08/10/2010

Nominalismo e relativismo: morte della comunicazione mediatica

Etichettare di ‘scientifico’ e di ‘politically correct’ i ragionamenti non aiuta a divulgare in termini comprensibili e inequivocabili i problemi di un diffuso interesse sociale come sono quelli relativi alla politica, alla sociologia e, in misura costantemente crescente, all’economia.

Parlare utilizzando ‘etichette’ e nominalismi rende poco divulgabili per una corretta comunicazione sociale le complessità dei temi di interesse e quindi ne rende poco comprensibili sia le priorità sia i criteri con cui se ne possa affrontare in modo alternativo la soluzione.

Eliminando la comprensibilità da parte dell’opinione pubblica più diffusa, la comunicazione politica si traduce in pura demagogia che cerca di raccogliere il consenso evocando suggestioni al di fuori d’ogni logica e razionalità. I due soli elementi che consentirebbero di garantire all’elettorato un’educazione di base e di costante aggiornamento tramite i diversi strumenti disponibili per la corretta informazione ad ogni fascia di età e di formazione professionale. Infatti sia la scuola d’ogni ordine e grado (primaria, secondaria, superiore, universitaria), sia i media specialistici, sia i media più generalisti, sia i media di edu-tainment forniscono i canali utili per assicurare all’elettorato una corretta conoscenza, seppure ad un livello divulgativo delle conoscenze consolidate, dei molti problemi su cui sarà chiamato a decidere.

Ogni ulteriore conoscenza ‘scientifica’, alla quale si dedicano i ricercatori, deve restare esclusa dalla divulgazione fintantoché essi non abbiano maturato un diffuso accordo. Ogni prematuro tentativo di divulgazione delle conoscenze scientifiche più avanzate darebbe inevitabilmente occasione ai divulgatori di privilegiare talune possibilità di sviluppo rispetto ad altre.

La demagogia agevola la possibilità che ai dibattiti partecipino anche professionisti meno preparati, più spregiudicati e più attrezzati dialetticamente e capaci di incentrare la comunicazione politica sulle più viscerali suggestioni delle loro audience.

Il ‘nominalismo’ è lo strumento che emula, in modo utile per i demagoghi, il ruolo che svolge invece la ‘statistica’ al servizio della ricerca scientifica e della politica liberale.

La raccolta scientifica di dati statistici è quasi stigmatizzata come ‘politically in-correct’ in quanto se ne sospetta l’intenzione di ‘ghettizzare’ i gruppi sociali nelle loro percezioni attuali come se queste fossero uno stabile carattere antropologico invece che dettate da comportamenti contingenti modificabili con un appropriato processo di ‘integrazione culturale’.

In realtà questa visione è dettata da un ‘fondamentalismo relativista’ che pretende l’impossibilità di definire una scala di valori tra diverse culture e relativi comportamenti. Questa visione esclude in realtà la possibilità di ‘integrare’ culture diverse nell’ambito di quella egemone ma suggerisce semplicemente la ‘convivenza multiculturale’ tra diversi dotati di pari dignità. Ciò rende sospetta ogni classificazione di appartenenza ad etnie diverse descrivendone i caratteri che le contraddistinguono in modo peculiare su base di classificazione docimologica. Un timore che viene fondato sul rifiuto viscerale del rischio dei ‘razzismi’ più sanguinari che hanno infiorato la storia umana.

In realtà è solo la classificazione statistica dei caratteri ereditari, attitudinali e culturali che consente di raggruppare tra loro soggetti esposti a medesimi tipi di rischio o handicap educativo. Solamente una tale classificazione per gruppi di appartenenza (almeno temporanea e rivedibile nel tempo) permette di concentrare l’attenzione della scienza sulla riduzione degli handicap e rischi tramite interventi medici o educativi appropriati ad essere metabolizzati dai diversi gruppi per condurne la maturazione verso una possibile ‘integrazione’ sociale e professionale che offra pari opportunità di competere anche ai soggetti più ‘diversi’ da quello egemone nel contesto da loro scelto come stabile residenza.

