti naturali ignorando ogni vincolo illiberale opposto dalle convenzioni che lo circondano, una creatività anarcoide che è corretta solamente dalla spontanea fedeltà e rispetto per le istituzioni più ‘locali’ nelle quali egli accetta di coesistere e per le quali spesso accetta di sacrificare liberamente se stesso al di la delle ortodossie legali.

Sacco e Vanzetti erano italiani come Giuseppe Garibaldi sia che lottasse per l’unità d’Italia o per la libertà del Brasile o dell’Uruguay. Italiano era Don Bosco come italiani sono i salesiani che applicano la sua innovativa e universale cultura pedagogica italiana.

Ogni genio universale eccede gli angusti confini di razza, etnia, lingua e cultura per diventare una sorta di cittadino del mondo sulla base del suo più individuale patrimonio di doti personali arricchite dal profilo delle relazioni umane e professionali acquisite durante le sue più ‘provinciali’ adolescenza e formazione; questo è lo spirito che ha da sempre caratterizzato il ‘genio italiano’ in tutti i suoi gradi di valore e nobiltà – da Cecco Angiolieri, a Pietro l’Aretino, Benvenuto Cellini, Antonio Salieri, Cesare Borgia, Giovanni dalle Bande Nere, etc., etc. fino ai più recenti Enrico Mattei o Michele Sindona. La loro appartenenza o condivisione allo Stato Nazione del 1861 nulla ha a che fare col significato di Italia o di italiano né ha potuto arricchire di alcunché questa tradizione di ‘maverick’, schegge impazzite, maramaldi, poeti sempre creativi, sempre anarcoidi ma sempre misericordiosi e ‘mafiosamente’ inclini al nepotismo più ‘politically incorrect’.

La cultura è creata nel tepore familiare del provincialismo ‘locale’ e si esprime nel gergo più comune nelle forme familiari ed apprezzabili dalla cultura ‘volgare’; questo era vero nella Roma di Ennio, Lucilio, Plauto, Varrone, Orazio ma restò vero per le opere in ‘volgare’ di Cecco Angiolieri, di Dante, di Pietro l’Aretino, di Cello d’Alcamo per il teatro del teatro dell’arte, per Machiavelli, Giordano Bruno e per l’opera buffa lirica la cui popolarità fu vivissima nei teatri della provincia fino al neo-realismo, a Peppino de Filippo ed a Dario Fo.

L’Italia è contraria al birignao esterofilo che viene regolarmente ‘spernacchiato’ nella sua falsa supponenza d’un internazionalismo snob. La cultura ‘italiana’ è provinciale e universale, proprio per questo non accetta di essere irrigidita entro i confini di alcuno Stato Nazione per poter ‘contaminare’ ogni popolo del globo.

Shakespeare tra i molti artisti esteri si è ispirato alla cultura popolare italiana così come Mozart.