11/03/2011

Globalizzazione e riforme istituzionali

È patetico osservare l’assoluta insipienza della politica nazionale ad assumere le poche iniziative possibili di innovazione istituzionale (sindacali, amministrative, fiscali, giurisdizionali, etc.) nell’ambito dei ristretti confini che la globalizzazione industriale impone al sistema industria-stato per rianimarne la competitività rispetto ai paesi più immediatamente concorrenti sul mercato internazionale.

I limiti in cui occorre muoversi per accelerare le indispensabili modifiche istituzionali sono molto stretti ed obbligati da vincoli, esogeni rispetto al sistema nazionale, che ci vengono imposti dal sistema competitivo globale e dalle sue emergenti istituzioni di governance soprannazionale. Vincoli che consistono in criteri di operazione oltre che in limiti nel tipo, logica e dimensione delle risorse impiegabili dalle future istituzioni.

I criteri che devono ispirare le future istituzioni di governance dei sistemi nazionali infatti devono evitare di tutelare le inefficienze operative scaricandone l’onere a spese di una fiscalità generale che costituirebbe una forma di ‘protezionismo’ tramite il deficit statale e il suo accumularsi in debito del bilancio nazionale.

Settorialmente poi i criteri che devono ispirare le istituzioni industriali neanche potranno essere addebitate al solo partner datoriale la cui sopravvivenza sul mercato competitivo dipende sempre più dal complesso dei costi addebitatigli dal sistema istituzionale nazionale (fisco, amministrazione, giustizia, lavoro, trasporti, banche-assicurazioni, energia, etc.). Sarà indispensabile rivoluzionare quindi i criteri della contrattazione per renderli compatibili coi vincoli più ‘locali’ che incontrano le singole aziende al di la dei gruppi industriali da cui essi occasionalmente dipendono. Analoghe considerazioni obbligano a rivoluzionare i criteri auspicati fino ad oggi in sede giurisdizionale che tendenzialmente privilegiavano nelle sentenze il rispetto dei ‘diritti costituzionali’ indipendentemente dai loro ‘costi’ di erogazione; privilegiando cioè l’astratta priorità dei fini rispetto alla loro sostenibilità economica.

Tuttavia pur nell’ambito di quei vincoli-imposti, la politica nazionale potrebbe accelerare l’avvento di nuove istituzioni più adeguate ad agevolare il rilancio competitivo del sistema industriale che non riesce facilmente a ‘delocalizzare’ i suoi impianti produttivi e centri decisionali; come invece riesce facile ai più grandi gruppi.

Tra queste istituzioni la giustizia appare essere la principale inadeguata alle esigenze del sistema industria-stato per sostenerne la competitività ed attrarre investimenti esteri in Italia.

La rinuncia a riformare il potere giurisdizionale in Italia costringerà gradualmente i residenti a ricorrere a forme stra-giudiziarie per la negoziazione di conflitti di interessi ricorrendo ad un sistema-parallelo privato che scavalcherà totalmente quel potere istituzionale. Altrimenti le aziende che vorranno trasformare beni e servizi importando dall’estero le necessarie ‘materie prime’ e distribuire sul mercato i beni e servizi portatori del proprio ‘valore aggiunto’, concorderanno coi fornitori e coi distributori esteri il foro estero da indicare come sede per dirimere gli eventuali conflitti di interesse industriale. Una tale soluzione per ignavia politica si tradurrà in diminuzione di importanza anche per il potere legislativo perché le leggi sotto le quali saranno siglati i contratti industriali saranno preferenzialmente quelle di competenza per i fori di gestione delle controversie.

Le istituzioni nazionali, in assenza di una profonda riforma che le allinei ai criteri politici prevalenti nel mondo industriale globale, saranno gradualmente spolpate di significato e peso ed i loro ruoli verranno devoluti ad istituzioni soprannazionali o estere oppure ad istituzioni private di livello gerarchico inferiore; secondo quanto descrive la teoria neo-istituzionale di Ronald Coase.

Un minimo livello di intelligenza politica dovrebbe suggerire il parlamento nazionale e l’esecutivo a trovare soluzioni appropriate a conservare il proprio ruolo di interfaccia tra le emergenti istituzioni soprannazionali che cureranno la governance del sistema industriale globale e quelle gerarchicamente sottoposte che saranno più immediatamente collegate al governo delle economie ‘locali’. Senza risolvere il problema di assicurare la compatibilità tra le decisioni assunte in sede soprannazionale e le aspettative nutrite dalle economie locali le constituency elettorali nazionali saranno portate a stabilire più dirette connessioni con constituency estere animate da analoghe esigenze politiche ricostruendo la struttura geopolitica su base transnazionale. Una soluzione che contribuirebbe a potenziare sia le nuove istituzioni soprannazionali sia le gerarchicamente inferiori ma che si riverberebbe in modo più traumatico sulla cultura politica nazionale attuale; una scelta quella di non assumere iniziative riformatrici destinata a costare più subendo gli effetti di fenomeni esogeni.

