07/01/2010 |
Priorità nella costruzione della governance Esiste un equivoco di fondo che impedisce ai cultori delle scienze sociali di formarsi un criterio di lettura della realtà di loro interesse che risulti indipendente dagli aspetti storici contingenti e consolidare quindi la loro capacità di migliorare il paradigma egemone del sistema economico e di poter adeguare i meccanismi della governance rivelatisi inadeguati a soddisfare le nuove esigenze ed aspettative che animano il sistema industriale. L’equivoco si può ridurre ad una ottica “ribaltata” secondo la quale quegli studiosi esaminano l’evoluzione del progresso industriale e tecnologico e i suoi relativi impatti sul mercato degli scambi economici. Quest’ottica “ribaltata” genera un’erronea attenzione scientifica sulla riduzione in modelli “scientifici” della complessa realtà del mercato. I modelli risultanti quindi si dimostrano sempre inadeguati a permettere non dico la “previsione” di una realtà che è altamente caotica come tutti i sistemi complessi in Natura, ma anche i “correttivi” di cui dotare le regole che dovrebbero provvedere alla “governance” del sistema. Addirittura lo stesso concetto di “governance” viene in tal modo distorto dall’equivoca lettura dei processi “naturali” che anima da sempre il sistema produttivo e caratterizza il progresso della civiltà ‘Occidentale’ e delle sue istituzioni liberal-democratiche. La “governance” non può proporsi di “consentire” l’avvento del nuovo. Esso è promosso “contro” le difese intrinseche nelle regole della vecchia “governance” a tutela della stabilità tra i poteri di ogni ”ancien regime”. I recenti progressi della scienza hanno creato le premesse per consentire la rimozione dell’equivoco che ha reso fino ad oggi inadeguati, ma soprattutto poco credibili, gli apporti delle “menti sottili” sia nelle loro previsioni, sia nei rimedi suggeriti per evitare di incorrere in conseguenze che essi spesso paventano ma che spesso non si manifestano, almeno non nelle forme gestibili dai correttivi che essi suggeriscono. I progressi della scienza hanno suggerito di incorporare nei modelli econometrici gli aspetti della psicologia che anima i comportamenti dei singoli e dei loro aggregati sociali. Anche dei premi Nobel in economia sono stati assegnati a questa integrazione tra due scienze sociali che aiuteranno finalmente a “ribaltare” l’ottica e i criteri che ispirano i “modelli econometrici” al servizio della “governance” rendendoli con ciò più adeguati a dare sostegno alla crescita di libertà politica e riuscire ad ammorbidire le ripercussioni deteriori imposte dal progresso industriale alla stabilità istituzionale adeguandole alle esigenze ormai consolidate dal “libero” (pur se spesso “illegale” ma più profittevole) mercato. I “modelli econometrici” proposti finora dai cultori delle scienze sociali si sono sempre dimostrati astratti in quanto troppo “tecnico-matematici” o “etico-ideologici” e la loro utilità nel gestire la crescita del progresso industriale e delle libertà individuali è stata sempre sterile. La psicologia ci insegna fino alla più elementare saggezza popolare che: “fatta la legge, trovato l’inganno”. Ciò conduce ogni scienza sociale a fallire qualora le sue finalità si proponessero di “prevedere” (grazie a costanti affinamenti di comprensione dei meccanismi che vi compongono le scelte) l’evolvere dei fenomeni del sistema complesso del mercato. Esso è un sistema caotico auto-regolantesi che è descritto con chiarezza da Ilya Prigogine nella sua teoria termodinamica e che è illustrato nelle leggi che governano il suo evolvere con altrettanta chiarezza da Per Bak nella sua teoria dei sistemi animati da “criticità auto-regolate”. La “Storia” è destinata a non ripetersi e ogni scienza che tenti di eludere questa “realtà paradigmatica” dei sistemi umani complessi è destinata a fallire in quanto al più essa riesce a progettare strumenti adeguati all’ultima versione che ha presentato l’evoluzione del sistema nella Storia. Definiti gli strumenti di prevenzione