L’esigenza di classificare i gruppi secondo le loro diversità genetiche, attitudinali e culturali è dettata dal suggerire alla ricerca scientifica come indirizzare le sue energie nello studio e nella predisposizione di specifici rimedi mirati a rimuovere tipi di difficoltà che non tutti i soggetti sperimentano nel condurre la loro vita di relazione in un contesto sociale in cui la maggioranza (‘normale’) dei soggetti non vive quel tipo di difficoltà. Insomma per poter ‘personalizzare’ i protocolli di prevenzione dei rischi, i metodi ed i programmi educativi e ogni altro strumento che la scienza e la tecnologia pone a disposizione dei diversi profili umani, occorre fornire alla ricerca una dettagliata classificazione delle caratteristiche umane e dei problemi che ciascuno dei gruppi di appartenenza incontra alla sua effettiva capacità di integrarsi con pari opportunità nella società. Questa applicazione della scienza e delle tecnologie alla rimozione dei problemi per gruppo di appartenenza inoltre rimuove gli ostacoli che incontrano tutti i gruppi di ‘diversamente dotati’. Come intuito dai fondatori del ‘Mensa International’ i programmi, le metodologie educative e io protocolli alimentari, igienici e sanitari che la società ‘Occidentale’ ha con difficoltà rodato nel corso dei secoli escludono dall’apprendimento sia i gruppi dei meno dotati sia quelli dei più dotati o, in generale, ogni gruppo di significativamente ‘diversamente dotato’. Ciò è stato chiaro agli educatori più sensibili che hanno cercato di educare dopo avere ‘abbassato il disagio’ degli allievi. Così Johann Heinrich Pestalozzi, San Giovanni Bosco e Maria Montessori prima dell’applicazione più organizzata della selezione attitudinale e dei programmi personalizzati di formazione e sviluppo del potenziale professionale nell’odierno mondo industriale e militare. Le applicazioni educative statali non hanno ancora recepito il progresso scientifico consolidato dalla psicologia per l’interdizione di quelle tecniche da parte di un potere politico demagogicamente arroccato sul ‘politically correct’ e sulla idea che organizzare classi differenziate per profilo di apprendimento possa costituire una ‘discriminazione’ sociale invece di una tecnica per accelerare l’acquisizione delle necessarie abilità professionali da parte di tutti i gruppi che compongono le ‘diversità’ esistenti in una società complessa ma organizzata sullo sviluppo economico, sulle responsabilità (libertà) individuali e sulla libera competizione tra soggetti dotati di pari opportunità di accesso alla competizione.

Il ‘nominalismo’ appiattisce dietro etichette corporative ogni differenza tra individui e riesce a rendere credibile che esista un’indifferenza a ricoprire ruoli tecnici a chiunque sia formalmente titolare degli elementi giuridici elencati per il conseguimento del titolo. Una supposta garanzia che non si discrimini nessuno tra i formali aventi diritto per ragioni estranee al diritto acquisito per legge. L’imposizione di un egalitarismo tramite il ‘valore legale’ dei titoli professionali. Qualche esempio tra quelli più noti a tutti.

I ‘medici di base’ non hanno sostituito i ‘medici di famiglia’ nelle loro capacità centrali di diagnosti che, dopo avere inquadrato le possibili cause mediche delle sindromi che affliggono il paziente, gli chiedono di sottoporsi a specifiche analisi specialistiche solo al fine di ridurre quelle cause alla sola che si possa sottoporre a protocollo terapico personalizzato. I ‘medici di base’ procedono da impiegati al processo

inverso. Sottopongono il paziente ad una serie casuale di analisi specialistiche sperando che da esse possa derivarsi la causa organicamente evidente di una delle forme più frequenti di infermità che possa essere contrastata da un protocollo terapeutico standardizzato nei costi e nel contenuto. Ciò elimina dal servizio sanitario ogni responsabile del coordinamento che solamente un eccellente semeiotico riesce a ricoprire. Non i neo-laureati assunti nel ruolo impiegatizio dei SSN.

