10/09/2010

Scenario globale e relazioni Cina-Occidente

Con estrema chiarezza e sintesi Carlo Pelanda ha illustrato le perplessità che sollevano l’attuale schema gerarchico nelle relazioni internazionali sulle quali sta sviluppandosi la governance politica del sistema industriale.

In estrema sintesi il rapporto privilegiato G2 (USA e Cina) viene denunciato come rischioso per la bassa affidabilità politica della Cina di cui si sospetta piena inadempienza alle garanzie di stabilità interna e di convergenza esterna accettate da Clinton sulla base di vaghe promesse totalmente disattese fino a oggi.

Questa scelta strategica avrebbe messo in sottordine la prioritaria solidarietà ‘Occidentale’ col Giappone e l’UE nel G8 ed avrebbe incentivato una visione imperialista della Cina fondata sul suo tasso di crescita e sulla crescente preponderanza relativa del suo sistema nazionale rispetto a quello globale.

Fattore suffragato dalle previsioni di ‘menti sottili’ come Robert W. Fogel dell’Università di Chicago (un premio Nobel) che ‘profetizza’ per il 2040 un PIL cinese di 120 trilioni di dollari pari al 40% del PIL globale con la riduzione del PIL USA a un mero 14% e di quello dell’UE al marginale 5%.

Ebbene a dare fede a questa ennesima previsione di vero terrorismo macro-economico la logicità della scelta di Clinton (Bush) ed Obama apparirebbe evidente; chi infatti sceglierebbe di associarsi a partner affini ma inaffidabili come l’UE, destinati a sparire come peso nella visione globale dell’economia, invece di integrare il potenziale del proprio sistema industriale egemone attualmente rispetto a ogni altro concorrente nella fiducia di poter condizionare in tal modo lo sviluppo macroeconomico di un paese che è ancora arretrato, affamato, pre-industriale e destinato a superare le enormi difficoltà che lo sviluppo dell’economia industriale impone a tutti i servizi tecnologici infrastrutturali di diffuso interesse pubblico; tra i quali i servizi logistici, quelli professionali, quelli amministrativi e quelli politici ad aspettative della società civile che risulteranno sempre meno coartabili e uniformabili a un sistema primitivo fondato sul regime autoritario in corso di crescente auto-delegittimazione?

Se quindi la scelta di privilegiare il duopolio G2 rispetto al G8 fosse realmente ascrivibile alle esclusive competenze della politica istituzionale (Casa Bianca) sarebbe quasi naturale giustificarla, la scelta invece si forma (come tutte le scelte in regimi di libero mercato) in diversi ambienti tra cui Wall Street (cioè le istituzioni finanziarie) ha un peso naturalmente prioritario per riuscire a valutare la sostenibilità e la credibilità delle scelte stesse. Infatti ogni scelta di crescita industriale, prima di essere adeguata nelle sue inevitabili successive ripercussioni alle aspettative sociali e ai criteri per dare alla governance legittimità politico-istituzionale, deve essere valutata sul piano della sua sostenibilità finanziaria globale. Senza la quale ogni scelta strategica risulterebbe pura utopia politica; sulla traccia degli esempi di cui è ricca la storia umana.

La prima scelta è stata quella di avviare (finanziare) la globalizzazione industriale senza chiedere il permesso alle istituzioni preposte alla vecchia governance dei sistemi produttivi industriali nazionali.

Avviata a valanga quella fertile decisione, i risultati globali si sono dimostrati universalmente scomodi ma altrettanto universalmente appetibili e quindi hanno sollecitato un diffuso consenso nei confronti di un processo di crescita del PIL globale i cui benefici non risultano ristretti a nazioni privilegiate né dal condividere i criteri propri dei regimi ‘Occidentali’ (la ‘società delle democrazie’), né penalizzate dal loro attuale reddito o dal livello di cultura professionale, politica o religiosa.

Questa scelta ha fatto superare in tempi rapidi ogni vecchio confine settario per privilegiare invece nelle relazioni internazionali i criteri tecnici che sono dettati dall’industrializzazione in tutti i comparti.

È evidente che la universale convenienza di aderire al processo fondato sulla reciproca cooperazione in spirito di competitività, stia sollecitando profonde modifiche nelle abitudini sociali in ogni paese. Con i relativi disagi economici che per essere superati richiedono modifiche sia nelle relazioni industriali che in quelle istituzionali (come l’attuale vicenda nel comparto metalmeccanico in Italia).

Le modifiche comportamentali e la crescita del reddito sollecitano anche aspettative diffuse di maggiore autonomia settoriale e individuale che a loro volta sollecitano nuove forme di aggregazione sociale sul piano politico (come avviene in ogni paese con forme peculiari ma analoghe di regionalismo).

Ciò è destinato a manifestarsi sempre più anche in Cina (e negli USA) in misura crescente al crescere del reddito e della diversità della sua crescita. Le iniziative centraliste di bilanciare questa disparità nella crescita dell’economia saranno sempre più invise e dovranno assumere modalità autoritarie costose ma soprattutto incompatibili con la crescita di responsabilità e autonomia decisionale necessarie per dare sostegno alla nascita di un sistema industria-stato nazionale che sia realmente competitivo; nel senso di risultare tale credibilmente da parte del capitale finanziario internazionale (la Wall Street estesa in corso di consolidamento).

In altri termini i regimi partecipanti liberamente alla gara di protagonismo politico sullo scenario geo-politico futuro, per tentare di acquisirvi un’egemonia comparabile alle proprie ambizioni, dovranno agire in modo da attrarre finanziamenti adeguati alla propria crescita industriale (il vero fondamento della potenza politica) e quindi dovranno soddisfare le costanti crescite di aspettative della Wall Street estesa (per ottenere la carota che traina lo sviluppo e gli scambi) e dovranno anche agire in modo da soddisfare le aspettative provenienti dalle rispettive Main Street che saranno sempre più protagoniste dello sviluppo industriale (perdendo così il bastone che garantisce attualmente le decisioni politiche nei paesi più poveri ed autoritari).

