09/04/2010

Demagoghi alla disperazione: PIF vs. PIL

Grazie al carattere rivoluzionario, irreversibile e incontrollabile (dagli apparati delle governance dei vecchi Stati Nazione) della globalizzazione sono in atto da tempo da parte dei demagoghi politici nullafacenti sforzi disperati di dare nuova legittimazione all’intervento del dirigismo economico che garantisca ad una nefasta anche se trionfante industrializzazione un’etica politically correct.

I tentativi di suggerire l’egemonia della programmazione industriale su piano globale vengono ricercati tra i temi di ampio respiro temporale e geopolitico proprio per garantire ai demagoghi di sempre una rinnovata egemonia nel contesto del Nuovo Ordine Globale. Un’egemonia che sarebbe sempre meno controllabile dalle tradizionali istituzioni liberal-democratiche preposte a regolare il gioco degli equilibri. Infatti la pubblica opinione non potrebbe essere adeguatamente informata da un sistema educativo e mediatico che non riesce più da tempo a garantire il proprio ruolo autonomo di “divulgatore” delle conoscenze neanche nell’ambito dei vecchi Stati Nazione.

La costituzione liberal-democratica prende ancora in considerazione i soli tre poteri tradizionali (esecutivo, legislativo, giurisdizionale) ma ha rinunciato da tempo a garantire analoga autonomia al potere accademico e non ha potuto prendere in considerazione l’esigenza di analoga autonomia di ruolo al potere dei media.

La perdita di autonomia dell’”accademia” ha condotto quel potere, essenziale per la ricerca scientifica e per la formazione dei “divulgatori” (sia educatori scolastici, sia giornalisti), a divenire sempre più “instrumentum regni” e quindi ad istituire il mondo delle “menti sottili” organiche ai desiderata politici delle elite di governo invece di garantire la disponibilità di un potere istituzionale autonomo privo di condizionamenti e capace di “falsificare” qualsiasi affermazione apodittica che voglia vietare il revisionismo purché esso si esprima sulla base della dialettica logica.

La perdita di autonomia dell’”accademia” inoltre ha asservito alle sole ragioni industriali la definizione delle priorità e delle scelte della ricerca fondamentale. Sbilanciando così l’equilibrio tra discipline chiamate a contribuire punti di vista critici e diversi alla definizione delle scelte di indirizzo che, anche nella ricerca, e necessario definire per la scarsezza delle risorse assegnabili a programmi in reciproca competizione.

La perdita di autonomia dell’”accademia” ha anche degradato la sua capacità di garantire una formazione professionale ai docenti scolastici (col conseguente degrado di educazione delle nuove generazioni di elettori e consumatori) ed ai giornalisti che non curano più sui media i loro ruoli di “divulgatori” scientifici (in tutte le diverse discipline di impatto sulla vita quotidiana – tecniche e umanistiche) in modo autonomo ma si sono sempre più asserviti o alle ragioni della spettacolarizzazione (distorcendo quindi i fatti per ragioni di cassetta) o quelle della carriera aziendale (accettando quindi il ruolo compiacente ed “organico” ai desiderata dello sponsor in questione – politico o industriale).

Questa è la situazione che una nuova costituzione dovrebbe correggere a vantaggio del corretto operare della liberal-democrazia nell’epoca della globalizzazione. Prima di procedere a definire le procedure e le competenze delle istituzioni che avranno in carico la governance del sistema industriale globalizzato.

Comunque vada, si faccia o meno una riflessione sulle inadeguatezze manifeste di poteri e dei bilanciamenti tra di essi, resta permanente la minaccia di assegnare egemonia politica nella nuova governance a criteri che scendano dall’alto (privilegiate dai demagoghi e dalle elite aristocratiche in ogni epoca e regime) oppure di assegnare la egemonia politica a scelte che si vengono a maturare dal basso aggregando “selvaggiamente” le propensioni ai consumi più individualmente liberi scelti da consumatori (responsabilizzati penalizzandone direttamente la spesa) a fronte di una gamma di offerte in reciproca competizione di produttori (cui il libero mercato impone analoga responsabilità individuale attribuendo loro l’onere delle eventuali scelte errate – senza “paracadute” di stato a spese dei contribuenti).

