08/05/2010

Crisi industriale e austerità individuale

Ciò che la cultura umanistica appresa al liceo ha lasciato come dote individuale alla “Class of ‘57”, l’ultima prima della crisi culturale “sessantottina”, si riduce forse all’adesione a comportamenti individuali ‘virtuosi’ traducibili in un’‘austerità’ comportamentale che faceva parte della formazione umanistica e professionale delle generazioni precedenti che avevano costruito (e distrutto) l’Italia e che proseguirono a governare il Paese fino alla fine degli anni ‘50.

Essere austeri non significa esaltare come modello la ‘povertà’. Essa è fondamentalmente da stigmatizzare in quanto dovuta a due poco ‘virtuosi’ comportamenti individuali e civili; l’ignavia o l’imprudenza.

Solamente una limitatissima minoranza dei ‘poveri’ è tale per casuali concatenazioni di cause sfortunate. Il resto è ‘povero’ per suoi eccessivi errori di valutazione delle alternative percorribili nel contesto in cui sceglie di agire.

Una frangia risibile poi è ‘povera’ per totale rinuncia, deliberata e ‘virtuosa’, alle proprietà e per la costante riduzione delle proprie esigenze; sulla traccia di San Francesco (emblema dell’umanesimo e della letteratura medievale). Questa minoranza non si lamenta per la ‘povertà’ in cui vive ma la considera anzi la via verso la santificazione. Una via verso la trascendenza che, tra l’altro, non è considerata essere esclusiva sulla via della santificazione neanche da Santa Madre Chiesa. Come dimostrano i molti esempi di uomini ‘virtuosi’ benché ricchi e potenti. Sia i laici atei che i laici religiosi degni d’essere portati come esempio di ‘virtù civili’ aderiscono a stili di vita ‘austeri’ personali e sociali.

Molti dei più potenti e ricchi tycoon che hanno creato la civiltà industriale nel 1800 e nel 1900 sono stati ‘austeri’ nello stile di vita ispirato alla parsimonia e limitazione delle proprie esigenze voluttuarie (l’ofelimità di Wilfredo Pareto).

Questo stile di vita ispira tuttora (tranne eccezioni) la nostra “Class of ‘57”, anche quella dei più benestanti, e mi hanno anche suggerito comportamenti successivi in azienda (all’università in Danimarca era lo stile di vita già parte della tradizione danese).

