07/05/2008

Scenario geo-politico e linguaggio equivoco

Sui media possiamo assistere in quest’epoca di rapidi mutamenti politici sullo scenario globale a dibattiti tra tutti gli intellettuali del mondo industrializzato condizionati da un linguaggio denotante una resilienza al cambiamento dello scenario di riferimento. Qualche esempio di un tale provincialismo è tuttavia riferito ad una corretta percezione del ruolo che oggi può esser svolto dallo stato nazionale per mitigare i disagi indotti dalla ‘globalizzazione’ sugli assetti economici e sociali del Paese. Si tratta di una corretta disparità tra i criteri di azione disponibili, ad esempio, per il ministro dell’economia, il ministro del lavoro e quello delle riforme istituzionali. Il divario tra le 2 diverse posizioni intellettuali si può ridurre alla convinzione che lo stato possa ‘resistere’ all’avvento della globalizzazione erigendo ogni possibile ‘diga protezionista’ a difesa delle imprese nazionali (Tremonti, Limbaugh, Clinton, Obama, Gore), che si oppone all’altro di doversi invece adeguare al ‘vento egemone’ (come il noto apologo cinese del ‘giunco’) del nuovo accettando che sia la maggiore competizione sul mercato a stimolare la creatività dei privati a ideare la riconfigurazione tecnologica ed organizzativa dei propri assetti in modo da recuperare un proprio ruolo competitivo (Forte, McCain). Sono entrambe posizioni compatibili col ruolo dello stato liberal-democratico e col libero mercato che suggeriscono, la prima, di agire tramite le relazioni estere per negoziare trattati di libero scambio in cui siano assenti forme di competitività di privilegio unilaterale. Ad esempio sarebbe accettabile una disparità fiscale nei due sistemi produttivi e un divario dei costi della manodopera che non siano addebitabili all’assenza di tutele sociali o dei costi degli impianti che non vadano a penalizzare la qualità ambientale. È la ‘filosofia politica’ che conduce ad accordi tra stati legittimati da ipotesi ‘para-scientifiche’ come quella del ‘man-made-global-warming’ che genera accordi come quello di Kyoto. La seconda posizione invece sostiene che esistono le conoscenze scientifiche capaci di sostituire i vecchi impianti e strutture organizzative con altri più congeniali a soddisfare la domanda globale che è stata rivoluzionata dalla globalizzazione inimmaginabile nelle sue evoluzioni. Si tratta di una posizione che dà credito al pieno ‘liberismo’ economico e che ipotizza che la ‘soluzione’ al cambiamento (alla ‘catastrofe’) di assetti produttivi risieda nella ‘sostituzione tecnologica’ che permette di abbandonare i vecchi ed obsolescenti impianti per rimpiazzarli con altri più adeguati a soddisfare le esigenze di scambi industriali più globalmente economici e capaci di remunerare entrambi i vecchi (il Nord) ed i nuovi (il Sud) protagonisti del mercato globalizzato. Ad esempio non si ritiene che paradigmi para-scientifici quali il ‘global warming’ possano risultare né credibili, né prevedibili, né gestibili, né efficaci a garantire equità al mercato globale. Si teme infatti che i nuovi trattati internazionali siano una ripetizione della ‘programmazione industriale’ già fallita nei singoli Stati Nazione e un’imposizione di oneri fiscali aggiuntivi ai costi ‘naturali’ presentati dalla globalizzazione; coll’aggiunta peggiorativa di non disporre di efficienti istituzioni soprannazionali che ne garantiscano l’ottemperanza. Si tratta di due posizioni che, seppure in puro modo nominalistico, possono essere classificate ‘di sinistra’ (la prima) e ‘di destra’ (la seconda). Chiunque abbia una vera fiducia nella superiorità del libero-mercato, su cui si fonda la legittimità degli stati liberal-democratici, simpatizza per la seconda che toglie ogni opportunità demagogica