e previsione, la “realtà sociale” programma nuove metodiche di lavoro capaci di eludere i vecchi strumenti della governance e caratterizzate da efficacia operativa e da imprevedibilità tali da condurle al rapido successo “contro” le regole del passato. Le dottrine e gli armamenti sono un chiaro esempio di questa costante inadeguatezza delle vecchie “istituzioni” ad esercitare forme adeguate di dissuasione (ad uso politico) e di interdizione (ad uso bellico) contro la creatività e la determinazione dei nuovi “tycoon” industrial-militari nella Storia. L’uso “irrituale” (e spesso “illegale” perché anticonformista e “irrispettoso” dell’etica passata) di tecnologie e sistemi “maturi” ma animati da nuove ispirazioni operative è capace di conseguire sul campo successi assolutamente rivoluzionari nei confronti degli assetti della vecchia governance. Con conseguenze ben più drammatiche e traumatiche rispetto a quelle apportate dalle crisi del 1929 o dalla presunta “crisi” della “globalizzazione” in corso. Si tratta di “guerre” che impiegano strumenti diversi e dottrine differenti (finanza creativa, banche e istituti finanziari invece di carri-armati abbinati a caccia-bombardieri “contro” trattati diplomatici e sanzioni delle Società delle Nazioni invece delle Banche Centrali e degli istituti soprannazionali di mutua regolazione dei cambi e dei flussi monetari) per conseguire analoghe finalità: consolidare una realtà futura più adeguata ad ospitare maggiori libertà e opportunità di sviluppo economico. Talvolta, come è successo alla morte dell’era dell’egemonia politica degli Stati Nazione (dell’’Occidente’), il processo di distruzione della vecchia “governance” si snoda lungo un secolo di guerre e di traumatiche ripercussioni sulla stabilità della governance e sulla creazione di nuovo consenso diffuso sul quale si possa fondare un nuovo periodo “quasi stabile” di governance capace di evitare inutili contrasti tra vecchie aspettative obsolete ma dure a morire (grandeur, ideologie, corporativismi, parassitismi) e nuovi assetti più liberali e democratici (in quanto sempre “imposti” agli anciens regimes da mercati sempre meno soggetti al protezionismo, al nazionalismo, al colonialismo, alle ideologie e perfino ai vecchi tempi del potere finanziario – Wall Street o City di Londra sono sempre meno egemoni nel “nuovo ordine globale” che è però ancora in attesa di nuove istituzioni per la “governance”). Una “governance” che è solo suggerita dal nuovo sistema industriale al fine di agevolare la crescita futura e contenere i costi dei nuovi rischi. Una “governance” che istituzionalizzi legalmente la adozione di sostituzioni tecnologico-organizzative scomode per chi ne subisce la temporanea disoccupazione ma più redditizie per tutti sul piano globale. In definitiva ciò che occorre accettare è che tra libertà politiche (e connesse istituzioni liberal-democratiche) e libertà economica (e connessi strumenti operativi sul mercato) chi “conduce il gioco” è la l’arrogante e non irreggimentabile prepotenza dell’anarchico libero intraprendere ad “imporre” anche ai regimi più illiberali ed oppressivi di liberarizzarsi in misura crescente sotto la spinta delle esigenze economiche e delle aspettative di consumo ormai maturatesi sul libero (anche se spesso “nero”, “selvaggio”, “sommerso”, “illegale” e perfino “criminale”) mercato. L’egemonia priva di ispirazioni ideologiche (perché animata solo dalle aspettative più genuine e universali dell’animale uomo - egoismo, avidità, azzardo, ottimismo, irrequietezza) della libertà di intraprendere “impone” storicamente la crescita della liberal-democrazia (necessaria per un più efficiente capitalismo-liberista – ma non per le sue forme più grossolane dell’artigianato e del baratto commerciale dei suoi primordi). Mai si è dato un sistema istituzionale (sempre imperfetto in quanto a ispirazioni e contenuti liberal-democratici) di uno Stato storico che abbia promosso lo sviluppo del capitalismo-liberista. La Storia ci illustra invece che ogni Stato