Vediamo ormai un insieme di fallimentari tentativi di legittimare la programmazione industriale dall’alto che si produce con rischi sempre più alti di immagine e di credibilità per gli stessi promotori costretti per disperazione a cercare di recuperare il loro ascendente sui consumatori e contribuenti.

Il pericolo di epidemie (AIDS, aviaria, suina, etc.) è stato ridimensionato dalla stessa evoluzione dei problemi sanitari e ha mostrato sempre più chiaramente il sostegno offerto ai demagoghi dall’industria farmaceutica.

Il pericolo del terrorismo globale sta gradualmente mostrando come esso possa essere efficacemente ridotto con i tradizionali interventi di “carote/bastoni” esercitati dai due mezzi efficaci di diplomazia internazionale (la guerra e le relazioni industriali).

L’impatto del progresso industriale sui fenomeni climatici (non sull’inquinamento che si è dimostrato già in passato pienamente contrastabile grazie proprio al progresso industriale) ha ricevuto una sonora smentita anche sul piano dell’”accademia” (e dei media hollywoodiani) organici ai demagoghi più patetici (Al Gore), oltre che avere già a suo tempo ricevuto analoga smentita all’epoca in cui i demagoghi cercavano di cavalcare l’eco-terrorismo della speculare glaciazione prossima ventura (anni ’70-’80 col seguito dei film hollywoodiani catastrofisti e di cassetta).

L’ultimo tentativo di legittimare la programmazione industriale attribuendo allo stato e ai demagoghi una missione di scegliere le priorità dall’alto è più serio (ed infatti è sostenuto dalla Chiesa di Roma che svolgerà il ruolo di “educatrice morale” nello scenario della globalizzazione industriale e deve quindi legittimare le sue scelte di contrasto alle politiche di governo che non ritenesse “giustificate” alla su dottrina sociale).

Si tratta della ipotizzata revisione del “benessere” (da essi definito “felicità” – come se questa non fosse un fatto assolutamente individuale ma potesse essere definito in modo standard da “menti sottili”) di cui gode ogni Paese. È evidente il tentativo di confutare la pragmatica egemonia del libero mercato che l’industria ‘Occidentale’ ha adottato nei secoli come instrumentum regni indipendente da qualsiasi altro strumento di governo di natura ideologica (sia secolare o religiosa) che alla luce dei fatti storici (l’attuale globalizzazione che unifica regimi di diversissima ispirazione politica) sono stati sconfitti dal libero mercato; unico processo di libera aggregazione dal basso delle disponibilità a consumare il proprio reddito individuale scegliendo panieri di beni e servizi di composizioni le più astruse, irrazionali ma privilegiate dai risparmiatori in modo spontaneo.

La strumentalità del tentativo è evidente e le difficoltà epistemologiche a definire la “felicità” in laboratorio sono altrettanto evidenti, tuttavia merita fare qualche considerazione su questo argomento perché fornisce il modo di chiarire la diversità tra i due approcci al raggiungimento della felicità; il capitalismo-liberista e il socialismo-dirigista.

Si sostiene che al maggiore PIL di un Paese non consegue necessariamente un suo maggiore livello di felicità e che occorrerebbe quindi definire diversi parametri di misura del progresso industriale grazie ai quali il PIL (prodotto interno lordo) possa trasformarsi in un PIF (prodotto interno di felicità) tenendo in considerazione tipi di percezione dell’ambiente più gradevoli di quelli associati alla responsabilizzazione più individuale delle scelte di consumo.

Nel sistema dirigista esiste un solo modo di raggiungere la felicità “gestire lo sviluppo industriale in modo da redistribuire equamente il reddito prodotto integrando il paniere disponibile in regime di libero mercato anche con prodotti e beni garantiti a tutti i consumatori”. Si tratta insomma di “acquistare” a spese dei contribuenti beni e prodotti che sarebbero altrimenti disponibili solo a fasce privilegiate.

