08/05/2008

Tramonto o Trionfo dell’Occidente?

Prima di morire mi è stata data la soddisfazione di sanare la discrasia che ho vissuto nella mia autostima di italiano con cui ho dovuto convivere tra l’Aprile del 1945 e l’Aprile del 2008. Ho dovuto infatti subire una ‘verità storica’ imposta come unilaterale ‘politically correct’ storico la cui ‘revisione’ è finalmente terminata con la ‘catastrofe’ delle passate elezioni politiche e che è stata accettata pienamente nelle relazioni istituzionali tra maggioranza e opposizione.

Ero stato costretto a far quadrare il mio orgoglio di essere italiano con la vergogna di una umiliante e palesemente parziale ‘verità politically correct’.

L’orgoglio di essere partecipe di una civiltà culla dello stato liberal-democratico e sede ‘eterna’ di una delle due istituzioni che ne assicurano le fondazioni della legittimità etica (‘libera Chiesa in libero Stato’) rispetto all’altra che è sempre stata libera di migrare a seconda delle specifiche realtà economiche dell’epoca – da Roma alle origini ad Aquisgrana, a Madrid, a Londra fino ad oggi a Washington.

La vergogna era indotta dal vedere l’Italia politica come bisognosa di recuperare una ‘legittimità storica’ che oltretutto si sarebbe dovuta fondare su concetti palesemente mistificatori della Storia (accettabilmente sempre ricca di parziali successi e insuccessi) sia nazionale che geo-politica più ampia. Concetti quali: la sleale ‘trasformazione nominalista’ da Paese sconfitto in Paese co-belligerante in analogia con la Francia (sempre la stessa da Petain a DeGaulle); la guerra civile, piazzale Loreto, la ‘stigmatizzazione’ integrale di un ventennio di successi politici ed industriali (al fianco di errori e insuccessi) riconosciuti all’Italia da personalità estere (da Churchill a Roosevelt).

Oggi siamo finalmente reinseriti pienamente nella Storia pur nell’ambito del nostro ruolo che è credibile in quanto ‘universale’ (sul piano della primogenitura della ‘cultura occidentale’ e della sua persistenza nei secoli – ivi incluso il ‘deprecato ventennio’) e ‘regionale’ (sul piano del nostro credibile potenziale di creatività industriale e politica nel reale scenario offertoci dalla travolgente globalizzazione in corso).

La mia storia è personale ma si colloca nell’ambito della più vasta discrasia, ancora esistente per l’autostima in tutta Europa. Sia in Germania ove l’orgoglio nazionale è ‘stigmatizzato’ come rinascita del nazional-socialismo, sia in Francia ove il patriota Petain è stato ‘sotterrato’ nella memoria storica prima di essere ‘incivilmente’ condannato all’ergastolo per una scelta politica, magari ‘errata’ di buon senso (seguita da altri Paesi sconfitti come Belgio, Romania e Norvegia).

Si è trattato di una discrasia persistente lungo tutto l’arco del ventesimo secolo e dettata dalla disparità di velocità nel riallineamento storico tra le esigenze della nuova realtà industriale e le aspettative dei cittadini e le superate istituzioni nazionali.

Istituzioni di cui si erano riappropriate e, tra l’altro con spirito restauratore le elite politiche precedenti il primo conflitto mondiale che si ispiravano a principi ottocenteschi e paleo-industriali.

Aspettative e esigenze di una nuova realtà industriale sui mercati soprannazionali innovata profondamente sia nelle tecnologie, che nei processi produttivi e nella domanda di consumi a partire da Freud con le sue precipitose ricadute applicative nella cultura e nell’organizzazione industriale (Ford, le ‘sette sorelle’ e i ‘gruppi multinazionali’). Infatti si era consolidata una nuova percezione dell’uomo non mera ‘risorsa produttiva’ ma ‘consumatore’ animato da una ‘scala di bisogni’ che ne qualificano l’evoluzione con aspettative di consumi liberamente scelti nelle priorità e che si definivano mediante composizione di ‘panieri di beni e servizi’ caratterizzati da contenuti sempre meno materiali (stigmatizzati dagli ideologi di ambo le parti ottocentesche di ‘consumismo’) e sempre più spirituali. Ciò aveva rivoluzionato l’offerta industriale oltre ogni confine dei vecchi Stati Nazione morti tra il primo ed il secondo conflitto mondiale.

Mentre il ‘fenomeno reale’ dettato dall’industrializzazione globalizzata stava rivoluzionando le aspettative umane potenziata dalle comunicazioni sociali (Radio, Cinema, TV), le vecchie ideologie su cui si fondavano le istituzioni degli Stati Nazione tentavano di ‘prevenirne l’avvento’ nel tentativo di evitare la propria ‘catastrofe’ (l’esigenza cioè di ‘cambiare la propria forma’).