Così il mio amico Franco Z. (benestante per eredità e per propria abilità e dedizione), mangia con le mani le aragoste pescate dal suo yacht ma certo non scende a Porto Cervo per cercar di stabilire contatti clientelari al ‘Millionaire’. Così come mi accadde quando, in IBM, rifiutai da rappresentante industria-NATO l’alloggio a Brussels in un residence il cui costo quotidiano era più elevato non solo del mio stipendio mensile ma anche di quello di mio padre, direttore generale delle dogane! La “class of ‘57” non è mai stata composta da soggetti obbedienti ed ossequiosi; gli ‘yes men’ del satrapo in carica che affollano il mondo industriale e politico del più deteriore ‘clientelismo’ sessantottino cui addebitare lo spensierato abuso dell’economia in Italia (ma anche altrove) all’insegna di un demagogico buonismo che ha creato l’enorme debito pubblico e che oggi obbliga (per il globale esaurimento delle risorse finanziarie disponibili e saccheggiabili) ogni tipo di governo ‘de destra’ o ‘de sinistra’ a imporre comportamenti collettivi ispirati all’austerità che tuttavia non essendo lo stile di vita instillato nelle nuove generazioni “sessantottine” non le trovano disponibili. Per loro accettare stili di vita ‘austeri’ è equivalente a rinunciare alle ‘certezze’ promesse dalla demagogia politica del ‘posto fisso’, della ‘scala mobile’, del ‘diritto al lavoro’, ‘diritto alla casa’, ‘diritto alla salute’, ‘diritto alle ferie’, etc., etc.; insomma a tutto ciò che è stato promesso dall’irresponsabile paradigma dello ‘stato sociale’ che ha causato l’accumulo del debito pubblico tramite crescente dimensione del deficit di bilancio. Il ‘diritto ad una vita priva di aspetti ‘precari’ è un sogno utopico che la demagogia ‘de sinistra’ ha ormai inculcato nelle generazioni grazie a classi dirigenti di “sessantottini” convinti che concedere ‘tutto e subito’ fosse una strategia sostenibile per ridistribuire il reddito nazionale. Per sessant’anni di guerra fredda il consociativismo anti-capitalista e illiberale ispirato alle dottrine sociali stataliste cristiana e marxista ha lasciato sperare che il reddito nazionale sarebbe stato comunque prodotto indipendentemente dall’inflazione e dal debito nazionale crescenti. Liberare le masse dalla ‘povertà’ è stato il fine che ispirava comportamenti pubblici e privati privi di ‘responsabilità’ personale. La ‘povertà’ è stata classificata per sessant’anni come uno stato imposto dalle elite benestanti di governanti, liberi professionisti e proprietari d’azienda ai lavoratori a reddito fisso come se si trattasse di un nuovo tipo di ‘schiavitù’ programmata. Perso lo ‘stigma’ sociale, la povertà è assurta a un tipo di blasone di classe, sia nello stile di comportamento individuale, sia nel linguaggio e nelle aspettative che i “sessantottini” hanno inculcato nelle giovani generazioni. Appropriarsi dell’abbondanza esposta nei supermercati (espropri mproletari) venne autorizzato come segno di recupero della propria dignità oppressa nella ‘povertà’ imposta dai ‘capitalisti’. Analoga sorte hanno avuto le occupazioni di domicili e il blocco dei fitti oppure la richiesta allo stato (?!?) di procurare un lavoro (un reddito in realtà) ai disoccupati senza fare i conti con la crescita dei salari (variabile indipendente!?!) per chi era stato assunto con ‘diritto’ a non essere licenziato; in quanto il ‘posto fisso’ venne equiparato a libero dalla precarietà che incombeva su aziende e su datori di lavoro. È chiaro che questa catena irresponsabile di concetti utopici abbia accumulato in ogni Paese una perdita di competitività industriale che tutti i Paesi europei erano obbligati invece a conservare a causa del loro ruolo di ‘paesi trasformatori’ che producevano benessere eccedente ogni capacità di assorbimento dei loro mercati nazionali e comunitario e che comunque li obbligava a scambiare beni e servizi a fronte di importazioni di energia e di materie prime industriali. Si aggiunse l’ennesima irresponsabile ‘diritto’ alla qualità di vita (asili, assistenza sanitaria, cure termali, etc.) e la pretesa di tutelare l’integrità ambientale e non invece il ragionevole concetto di “prevenire” l’inquinamento ambientale. Ciò che ha condotto a forme di anarchico assemblearismo in materie squisitamente tecniche e industriali quali il referendum anti-centrali nucleari, no-TAV, contro le discariche, contro gli inceneritori, contro i termovalorizzatori, contro i depositi di smaltimento dei residui industriali più nocivi, etc.. l’esigenza di provvedere alla sopravvivenza del sistema industriale nazionale ha indotto ad assumere comportamenti illegali e conniventi in reciproco accordo, sia i dirigenti politici sia quelli industriali che si sono sempre più tutelati a spese dell’erario con decisioni invise alla pubblica opinione e quindi da attuare tacitamente e in modi poco trasparenti. Per proteggersi dal rischio di imprevedibili intralci opposti dalle più variegate forme d’‘opposizione’ (dalle autonomie locali ai giudici) a garantire il ritorno su investimenti programmati dall’industria sull’arco di periodi di tempo medio-lunghi, i vertici politici e industriali hanno scelto di rivalersi sui margini di prezzo degli investimenti. Forme ‘legali’ di connivenza mafiosa hanno sostituito il criterio della competizione industriale di libero mercato in ogni tipo di gara di appalto. L’esposizione al rischio delle decisioni di investimento hanno suggerito i responsabili ad assicurare il proprio futuro con anticipazioni finanziarie sempre più diffuse in quanto derivanti da costi spalmati su tutti i contribuenti. In analogia a quanto avviene (i tutto il mondo) a spese delle assicurazioni da parte degli assicurati che rivendicano restauro di danni mai subiti ma sorretti da medici e avvocati molto compiacenti (sono emblematici i compensi che negli USA vengono ottenuti a spese di ristoranti, chirurghi, cliniche, dentisti, etc. – causando anche l’aumento di costi sanitari per le polizze che vengono sottoscritte dai professionisti e dalle aziende del settore).

L’austerità oggi sembra equivalente a povertà ed essa essendo stata etichettata come forma di oppressione imposta dalle elite viene rifiutata dai contribuenti/consumatori contro governi sia ‘de destra’ sia ‘de sinistra’ come si può constatare in Grecia e in Spagna oggi.

Occorre ricostruire una cultura incentrata sull’austerità e parsimonia che tra l’altro contrasta con le forme di consumismo più sfrenato dietro cui si sono rifugiati i ritorni sugli investimenti industriali più avanzati. Una cultura che stigmatizzi la ‘povertà’, rilanci la selezione con aumenti di merito e cottimo per i ruoli più demotivanti (sportellisti), ripristini l’accettazione ‘naturale’ della ‘precarietà’ in ogni ruolo e professione sia pubblica che privata permettendo il licenziamento dei giudici, dei pubblici dipendenti, dei senatori, dei deputati in piena analogia con ciò che avviene in tutte le aziende private anche per chi suppone di essere tutelato dal contratto a tempo indeterminato o dall’articolo 18. Demagogie del consociativismo d’antan. Occorre ripristinare il rispetto per una cultura realmente umanistica che si fonda sulla ‘precarietà’ in tutte le scelte individuali responsabilizzando ogni decisione quotidiana.

