07/01/2010

Errori di Obama in coerenza con la futura governance globale

L’avere trasferito, grazie agli interventi finanziari decisi da Barack Obama, l’economia USA per un 50% sotto indiretto controllo dello Stato costituisce nel suo illiberalismo un essenziale passo finale sulla strada della liberazione dell’economia capitalista-liberale dalla capacità di esercitare vecchie forme di governance da parte di un particolare degli Stati (anche se l’unico a non essere legittimato dall’ottica ottocentesca degli Stati Nazione e dal loro paradigma del welfare state).

Ben prima dell’elezione di Obama il mondo dei capitali finanziari si era già esteso su base globale riducendo la passata egemonia esercitata da Wall Street (e prima di essa dalla City di Londra) e aveva gradualmente finanziato l’economia industriale dei gruppi multinazionali a prendere le distanze dagli esclusivi mercati interni dei singoli Paesi in cui risiedevano i loro Headquarters. Gli share-holders sono cresciuti in concomitanza con gli stake-holders e la capacità dei singoli Stati (che, come gli USA, sono stati e restano tuttora protagonisti egemoni) di imporre propri criteri di governance ispirati a protezionismo illiberale, è gradualmente scemata in efficacia.

E’ ormai terminata così l’era del: “Ciò che è bene per Ford, è bene per gli USA”.

La competizione globale ha offerto nuove opportunità di sviluppo a masse di diseredati nei Paesi di nuova industrializzazione grazie al finanziamento sempre più massiccio di delocalizzazioni, di out-sourcing e di riorganizzazione della catena di divisione del lavoro industriale su base globale.

Una divisione del lavoro in pieno spirito del capitalismo-liberale che affida cioè le fasi di lavorazione a chi riesce a garantire la maggiore redditività all’investimento delle sempre più scarse risorse finanziarie. Le sole che permettono di alimentare l’estensione geopolitica del benessere industriale.

Un criterio cioè che prevede di assegnare le fasi “Manpower intensive” agli affamati che superino finalmente lo stadio dell’indigenza per avviare il graduale progresso civile. Le fasi “capital intensive” invece ai Paesi più sviluppati che finora hanno ricoperto il ruolo privilegiato ed esclusivo di accumulazione delle rendite.

E’ evidente che la globalizzazione imponga oggi agli Stati Nazione eredi dei “colonialismi” più parassitari di rinunciare ai vecchi privilegi per riapprendere una loro più profittevole e globalmente redditizia “formazione” professionale che assegni mansioni in un’ottica di cooperazione industriale globalizzata e libera finalmente dalle lobby delle corporazioni ottocentesche, dai tentativi di conservare vecchi privilegi parassitari e dal lobbismo del protezionismo mercantile proposto dai gruppi industriali meno competitivi a spese della crescita globale dell’economia. Le ultime, sterili resistenze si arroccano nei comparti di mercato più saldamente legittimati dal paradigma della sovranità nazionale dei vecchi Stati Nazione. Com’è il comparto delle armi, armamenti e spazio. Anche qui tuttavia, l’11 settembre 2001 ha abbattuto quei confini di obsolete sovranità nazionali ed ha imposto a tutti gli Stati Nazione (dagli USA al Pakistan) una crescente adesione a paradigmi di “difesa preventiva” che impongono la cooperazione tanto operativa, quanto logistica quanto, infine, inevitabilmente degli armamenti e delle strategie politico-militari. A garanzia della sicurezza degli investimenti industriali passati e potenziali.

Anche in quest’ottica i “blocchi” soprannazionali compatibili con la governance globale a tutela del bene primario di comune interesse (lo sviluppo industriale globalizzato), sono pochi e sono misurati in modo inesorabile dalla disponibilità delle risorse finanziarie esistenti le sole che possono rendere “credibili” le possibili aggregazioni alternative stabilendone la scala delle probabili priorità.

Il G2 dice con chiarezza quali siano i due protagonisti egemoni sullo scenario dei contendenti politici. Attorno ad essi possono aggregarsi in modi variabili altri sistemi industriali di Paesi di seconda schiera. L’Ue è un esempio di un aggregato di sistemi industriali troppo affini e integrati con l’economia industriale USA per rinunciare a consolidare quel blocco strategico accollando a spese della propria economia nazionale gli oneri di scelte.

Neanche il Regno Unito, che potrebbe disporre di un ruolo privilegiato nel Commonwealth, dimostra di credere alla possibilità di un’UE “terza” tra Cina e USA. I recenti accordi nei confronti della lotta al terrorismo globale ne sono un sintomo evidente.

Francia e Germania d’altronde non hanno alcuna speranza di potersi proporre come guida di un’UE “terza parte”.

I nuovi Paesi entrati nell’UE (ma anche molti dei precedenti aderenti – scandinavi, Italia, Grecia, Spagna) non avrebbero alcun interesse a subire strategie più costose allineandosi a strategie meno redditizie che quella offerta dall’integrazione USA/UK/UE.

Obama fortunatamente non è riuscito a “statalizzare” l’industria sanitaria che era l’unica probabile tra le possibili vittime di politiche illiberali d’ispirazione ottocentesca.

Tuttavia i massicci investimenti di capitali statali a tutela prioritaria del sistema finanziario (Wall Street estesa) sono positivi in quanto è riuscito a ”omologare” anche il sistema industriale USA e le sue politiche globali agli interessi dell’economia globale tuttora fuori controllo e alla ricerca di definire una nuova governance. Gli USA dovranno quindi d’ora in poi negoziare con l’UE (e non solo con l’UK) scelte strategiche militari e, su quella base, definire le decisioni per attuare una governance che sia di soddisfazione per tutto il blocco ‘Occidentale’.

‘Occidentale’ essendo il concetto che in futuro riuscirà a includere, al fianco di USA/UK/UE, ogni altro Paese il cui sviluppo industriale sia competitivo ma coerente con la stabilità del contesto che è necessario per garantire una pacifica competizione industriale.