Pochi sono i ‘giornalisti’ tra la pletora dei tesserati all’ordine e tra alcuni tra i migliori che pubblicano articoli non sono neanche tesserati. La ‘divulgazione’ dei problemi di maggiore interesse per gli elettori viene abbandonato come fine precipuo della stampa libera ed essa diviene puro mezzo di propaganda ‘organico’ a politiche partigiane e demagogicamente gestite. Il ‘quarto potere’ perde la sua libertà e la sua funzione in quanto potere tutelato tra le istituzioni liberal-democratiche. Esempi eccellenti di tale subornazione al potere politico sono le permanenti ‘censure’ dei revisionismi storici, le enciclopedie e i testi scolastici approvati come ‘ortodossi’ e imposti nell’insegnamento obbligatorio gestito dallo stato.

Pochi sono gli ‘scienziati’ tra la pletora dei ricercatori universitari e molti dei migliori scienziati curano le loro ricerche in ambiti aziendali e non accademicamente riconosciuti. Molti sono i casi di scoperte e di invenzioni sviluppate nel sottoscala di casa da ‘ricercatori’ estranei a qualsiasi istituzione accademica e le manifestazioni della loro creatività sono tra le più innovative e produttive di progresso industriale, di benessere economico e di estensione delle libertà oltre ogni confine ed ogni privilegio di casta.

Pochi sono gli architetti tra i molti dotati di quel titolo di studio, così come pochi sono i ‘creativi’ nelle botteghe artigiane e pochi sono gli ingegneri nelle aziende industriali. Le doti che caratterizzano quelle denominazioni rinascimentali sono raramente presenti nei soggetti che hanno concluso il corso di studi che ha autorizzato l’iscrizione alla corporazione del settore. Gli architetti dovrebbero garantire la solida armonizzazione delle tecnologie con le aspettative umane di una migliore qualità di vita. Si incontrano spesso invece architetti stravaganti, barocchi, teatrali, involuti i cui prodotti risultano inadeguati a dare agli utenti una percezione di maggiore comfort psico-fisico. L’apporto dei ‘creativi’ dovrebbe essere la capacità di aprire suggestivi indirizzi all’innovazione industriale non solo nei tradizionali comparti delle botteghe d’arte o artigiane ma anche negli studi professionali che oggi in ogni azienda definiscono le specifiche (di ‘human engineering’) che devono caratterizzare i prodotti ed i servizi per avere successo sul mercato. Tra i molti professionisti del settore solo pochi riescono a suggerire innovazioni industriali vere e vincenti sia hard (linee di prodotti) sia soft (immagine e comunicazione), sia org (usability). Ogni ingegnere dovrebbe apportare il valore aggiunto del buon senso per superare con semplicità, sicurezza ed economicità i molti problemi organizzativi e tecnici che si presentano nel corso dell’implementazione pratica dei progetti teorici. Molti sono invece i ‘periti industriali’ che si fregiano del titolo applicando gli standard accademici o aziendali con correttezza ma senza creatività mentre rari sono i ‘semplificatori’ del lavoro industriale capaci di raccogliere spontaneo riconoscimento di autorevolezza sul campo grazie al proprio ‘carisma’ professionale invece di abusare dell’autorità formale conferita dal loro grado gerarchico.

L’eliminazione del valore legale dei titoli di studio e il ripristino delle ‘raccomandazioni’ che le botteghe artigiane e gli studi professionali fornivano alle maestranze sperimentate nel corso dell’apprendistato svolto sotto la loro responsabilità potrebbe aiutare a eliminare i più deteriori nominalismi inquinanti la vita industriale moderna. Un periodo di ‘stage applicativi’ in coda al conseguimento del titolo di studio potrebbe sostituire i più comuni periodi di studio per il conseguimento dei ‘master’.