istituzionalizza criteri di “governance” a-misura degli interessi elitari, rigidi e conservatori dei vecchi meccanismi produttivi che cercano sempre di proteggere i loro privilegi resi ormai parassitari dal maggiore potenziale offerto da un mercato che inevitabilmente quindi può crescere solo in modo “illegale” (ne sono esempi recenti ed eclatanti le resistenze dei vecchi oligopoli negli USA – non ostante la datata legge anti-monopoli – e le attuali vicende delle TV private in Europa ed oggi delle peripezie vissute dai gruppi delle comunicazioni su base globale – certamente portatori di progresso civile ma di disagio per le vecchie istituzioni corporative statali e private in tutto il mondo). Il non vedere, nell’analisi del progresso ‘Occidentale’, questo “ribaltamento” permanente tra causa (capitalismo-liberista – e “pirata”) ed effetto (crescita di contenuti liberal-democratici in ogni regime – naturalmente sempre conservatore-protezionista) conduce alla sterilità dei modelli econometrici al servizio della “governance”. Essi infatti si propongono di anteporre la “governance” delle vecchie regole a controllo del nuovo in fieri invece di intuire le modifiche che occorre apportare alla obsolescente “governance” per renderla compatibile con l’avvento di un irreversibile progresso industriale che, per sua natura, è estraneo e ulteriore rispetto ai vecchi interessi economici, politici o ideologici (nazionalismo, mercantilismo corporativismo, marxismo, fascismo, nazional-socialismo, etc.). Sono state le Compagnie delle Indie (società anonime per azioni che arruolarono pirati del calibro di Capitan Kidd per combattere istituzionalmente la pirateria, di Piet Hein per contrastare il potere di stati come Spagna e Portogallo o che stabilirono perfino accordi soprannazionali tra commercianti oppressi dal regime illiberale inglese – scozzesi e pirati del Madagascar). Fu Francis Drake il corsaro insignito da Elisabetta I della dignità di baronetto a stabilire il predominio inglese sui mari. Il “Britannia rule the wave” che si è imposto nei secoli con successo mercantile e industriale grazie ai suoi scopi di lucro commerciale contro le finalità “statali” che animavano le analoghe, più potenti iniziative coloniali di Spagna e Portogallo. I Lloyd furono fondati da un caffettiere di Londra come società per azioni che è cresciuta a beneficio di tutte le marinerie come efficiente servizio di interesse pubblico a sostegno del commercio al di là degli interessi nazionali, gli istituti bancari in Italia, nella City di Londra, nel Nord America hanno avuto libertà di emettere moneta propria e gli istituti di controllo sono stati istituiti solo di recente, hanno conservato un carattere “privato” o di forte autonomia dallo Stato e di partecipazione di soci privati. Le società finanziarie internazionali sono organismi privati che rispondono solo ai propri soci e raccolgono risparmio in investimenti a rischio ma a remunerazione elevata motivata solo dall’avidità e dall’attrazione per investimenti di rischio da parte di chi decide di acquistarne i prodotti più creativamente concepiti per servire al meglio la domanda di risorse per lo sviluppo industriale a fronte dell’offerta di risparmio oppresso nelle sue ambizioni di rendita dalla “prudenza” protezionista delle banche nazionali. L’intraprendenza selvaggia del sistema soprannazionale delle finanziarie è riuscita sempre ad alimentare la crescita del capitalismo-liberista abbattendo gradualmente ogni confine nazionale, settario o corporativo del passato e creando una crescita inimmaginabile del prodotto lordo globale di cui stanno beneficiando soprattutto masse di derelitti che fino ad epoche recenti erano vittime di carestie ed epidemie. “It’s the liberal-capitalism to forge liberal-democracy; not the reverse … stupid!” “It’s the avid, reckless and greedy individual to forge industrial growth and better quality of life; not any pious ethical, fearful, parsimony driven observer … stupid!”
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