La resistenza delle vecchie corporazioni istituzionali alle iniziative riformiste crea un immobilismo politico che degrada agli occhi della pubblica opinione il ruolo stesso della ‘politica’ e la sua legittimità a governare il sistema stato-industria nazionale. Inoltre, le resistenze impediscono di giustificare in modo razionale la mancanza di iniziativa politica. La razionale sostenuta all’assenza di iniziativa si riduce a ragioni ‘etiche’ e quindi dettate da puro e viscerale sentimentalismo; specialmente in un paese in cui vigono scetticismo e cinismo politico da sempre.

Riconoscere l’esigenza di profonde riforme istituzionali dettate da una globalizzazione che procede a ritmo accelerato ripercuotendosi drammaticamente su ogni aspetto della vita nazionale ma sostenere l’esigenza di procedere alle riforme solo dopo avere risolto il problema della moralità in politica è ridicolo prima di essere utopico; anche se la costituzione affermasse il dovere dei rappresentanti del popolo di essere più integri della moglie di Cesare.

Sostenere poi di essere disponibili a concordare le riforme istituzionali solo dopo che la maggioranza eletta al parlamento sia disposta a rinunciare al mandato ricevuto a beneficio d’un governo di solidarietà nazionale, è altrettanto ridicolo; delegittima la stessa fonte elettorale da cui deriva la rappresentanza parlamentare.

Pretendere addirittura che il leader stesso della maggioranza eletta al parlamento e capo dell’esecutivo sia disposto a suicidarsi politicamente prima di accettare di negoziare le riforme istituzionali tra maggioranza e minoranze, suona altrettanto ridicolo; pretende che il leader politico e capo dell’esecutivo accetti di essere il capro espiatorio nazionale tradendo inoltre il mandato affidatogli dal corpo elettorale. Inoltre quel sacrificio masochista, improbabile, non vincerebbe le resistenze opposte dalle vecchie corporazioni istituzionali che si sono tradotte in una razionale patetica, a-politica e farisaica che si oppone alle riforme.

In Italia sarebbe più apprezzato un atteggiamento cinico iniziale che risolva alla base il presunto ostacolo ad ogni profonda, risolutiva riforma costituzionale. Una delle periodiche amnistie giustificate dall’affollamento delle carceri o dall’intasamento di cause pendenti nei tribunali che chiuda la risibile scusa opposta finora per pure ragioni reazionarie di conservazione dei vecchi privilegi corporativi e negozi celermente le modifiche che sono ormai state esaminate più volte da sterili commissioni bicamerali in assetti di assemblee costituenti sotto la guida dei più credibili (a suo tempo) protagonisti politici delle due maggiori fazioni rappresentate in parlamento.

Ormai il tempo sprecato ha ridotto in modo significativo i gradi di libertà a disposizione di queste assemblee riformiste cui sarebbe negato negoziare ogni forma di modifica fiscale o del diritto del lavoro grazie al consolidamento sopraggiunto di decisioni autonome del mondo industriale in molti temi relativi a quei due comparti del diritto. Ciò che potrebbe essere negoziato tuttavia sarebbe ancora efficace e fattibile. Efficace in quanto la riforma della giustizia e del diritto del lavoro potrebbero rilanciare la competitività del sistema nazionale e fattibile in quanto le risorse necessarie per sostenere l’implementazione delle riforme decise si potrebbero ottenere dall’accelerazione del sistema pensionistico verso un pensionamento ai 67 anni sia per le donne che per gli uomini. La maggiore mobilità, i più efficienti servizi giurisdizionali e le maggiori risorse disponibili potrebbero ridurre il debito pubblico e avviare una riforma del sistema fiscale nazionale; l’altro elemento nazionale che ostacola la competitività internazionale del sistema Italia.

Meno stato, migliori servizi, minori oneri fiscali, maggiore flessibilità, migliore formazione professionale e maggiore disponibilità di risorse finanziarie per l’industria garantirebbero il rilancio dell’economia in Italia senza attendere improbabili soluzioni occupazionali dallo stato o irragionevoli Sahagamana o autodafé volontari da parte del leader e protagonista vincente da vent’anni ogni sfida politica e legale.