Questo approccio sottrae agli investimenti industriali risorse che verrebbero orientate a soddisfare esigenze realmente nutrite dai consumatori potenziali per lasciarle spendere allo stato (il meno efficiente strumento economico esistente tra i quattro schematizzati da Milton Friedman) in acquisto di beni e servizi la cui necessità, caratteristica e diffusione viene studiata in astratto a tavolino da intellettuali alieni alle concrete realtà del produttore/risparmiatore/consumatore.

Il minore afflusso di risorse finanziarie ad alimentare i programmi di crescita industriale crea minor crescita di benessere materiale ma, si sostiene dalle “menti sottili” promotrici del PIF come “instrumentum regni” (e non come puro mezzo educativo e di ricerca scientifica, o “instrumentum fidei”), il minore benessere viene compensato da maggiore accessibilità a beni e servizi non superflui (come quelli che caratterizzano le libere scelte dei consumatori - il benessere) e psicologicamente più necessari per fruire d’un livello di felicità più alto.

Si sostiene infatti che il libero mercato sia dominato da produttori capaci di condizionare i consumi e di sollecitare la preferenza al superfluo e al nocivo generando così un crescente inquinamento delle coscienze e dell’ambiente. Un ambiente che presenta limiti oggettivi all’aumento dei consumatori e che quindi richiede che a regime essi aderiscano a un modello caratterizzato da panieri di consumi a minori contenuti materiali, minori sprechi, maggiori contenuti immateriali.

Il libero mercato invece serve proprio a stimolare la nascita di nuovi produttori di altri tipi di beni e servizi che sappiano contendere ai vecchi protagonisti industriali l’egemonia incentrata su beni e servizi ormai abusati e meno appetiti del passato. La competizione tra produttori obbliga a ridurre i costi e a migliorare la qualità dei beni e servizi offerti al consumo. Questa competizione aumenta lo sviluppo industriale, la disponibilità dei beni, la produzione di scorie e obbliga a sviluppare innovativi processi produttivi meno costosi e inquinanti di quelli concepiti dai vecchi concorrenti industriali. I limiti dettati dall’inquinamento ambientale vengono risolti creando nuovi processi e prodotti capaci di smaltirlo o prevenirlo e ciò crea nuove occasioni di crescita industriale. Le nuove offerte di consumo, pur non coartando le libere esigenze dei consumatori assicurano loro soddisfazione tenendo conto dei crescenti costi di consumi materiali, energetici, ambientali e delle reazioni derivanti in termini di propensione dei consumatori all’acquisto di beni sempre più rispettosi per il profilo di sensibilità umane, civili e ambientali da essi maturato.

Ciò che entrambi i paradigmi (liberista e dirigista) si propongono quindi è il raggiungimento della felicità per i consumatori. Ciò che entrambi paventano è l’inutile spreco di energia, ambiente, inquinanti.

Il libero mercato sostiene che seguire il libero maturare delle propensioni al consumo dei consumatori è la molla capace di creare il progresso industriale senza conculcare la libera e individuale crescita di sensibilità civili dei singoli consumatori.

Il dirigismo sostiene invece che occorra educare i consumatori ad appetire ed apprezzare appieno l’apporto alla felicità derivante da un modello austero di consumi limitando il “selvaggio” sviluppo industriale con una programmazione di scelte esercitate dall’alto tramite fiscalità ed agevolazioni finanziarie “selettive”.

La scala dei bisogni di Maslow è stato un tentativo per far capire come maturino le propensioni del consumatore nell’arco della sua evoluzione psichica. La scala definisce l’aspirazione a soddisfare una gerarchia di bisogni il cui contenuto “materiale” cala sempre più a favore di contenuti sempre più alti di “immaterialità”. Si va dal desiderare il possesso di beni per superare l’indigenza (o la sua percezione), al possesso di beni per proiettare di sé un’immagine all’ambiente di vita (status formale), al possesso di conoscenze per ricevere gratificazioni economiche (prestigio professionale), al possesso di conoscenze per sofisticare le proprie abilità di godere dell’ambiente di vita (cultori di arte, natura, scienza, etc.) fino al possesso di conoscenze per sviluppare proprie doti umane e psichiche (“trascendenza” dei limiti fisici fino all’ascesi e alla dedizione ad attività “missionarie”).

