10/10/2009

Produzione e distribuzione nel sistema capitalista-liberale

Il capitalismo-liberale di libero mercato ha dimostrato la sua ineguagliabile capacità di produrre non solo la crescita costante di benessere economico ma anche la parallela crescita costante di benessere politico col suo inarrestabile ed “arbitrario” ruolo-pilota nell’imporre dosi crescenti di liberal-democrazia in tutti i regimi istituzionali che hanno scelto di servirsi dei suoi “servizi”. I suoi “servizi” si dimostrano tanto più redditizi e benefici ai fini della crescita di competitività di ogni “regime politico” sullo scenario geo-politico di interesse, quanto più il regime rispetta i “criteri” del libero-mercato. Tanto maggiori le libertà ad intraprendere, tanto migliore la produttività del sistema-paese governato e tanto più celere la crescita del reddito nazionale prodotto. Tra i “criteri” che definiscono il libero-mercato non figurano fattori associati a fini “ideologici” e ciò consente anche ai regimi politici ispirati dalle ideologie più illiberali di consentire al capitalismo-liberale di svolgere i suoi servizi nel paese.

L’Unione Sovietica si trovò costretta anch’essa più volte a ricorrere ai “servizi” del liberismo-capitalista coi periodi di Nuova Economia Popolare promossi da Lenin. Il risultato conseguente fu tanto efficace sul piano economico quanto fertile di connesse conseguenze su quello politico. La società, una volta assaporati i benefici economici del capitalismo, diventava sempre meno disponibile a rispettare i “criteri” ortodossi della ideologia comunista. Ciò, alla lunga, avrebbe condotto all’illegittimità sociale delle istituzioni politiche fondate su un’ideologia incompatibile con il capitalismo-liberista e quindi alla inevitabile “rivoluzione borghese” che, da sempre, è trionfata non-ostante tutte le resistenze opposte da regimi meno soddisfacenti per la crescita di benessere economico. La conclusione di ogni ancien régime nella storia è stata la rivolta al fisco di uno Stato centrale improduttivo e “vizioso” anche se ideologicamente “virtuoso”.

I regimi “fascisti” molto meno ideologicamente accorpabili, avendo come scopo la crescita della nazione, si sono invece dimostrati molto più tolleranti nei confronti dei “criteri” ispiratori del capitalismo-liberale. Ciò ha consentito ad esempio a Mussolini di ammodernare le infrastrutture istituzionali ed industriali del paese in un solo ventennio partendo da una situazione economica e sociale interna molto poco consolidata. Ciò ha consentito altrettanto a Hitler di condurre il paese nel giro di soli tre anni dalla situazione degradata sia sotto il profilo economico che sociale della Repubblica di Weimar allo stato di maggiore potenza industriale e con un sistema economico capace di affrontare un conflitto mondiale all’insegna paranoica di “noi contro tutti”. La Cina Popolare oggi ha capito la lezione e sta riuscendo a conservare gradi di accettabile gestione di un sistema nel quale il governo ha permesso forme sempre più frequenti di capitalismo-liberale. Mentre il benessere dei cinesi cresce, anche il dissenso sociale contro l’illiberale regime centrale cresce e le rivolte sono tenute a bada con carote di crescita economica e bastoni di repressione manu-militari. Si ripete il regime del “socialismo di stato” (welfare state) inventato da Bismarck nell’ottocento. È stata una scelta saggia da parte dei governanti cinesi che, forse, potrà consentire a quel regime illiberale di migrare lentamente verso gradi sempre più alti di liberal-democrazia diluendo i “criteri ideologici” e accogliendo i “criteri” non-ideologici del capitalismo-liberista a dosi omeopatiche. Ciò potrà evitare a tutti di ripercorrere la fase di guerra mondiale solo per doverci liberarci di un sistema improduttivo e illiberale. Se si lascia fare al libero-mercato capitalista il criterio del “laissez faire” contaminerà gradualmente tutti gli ambiti della società e maturerà le aspettative di sempre maggiore “libertà” decisionale che deve corrispondere a dosi di maggiori “responsabilità” personali per non restare una sterile e fittizia “concessione” revocabile dal “sovrano” (Re, Imperatore, Partito o Papa) a seconda della fase di liberal-democrazia (affrancamento dalla schiavitù) che si è riusciti a costruire grazie al meccanismo non-ideologico e pragmatico del capitalismo-liberista che ha sviluppato quindi dapprima dosi di maggiore benessere materiale attraverso l’impiego capillare ed efficiente della creatività individuale di tutti e del loro impegno quotidiano alla ricerca di costruirsi tipi di felicità magari criticabili e all’insegna dell’avido egoismo che il libero mercato riesce a comporre in modo miracoloso e inconsapevole (un ripetersi costante di Serendipity) in un benessere complessivo di maggior gradimento sociale rispetto a qualsiasi altro istituto ideologico ed astratto imposto dall’alto dai “migliori” su sudditi incolti che è necessario tutelare nel loro stesso interesse.