Ciò ha condotto ad assistere a una lenta agonia dell’ottocento che è terminata solo alla fine del novecento.

Questa è una lettura ‘scientifica’ (e cioè ‘disciplinarmente erudita’) e non ‘ideologica’ (cioè ‘politically correct’) della storia recente della liberal-democrazia che ci ha travolti tutti in un lungo e sanguinoso tramonto. Finalmente oggi possiamo dire di essere entrati a pieno titolo nella fase globale della civiltà industriale.

Non era il Tramonto ma il Trionfo dell’Occidente quello cui stavamo assistendo (con buona pace per il pessimismo delle ‘menti sottili’ di ogni epoca – i catastrofismi d’accatto hanno sempre avuto più successo in edicola).

La ‘lettura erudita’ è confermata dal paradigma che descrive la dinamica di ogni sistema complesso in Natura. Esso dice che tutti quei sistemi si trovano in stati di equilibrio ‘quasi stabile’ destinati a subire ‘catastrofi locali’ nel loro assetto il quale tuttavia conserva memoria della sua struttura formale che lo caratterizza. Le transizioni sono parte strutturale della dinamicità evolutiva di quei sistemi. Esse possono essere lasciati totalmente liberi di manifestarsi (il ‘liberismo selvaggio’) o se ne possono ‘ritardare’ l’evoluzione apponendo sovrastrutture dirigiste ‘locali’ (il ‘dirigismo autoritario’).

Tanto più libero è il sistema di sviluppare le sue ‘catastrofi’ in piena responsabilità per le conseguenze più diffuse e individuali, tanto più frequenti sono le ‘catastrofi’ ma tanto minori sono le singole dimensioni e intensità delle fasi di riassetto tra stati successivi di quasi equilibrio.

Tanto più rigide sono le ‘reti sovrastrutturali’ imposte a ritardo delle dinamiche endogene ai sistemi, tanto meno le singole ‘catastrofi’ risultano ‘governabili’ e tanto più diffuse e intense sono le energie che prendono parte alle fasi di riassestamento che risultano quindi ‘catastrofi’ più rare ma più drammatiche.

Una verifica di questo paradigma della termodinamica dei sistemi caotici è presente nei riassestamenti in corso nei sistemi politici su piano globale. In Russia come negli USA e, inevitabilmente, anche in Cina.

In Russia il pragmatismo di Putin (ex-KGB e profondamente orgoglioso nazionalista russo) sta tentando il recupero alla realtà globalizzata del suo Paese dopo la caduta di una ‘rete sovrastrutturale’ tra le più persistenti del novecento quale fu il ‘socialismo reale’ di radici ottocentesche.

Negli USA si sta concludendo una delle periodiche ‘catastrofi’ istituzionali nell’unico stato multinazionale che è governato dalle più liberal-democratiche istituzioni. Obama Barack può concorrere alla massima istituzione dello Stato che verrà tuttavia (ancora) vinta da McCain ma senza creare tensioni istituzionali né sociali all’interno del Paese.

In Cina le ‘elite mandarine’ e commerciali di quel sub-continente stanno negoziando all’interno del Paese la graduale accettazione delle ‘catastrofi istituzionali’ tentando di ‘ammorbidire’ la rete sovrastrutturale delle ‘resistenze al cambiamento’ nella ricerca di rifondare una propria legittimità nol nuovo contesto globalizzato.

In definitiva è l’economia industriale a costituire il meccanismo liberale (trasparente alle ideologie) che ‘conduce il gioco’ di penetrazione della liberal-democrazia e è la volatilità dei flussi finanziari a costituire la linfa che alimenta quel meccanismo egemone protagonista del progresso della civiltà ‘Occidentale’. Nessuna ‘cricca di potere’ ha la capacità di regolamentarne i flussi. Questi si adeguano ‘spontaneamente’ (‘illegalmente’ in assenza di specifico permesso delle istituzioni) ma col consenso diffuso dei risparmiatori (della loro avidità, accettazione del rischio, propensione al risparmio e insofferenza a fiscalità, a barriere doganali ed a permessi di soggiorno non condivisi). Essi si adeguano al prevaricante protagonismo delle diffuse e responsabili aspettative sociali fuori dal controllo di qualsiasi istituzione illiberale, dunque inadeguata alle mature esigenze del libero mercato del lavoro e dei consumi. La verifica è nelle zattere di emigranti dai Paesi illiberali e nei muri al confine sia per impedire la fuga dal Paese, sia invece per impedirne l’arrivo.

La prossima ‘catastrofe istituzionale’ avverrà a New York per l’ONU e per la NATO. Sarà l’ultima gratificazione di un intellettuale curioso spettatore del realizzarsi del Trionfo dell’Occidente; in barba al ben più strombazzato ‘Tramonto dell’Occidente’.