Ebbene sotto il profilo scientifico fornitoci da queste applicazioni della scienza psicologica alle attività umane si può capire che, per i liberisti, una società in cui prevalgano scelte di consumi orientate su panieri di beni e servizi caratterizzati da austerità di costumi per ciò che concerne l’appagamento dei bisogni di contenuto più “materiale” nella scala di Maslow è il punto d’arrivo che raggiungerà spontaneamente il libero mercato di consumatori i cui profili di propensione ai siano ispirati ad elementi più “immateriali” e a comportamenti più orientati alla propria crescita culturale e spirituale ed a stabilire relazioni sociali meno orientate al lucro e all’esercizio del potere. Mentre, per i dirigisti, la società più austera ed ispirata al solidarismo e all’offerta di sé alla comunità deve essere “costruita” educando i consumatori/produttori/risparmiatori a rinunciare alle loro più naturali e spontanee motivazioni per aderire a comportamenti e priorità di scelta “giustificate” ai gradini superiori della scala di Maslow. Una rinuncia innaturale che richiede quindi l’intervento educativo e programmatore di un’istituzione “superiore” (partito, stato, chiesa) garante dell’ortodossia dell’etica sociale e autorizzata quindi a sanzionare le deviazioni come reati/peccati. Reati in quanto infrangono le leggi civili, peccati in quanto le leggi stesse sono “giustificate” alla “dottrina sociale” politicamente corretta (secolare o religiosa che essa sia).insomma introdurre come fondamento della legittimità della governance politica della globalizzazione una valutazione della crescita del PIF in sostituzione del PIL non è altro che un disperato tentativo dei demagoghi di giustificare la loro avidità fiscale sul PIL (prodotto dai consumatori sul mercato di capitalismo-liberista) al fine di prevenire i danni collaterali prodotti dal capitalismo-liberista stesso per la mancanza di “programmazione” della sua prevaricante crescita “selvaggia”.

Si tende a sostituire il dirigismo autoritario della programmazione “accademica” di stato come fattore-pilota di una società forse meno ricca e meno libera ma più “felice”; pur di aderire alla sua definizione “ortodossa”.

Riflettiamo consumatori, riflettiamo! È meglio una lenta maturazione individuale verso la santità immersi nel benessere e nella libera responsabilità di scelta oppure un accelerato progresso verso luminosi orizzonti da percorrere nell’indigenza e sotto l’occhiuta sorveglianza di paterni ma sapienti Soloni?

Non sarebbe più saggio, visto il successo del capitalismo-liberista ad estendere il benessere e le libertà civili su dimensione globale, arricchire la costituzione liberal-democratica codificandovi gli altri due poteri istituzionali che concorrono a stabilizzare gli equilibri della governance in un’epoca che non ci permette di compiere scelte elettorali di “buon senso” a meno che il “senso comune” non sia adeguatamente costruito su di un’informazione divulgativa ma scientificamente corretta e cioè non “organica” a demagogie di sorta?

 

I miti emblematici della cultura ‘Occidentale’

Ogni cultura si ispira a modelli culturali che vengono trasmessi nei secoli tramite i racconti mitologici.

I miti non sono uguali in tutte le culture. Le specifiche tradizioni culturali ispirano racconti mitologici capaci di rappresentare sia i drammi attraversati dai singoli individui nel corso della loro evoluzione dal ruolo di “irresponsabili” privi dei diritti civili alla cerimonia di iniziazione al ruolo adulto accettato dai suoi simili. Si tratta della sequenza dei miti descritti dallo psicodramma delle tragedie greche che è capace di narrare il “percorso” che ciascuno attraversa per assurgere dallo stato di bambino a quello di adulto riuscendo a liberarsi dalla soggezione alla figura del padre. Una figura introiettata durante la prima infanzia la cui consistenza è spesso totalmente avulsa dalla reale consistenza delle relazioni genitoriali e piuttosto ispirata dalle percezioni relazionali proiettate da ciascuno sui suoi referenti fisici operanti nel contesto della propria famiglia.