Ciò che la cultura umanistica appresa al liceo ci lasciò come dote individuale si riduce forse alla adesione a comportamenti individuali ‘virtuosi’ e traducibili in una ‘austerità’ comportamentale.

Essere austeri non significa esaltare come modello la ‘povertà’. Essa è fondamentalmente da stigmatizzare in quanto dovuta a due poco ‘virtuosi’ comportamenti individuali; l’ignavia o la imprudenza.

Solamente una limitatissima minoranza dei ‘poveri’ è tale per casuali concatenazioni di cause sfortunate. Il resto è ‘povero’ per un suo eccessivo errore di valutazione delle alternative percorribili nel contesto in cui sceglie di agire.

Una frangia risibile poi è ‘povera’ per totale rinuncia, deliberata e ‘virtuosa’, alle proprietà e per una costante riduzione delle proprie esigenze sulla traccia di San Francesco (emblema dell’umanesimo e della letteratura medievale). Questa minoranza non si lamenta per la ‘povertà’ in cui vive ma la considera anzi la via verso la santificazione. Una via verso la trascendenza che, tra l’altro, non è considerata esclusiva sulla via della santificazione neanche da Santa Madre Chiesa. Come dimostrano i molti esempi di uomini ‘virtuosi’ anche se ricchi e potenti. Sia i laici atei che i laici religiosi degni di essere portati ad esempio di ‘virtù civili’ aderiscono a stili di vita ‘austeri’ personali e sociali.

Molti dei più potenti e ricchi tycoon che hanno creato la civiltà industriale nel 1800 e nel 1900 sono stati ‘austeri’ nello stile di vita ispirato alla parsimonia e limitazione delle proprie esigenze voluttuarie (l’ofelimità di Wilfredo Pareto).

Questo stile di vita ispira tuttora la nostra “Class of ‘57”, anche quella dei più benestanti, e mi hanno anche suggerito comportamenti successivi in azienda (all’università in Danimarca era lo stile di vita già parte della tradizione danese). Così Franco Z. mangia con le mani le aragoste pescate dal suo yacht ma non scende di certo a Porto Cervo per cercare di stabilire contatti clientelari al ‘Millionaire’. Così come mi accadde in IBM quando rifiutai da rappresentante industria-NATO a Brussels l’alloggio in un residence il cui costo quotidiano era più elevato non solo del mio stipendio mensile ma anche di quello di mio padre, direttore generale delle dogane! Non saremmo mai stati obbedienti ed ossequiosi ‘yes men’ del satrapo in carica!

Ed avremmo sempre scetticamente irriso ogni pretesa di avere ‘inventato’ l’acqua fresca o la terza via al progresso civile rispetto a quella del capitalismo-liberista che sopravvive solo in un libero mercato, quello che oggi finalmente ci sta imponendo la globalizzazione dell’economia industriale che ci sta dimostrando che: “il Re è nudo!”.

I rimedi alla attuale ‘crisi’ (solo congiunturale e non, come ci vogliono indurre a credere i demagoghi catastrofisti, catastrofica) sono semplici, rapidi e ragionevolmente indolore: elevare l’età della pensione per uomini e donne alla pari ai 67 anni d’età (tra l’altro già in vigore in molti Paesi dell’UE e imposti alla Grecia per ottenere la ‘solidarietà’ dei contribuenti tedeschi!); eliminare l’articolo 18; remunerare a cottimo i lavori meno gratificanti (sportellisti in ogni tipo d’azienda dalle poste, ai comuni, alle banche, ai conduttori di treni, autobus, etc.); garantire il 30% dello stipendio concordato ogni mansione misurabile e incentivarne il restante 70% fino a raddoppiarne la consistenza in funzione del raggiungimento degli obiettivi; impostare i servizi sanitari nazionali sulla base del criterio logistico A-B-C in accordo con ogni istituto e assicurazione privata; liberalizzazione di ogni servizio di interesse pubblico diffuso (dai taxi, alle tramvie urbane, alle poste, etc.); attuare il federalismo fiscale riducendo al 30% l’ammontare massimo prelevabile a aziende e consumatori; vendere parti inutilizzate del demanio pubblico e attribuirne le risorse alle amministrazioni periferiche; investire le risorse reperite in tal modo a metà per rimborsare il debito pubblico e l’altra metà per costruire le reti infrastrutturali nazionali (comunicazioni in fibra ottica, comunicazioni stradali, carceri, scuole, etc.).