ai leader politici indotti altrimenti in tentazione di fruirne. L’altro dibattito cui possiamo assistere sui media invece sembra pateticamente orientato a ‘classificare’ ogni nuovo protagonista politico sullo scenario globale ‘di sinistra’ o ‘di destra’ per pura auto-rassicurazione psicologica che possa ‘giustificare’ la tradizionale militanza ideologica paleao-industriale e ottocentesca. Ad esempio si cerca di ‘cooptare’ come appartenente ‘inconsapevole’ nella propria parte politica ‘di sinistra’ (dirigismo economico) tutti i leader che propongano accordi negoziati tra le parti animate da interessi conflittuali nella formulazione di politiche industriali e commerciali appropriate alla globalizzazione. Come se il semplice perseguire accordi stragiudiziali e preventivi potesse essere prerogativa esclusiva di un ‘buonismo’ delle ‘sinistre’. Dimenticando esempi storici come quello di Ford che aumentava i salari dei propri addetti e concepiva modelli popolari (le T-Ford) al fine di estendere la capacità di accedere al mercato delle fasce sociali meno abbienti. O Thomas Watson (IBM) che remunerava con bonus e distribuzione privilegiata di azioni i dipendenti. O la attuali aziende familiari che hanno catturato consenso tra i propri operai alla visione non-conflittuale (sindacati ottocenteschi) ma collaborativa delle operazioni aziendali. È possibile che un Tremonti si traformi da liberista in un programmatore dei redditi come è possibile che un Maroni si mostri incline alla concertazione e al consociativismo così come è possibile che un Alemanno si proponga come protezionista in economia; ciò ne permetterebbe la cooptazione nel partito ‘di sinistra’ ma non in una visione ‘di sinistra’ dell’economia liberal-democratica. È evidente che tutti i leader politici portatori di responsabilità di governo si dimostrino attenti a catturare il consenso elettorale più vasto ma è altrettanto evidente che oggi nessuna attenzione ‘sociale’ (di destra o di sinistra che sia) possa sperare di risolvere i disagi della globalizzazione con gli strumenti decisionali che hanno caratterizzato l’Europa dalla metà dell’ottocento fino alla caduta del muro di Berlino. Sostituire la fonte energetica dei combustibili naturali è oggi possibile molto più facilmente di quanto non sia convincere i proprietari dei pozzi di petrolio e delle miniere di carbone a rinunciare all’uso ‘egoistico’ del loro potere per ragioni di ‘ammorbidimento’ della rivoluzione industriale in corso. Cedere fasi produttive o processi produttivi interi a Paesi emergenti è più facile a negoziarsi rispetto a convincere quei Paesi ad assumere handicap che rendano ‘equa’ la divisione del lavoro internazionale. Sostituire gli impianti produttivi con altri eco-compatibili è più facile rispetto a convincere i Paesi ad accettare il loro stato di inquinanti e le connesse ‘penali’ para-fiscali a puri fini di tutela globale dell’ambiente a beneficio delle generazioni future e sulla base di ‘dogmatiche’ previsioni di modelli para-scientifici di carattere ‘prescrittivo’; quando la meteorologia e la climatologia non riescono neanche a ‘prevedere’ con credibilità le condizioni ambientali della settimana prossima. Un libero mercato fondato su ‘leggi eque’ e adeguate a una realtà sociale e industriale totalmente imprevedibili costringerebbe la liberal-democrazia a deviare dal suo ruolo di armonizzatore ‘a posteriori’ per tentare in condizioni peggiorative di ricercare un ruolo di programmatore ‘a priori’ di uno sviluppo privo di disagi. È una strada fallita già più volte negli Stati Nazione anche i più attrezzati di istituti repressivi e impositivi, sarebbe utopia ripeterla oggi in un contesto istituzionale totalmente embrionale e privo della necessaria legittimità politica di fondo.