Questi miti si sviluppano in percorsi narrativi caratteristici dell’età evolutiva che presiede alla formazione della personalità e del profilo relazionale e comunicativo che codifica la cultura viva nel nucleo più intimo della società. Il nucleo del (che libera dalle dipendenze parentali e consolida l’autostima e la assertività) e il nucleo del noi (che tutela ogni personalità nella sua ricerca di costruire un grado adeguato di proattività e di responsabilità verso se stessa). Si tratta di miti universali adatti a alimentare percorsi d’educazione iniziatica proponendo modelli comportamentali tramite le favole, le parabole, i proverbi, le usanze, la scuola che deve assicurare l’educazione primaria degli esseri umani. Le diversità educative sono molto ridotte e concernono soprattutto la diversità di genere.

I modelli culturali si arricchiscono poi di un altro patrimonio di narrazioni mitologiche che educano ogni specifica società ad adottare comportamenti aderenti ai valori, ai loro pesi reciproci, ai criteri da rispettare nella negoziazione di possibili scambi tra di essi, etc..  Si tratta di narrazioni mitologiche che educano le nuove generazioni ad ispirare i propri comportamenti nel rispetto delle tradizioni che hanno costruito la specifica forma di civiltà di appartenenza. Sono comportamenti che legittimano, stigmatizzano, penalizzano socialmente per tutelare l’ortodossia culturale; la base delle manifestazioni di spicco in ogni comparto delle manifestazioni individuali e di gruppo (arte, scienza, filosofia, tecnologia, imprese, aziende, esplorazioni, atti eroici, etc.) che caratterizzano nel loro insieme ogni civiltà che si distingue dalle altre proprio grazie alle manifestazioni pratiche e alla loro coerenza interna.

La civiltà industriale è stata implementata grazie alle caratteristiche più peculiari della civiltà ‘Occidentale’ che si possono riepilogare evidenziando particolari atteggiamenti elevati dalla narrazione mitologica come esempi di eccellenza.

Tra gli altri il mito di Ulisse sembra particolarmente emblematico. Ulisse re di Itaca rappresenta una isola “provinciale” nel contesto di una federazione di altrettanto “provinciali” città-stato. Ulisse non esita ad aderire al conflitto armato su invito di Agamennone e, prima che mostrare le sue preclare virtù sul campo di battaglia, prodiga ogni sua forme di eccellenza relazionale al servizio della causa comune convincendo il “provinciale” Achille a superare le sue fisime etiche ed aderire nell’interesse superiore della comune civiltà. Dopo avere dimostrato il suo coraggio ed eroismo sul campo di battaglia, Ulisse dimostra anche l’eccellenza delle sue doti di astuzia, subdola ma consentita alla luce dell’interesse superiore, con il marchingegno del Cavallo che rappresenta l’impiego delle tecnologie più sofisticate al servizio della vittoria sul nemico; un mix di guerra tecnologica e psicologica.

Ulisse si trasforma poi nell’emblema ‘Occidentale’ dell’irrequietezza umana nella ricerca di conquistare l’ignoto; i cui valori vengono anteposti a quelli della famiglia e della tutela del proprio gruppo di compagni dai rischi imposti dall’impresa e perfino dai benefici pratici che potrebbero derivare dal successo della stessa. Le colonne d’Ercole presentano per Ulisse un’attrattiva a sé indipendentemente dai rischi o dai premi che si potrebbero ricavare dall’impresa. Il ritardo del rientro in patria, nelle braccia della moglie e tra gli affetti di famiglia o il rischio della propria sopravvivenza niente costituisce premio maggiore della ricerca di vincere la sfida del futuro.

Il radicamento nel “provinciale” più locale costituisce un valore per sé e viene evidenziato dal rientro d’Ulisse con le stesse arti di astuzia, di determinazione, di audacia eroica e di eccellenza bellica che ripulisce la reggia dai parassiti indegni di clemenza col solo ausilio della propria superiorità individuale. La fedeltà coniugale di Penelope messa a dura prova da oltre vent’anni di assenza non è condizionata dalle ragioni dell’assenza di Ulisse; il “capo” in famiglia, in guerra, nell’esplorazione verso l’ignoto e nell’isola.