Per capire l’attrattività del capitalismo-liberale basta vedere le due funzioni opposte del “muro” a Berlino e al confine col Messico (uno per impedire che i “sudditi” fuggissero, l’altro per impedire che gli “immigranti” eludano le leggi sull’immigrazione. Ciò dovrebbe far riflettere oggi nei confronti di quel “muro virtuale” che occorre erigere contro ogni immigrazione illegale per tutelare l’interesse di tutti sia del Sud che del Nord dal collasso per elusione dei “criteri” non-ideologici che garantiscono la sopravvivenza della liberal-democrazia tramite la sopravvivenza del libero-mercato e del capitalismo-liberista. L’immigrazione negli USA dal Sud è stata sempre motivata dall’aspettativa di maggiori opportunità di “guadagnarsi” la felicità liberi dai vecchi vincoli. L’offerta di provvidenze dello Stato Sociale di memoria bismarckiana in alcune città e stati degli USA ha avviato invece un’ondata di immigrazione illegale e motivata da quelle guatuità (“food-stamps”) ciò è incompatibile con la liberal-democrazia già maturata dagli USA e costituirebbe un regresso di quel Paese-guida della globalizzazione in corso sotto il profilo della efficienza produttiva ed innovativa. Ciò si tradurrebbe in una perdita di potenza della “locomotiva” della produzione industriale sia al Nord che al Sud ove i danni sarebbero evidentemente i più veloci e di maggiore intensità. Il tracollo dei regimi di transizione come quello cinese coinvolgerebbe anche ripercussioni regionali sui paesi a liberal-democrazia meno solida (Giappone, UE, India, Sud America). Oltre alle ripercussioni economiche sui più deboli sorgerebbero nuovi conflitti internazionali regionali motivati dalla ricerca di consenso politico interno. L’esistenza tra quei paesi di regimi autoritari e dotati di armi nucleari condurrebbe inevitabilmente ad alleanze internazionali alla ricerca di disarmare le dittature da parte delle democrazie. Vogliamo realmente affrontare il rischio di nuovi conflitti mondiali per non tutelare i “criteri“ del libero mercato che non consentono forme di tutele illiberali e irresponsabili dello Stato Sociale verso i “sudditi”? Occorre allora agevolare la globalizzazione accettando la flessibilità sul lavoro e filtrare rigorosamente l’immigrazione a fronte delle esigenze industriali in corso.

Occorre trasferire al Sud opportunità di guadagnarsi il benessere delocalizzando fasi manpower-intensive di una produzione industriale globalizzata che estende i criteri della liberal-democrazia oltre i confini dei vecchi Stati Nazione invece di sradicare dal Sud le migliori e più intraprendenti risorse umane con nuove forme di tratta di schiavi per contendersi le limitate opportunità di lavoro offerte dal mercato interno degli Stati Nazione stessi che, per ragioni di pura difesa di interessi protezionisti e corporativi, ostacolano la chiusura delle fasi più “mature” della produzione industriale per aprirne altre incentrate su fasi capital-intensive che, combinate con le fasi manpower intensive al Sud hanno dimostrato di saper far crescere il reddito globale in modo mai sperimentato in precedenza nell’arco degli ultimi trenta o quaranta anni.