Questa è la visione fondamentale che nutre il capitalismo-liberista e l’associato regime politico liberal-democratico ‘Occidentale’ e che è confermato dalla lettura della storia della diffusione trionfante della nostra civiltà nel mondo; contro ogni resistenza, resistenza, resistenza opposta da corporazioni e da consorterie legittimate da astratte ideologie (tutte dottrine sociali di taglio buonista).

Questa premessa ci consente di sdrammatizzare le visioni più pessimiste sull’esito della scelta G2.

Infatti, anche se la Cina non modificasse la sua percezione di futura egemonia (dettata dal classico delirio di onnipotenza che ispira ogni regime autoritario e ideologicamente ‘giustificato’), la sola possibilità di imporre questa sua egemonia sul piano politico risiederebbe nell’investire in un bastone militare capace di disincentivare ogni tentativo estero di ostacolarla.

Orbene, la prevedibile evoluzione del sistema stato-industria della Cina incontrerà certamente fasi di rallentamento e di arresto o regressione con ripercussioni sociali e politiche interne ma, anche se ciò non avvenisse (grazie ad una inimmaginabile peculiarità antropologica di un paese popolato da signori tutti con occhi a mandorla ma appartenenti a centinaia di etnie con lingue, religioni e culture diverse) la carota militare dovrebbe ricevere credibile sostegno da un sistema logistico-industriale assolutamente egemone e autarchico.

Creare un sistema stato-industria nazionale capace di garantire competitività militare ad un paese di enormi dimensioni e complessità geopolitica come la Cina richiede ben più che la crescita del PIL. Esso richiede la disponibilità di dosi enormi di flessibilità operativa e produttiva che neanche la Germania di Hitler (o in precedenza quella di Bismarck e Cecco Peppe) riuscì a conservare per un arco di tempo che permise ai quasi imbelli USA di diventare la macchina da guerra più poderosa mai vista dalla caduta dell’Impero Romano. Non furono i marines, né l’OSS o i partigiani a vincere lo scontro. Esso fu vinto dal sistema industriale USA alimentato dal debito pubblico e dalla sua solvibilità finanziaria agli occhi di Wall Street. In altri tempi l’Impero Spagnolo non ebbe analogo sostegno dalla finanza internazionale come non lo ebbe la Francia di Luigi XIV o quella di Napoleone Bonaparte. La finanza internazionale sostenne l’impresa di Lenin non per simpatia ideologica ma per l’assenza di credibilità economica della Russia zarista.

Spesso si parla di adeguare lo stato (i servizi politici e amministrativi) e i servizi d’un diffuso interesse pubblico (trasporti, comunicazioni, istruzione, energia, acqua, logistica, etc.) alle esigenze del sistema produttivo e distributivo industriale. Non si prende in considerazione il fatto che, tanto più vasto è il sistema sul quale quei servizi devono risultare competitivi (o addirittura egemoni), tanto più accessibile e fruibile esso deve risultare all’accesso da parte dei più dispersi e periferici produttori-risparmiatori-consumatori-elettori.

Tale accessibilità è funzione di parametri elementari ma ben identificabili (lingua, cultura, abitudini e aspettative). Il latino venne accettato universalmente come lingua ufficiale in tutto l’Impero grazie ai servizi cui esso dava accesso (istruzione, formazione professionale, esercito, giustizia, scambi monetari, trasporti, etc.). Era l’adeguatezza delle leggi di Roma rispetto alle aspettative di benessere e sicurezza che ogni cittadino nutriva nei confronti del potere istituzionale a rendere ‘fruibili’ le istituzioni di Roma in ogni provincia. Ciò proseguì oltre la caduta dell’Impero e si prostrasse in ogni aspetto delle relazioni internazionali fino a tutto il 1700 e oltre.

Immaginare che il ‘cinese’ e le sue leggi possano sostituire l’inglese e la common law la desiderabilità dei cui servizi è diffusa da quella sorta di formazione-on-line data dalle sit-com, serie-TV o dai sempre più liberi scambi su Internet tramite cellulari e palmari sembra realmente improbabile. D’altronde se l’inglese verrà accettato come ‘infrastruttura tecnologica’ globale, sembra impossibile che la cultura e i comportamenti quotidiani dei miliardi di cinesini non ne debbano subire un ‘addomesticamento’ che è la premessa all’avvento della liberal-democrazia.

Ciò conferma la saggezza di Wall Street (e l’opportunismo della Casa Bianca) a scegliere come veicolo strategico per raggiungere rapidamente una governance condivisa la soluzione duale G2. Anche se ciò abbia dovuto porre in seconda linea gerarchica l’assemblea dei G8. Infatti la maggiore partecipazione a quel consesso avrebbe ritardato le decisioni mentre l’inaffidabilità dei partner industriali ‘Occidentali’ sul piano dell’adesione agli accordi commerciali non sarebbe migliorata mentre la loro compatibilità a scelte industrialmente sostenibili e convenienti sarebbe comunque assicurata dai legami culturali che la storia ha profondamente consolidato nelle Main Street prima che nelle istituzioni politiche degli Stati Nazione resi ormai obsoleti dalla globalizzazione stessa.

Anche in politica estera il laissez faire suggerito dall’adesione più naif e ‘selvaggia’ al liberismo risulta scelta vincente rispetto ad ogni visione machiavellica e intellettualistica del ‘quid agere?’.