Gli “eroi” sono coloro che scelgono di rischiare lanciando il cuore oltre la trincea ma che non disdegnano di usare le arti dell’astuzia e della tecnica per raggiungere scopi che sarebbero preclusi senza ricorrervi. Questo evidenzia l’analogo carattere emblematico d’eccellenza per l’imprenditore industriale in tutti i comparti, da commercio, a manifattura, a terziario. È il sapere-per-fare che costituisce un valore superiore rispetto al sapere-per-il-sapere; anche in politica è privilegiato il consigliere della strategia vincente (il Machiavelli) a fronte del filosofo sapiente che suggerisce solo la prudenza fine a se stessa che si traduce in contemplazione della realtà consapevoli che nulla giustifica un’azione che è sempre prevaricatrice e offensiva delle altrui opinioni.

Enrico Mattei e tutti i tycoon che hanno costruito il capitalismo-liberista costituiscono gli eroi del progresso civile ‘Occidentale’; un progresso che non ha solo costruito maggiore benessere economico ma a suo seguito anche maggiore rispetto dei diritti civili fondati sulla responsabilità individuale priva dai tipi di protezione dall’alto dietro ai quali si nasconde sempre un rischio di sfruttamento e una forma di asservimento.

 

Destra, Sinistra nella globalizzazione

Se tutti i "sinistri" fossero come un Jefferson, o più modestamente un Bowie o anche un Crocket - tutti anarco-liberisti) la "sinistra" (checché voglia dire questo termine) sarebbe in grado di ridefinire oggi i criteri ispiratori di una sua linea politica nel contesto geopolitico che, essendo cambiato in modo drastico, non consente di trasferirvi i valori, priorità, criteri e pesi che determinano le scelte di negoziazione di scambio tra valori che un tempo erano stati consolidati nello scenario dello Stato Nazione.

Un tempo, era solo la "nazione" (un fatto fascistoide) a legittimare lo Stato Nazione a difendere in modo egoistico gli interessi dei suoi cittadini contro la minaccia estera con imperialismo, colonialismo, welfare state e protezionismo che escludeva chiunque non appartenesse alla Sacra Patria.

Nell’odierna globalizzazione più travolgente nessun vecchio Stato Nazione possiede più la "legittimità" di chiudersi in sé (tranne forse Israele ma ciò è radicato nella bibbia, nell'olocausto, nella diaspora e nel “nazionalismo” sionista che è unica fonte di legittimità per lo Stato Nazione nato quando tutti gli altri Stati Nazione erano ormai morti!).

Oltre a non avere più legittimità di agire sulla base di principi "nazionalisti" nessuno dei vecchi Stati Nazione può escludersi autarchicamente dalla lotta per la competitività del suo sistema industria-stato sul libero mercato di scambi globali. Né d’altronde esiste ancora un’accettata struttura istituzionale che presieda alla governance del sistema industriale globalizzato. Quando nascerà, quel Nuovo Ordine Globale sarà fondato inevitabilmente su parametri non-ideologici ma capaci di commisurare il "peso reale" (e non estrapolato da ubbie di grandeur passati) dei singoli Paesi che hanno accettato di scambiare beni, persone, finanze e idee per concorrere alla comune crescita di benessere.

È inevitabile per esempio che il numero di consumatori-risparmiatori-produttori dia a Cina e India un peso analogo a quello del sistema industria-stato USA che è egemone oggi e per il prossimo cinquantennio (non ostante il rosicare e gufare di Francia, Russia e altre potenze vincitrici !!! del secondo conflitto mondiale). 

Si tratta di due “pesi” geopolitici che è accettabile paragonare per la loro complementarietà alla luce del giro d'affari e del migliore ritorno sugli investimenti necessari per promuovere la crescita del benessere globale.

Occorrebbee quindi che le "sinistre" abbandonassero ogni istituzione ottocentesca (sindacati, welfare state, etc.) che oggi è inadeguata a tutelare chicchessia per mancanza di risorse e di paragonabile livello operativo e si impegnassero invece a coltivare su base globale il valore aggiunto delle nicchie economiche meno dotate di "mobilità" impegnate a difendere il proprio valore economico e si impegnassero a difendere i consumatori "locali" su base industriale con forme private di risarcimento collettivo a-posteriori dei danni provocati dalle forme più truffaldine di concorrenza estera.

Ralph Nader (un avvocato che ebbi il privilegio di incontrare negli anni '70, era solo un astuto squalo avido e capace di arricchirsi con le sue iniziative di efficaci class action). Nader non era Stato ma la Consumer Union è stata un’istituzione credibile proprio in quanto privata nelle prestazioni e negli obiettivi.

La Lega Nord sta raccogliendo consensi tra le maestranze meno qualificate e i piccoli imprenditori vincolati al territorio (rurali e artigianato di qualità) così come Alemanno (la "destra sociale" è la componente di-sinistra del MSI ancora legata alla Carta di Verona della RSI) mentre i PD classificano ancora "di destra" questi successi mentre, per poter, vincere accettano di associarsi a fascistoidi del calibro di Grillo e Di Pietro.

Io questo lo considererei masochismo puro se non avessi appreso dalla storia del mondo che le "sinistre" sono sempre state ripiene di incapaci, falliti nelle loro professioni liberali, che hanno sempre cercato scorciatoie nelle "rivoluzioni" più illiberali e autoritarie per proporsi di “educare” i loro consimili ad aderire a comportamenti più "etici" di quelli naturali e quindi astratti e invisi sia agli anarco-liberisti che alle gerarchie dello stesso partito rivoluzionario o della Chiesa secolarizzata. Ma allora di che stiamo parlando in Italia con riferimento alla “crisi della sinistra”?

La prossima volta, se Berlusconi non avrà realizzato tutte le riforme promesse (giustizia contro-la corporazione-irresponsabile-dei-giudici, fisco contro-l’irresponsabile-avidità-di-stato, liberalizzazioni contro-le-parassitarie-corporazioni operaie, professionali E datoriali) si potrà votare per la Lega ed aderire al secessionismo da un Sud fatalista, parassitario e “rosicone” affetto da tabe antropologiche che solo il laissez faire più selvaggio potrà spurgare. Come dimostrano i “meridionali” emigrati e costretti a guadagnarsi il pane quotidiano. D’altronde il concetto stesso di “emigrazione” è stato rivoluzionato dalla globalizzazione industriale. Prima dell’unificazione d’Italia, si emigrava dalla Calabria trasferendosi a Napoli o in altri continenti. Tra i due conflitti mondiali l’emigrazione intercontinentale proseguì e quella interna divenne un accettato fenomeno di massa con l’insediamento di interi villaggi nelle aree di bonifica. Nel secondo dopoguerra l’emigrazione intercontinentale calò di intensità e interessò livelli professionali più qualificati mentre quella meno qualificata interessò il Nord Italia ma anche altri Paesi del Nord Europa. Gli emigranti diventavano cittadini esteri oppure investivano il loro reddito nella provincia di origine per rientrarvi alla fine della loro vita attiva. Oggigiorno con la formalizzazione dell’Unione Europea e con la crescente offerta di occupazione di ogni livello professionale in Paesi comunitari ed extracomunitari, parlare di emigrazione come problema sembra realmente un fatto demagogico e strumentale. Pretendere che, nel pieno della globalizzazione, si creino insediamenti industriali in aree non redditizie equivale a conservare posizioni di privilegio nel Nord a detrimento della crescita del reddito del Sud nell’interesse globale. Anteporre egoismi nazionali e “locali” a Nord a detrimento dello stesso interesse complessivo di accelerare la crescita di Sud e Nord non sembra una scelta né rispettosa dell’etica della dottrina socialista internazionale né di quella della dottrina sociale della Chiesa Cattolica.

Se quelle due istanze tradizionalmente collocate a difesa degli interessi sociali “contro” quelli economici oltre alla legittimità legata alle istituzioni produttive, perdono anche legittimità agli occhi delle masse diseredate del Sud più popoloso che le percepiscono un ostacolo al miglioramento delle loro condizioni di vita, si perde ogni istituzione “di sinistra” del passato. Non è un problema purché ne nascano di nuove animate da criteri più compatibili con le esigenze del progresso della civiltà industriale e liberal-democratica ‘Occidentale’.