06/05/2008

Ribaltamento dei concetti abusati di ‘destra’ e ‘sinistra’?

 

Sulle ceneri dell’ottocento proclamate dal recente esito elettorale in Italia stiamo assistendo alle prime mosse dei nuovi leader politici destinati a ricoprire ruoli di crescente egemonia sul futuro scenario interno ed internazionale. Alemanno in particolare dalla sua carica di sindaco della sede ‘emblematica’ della civiltà ‘Occidentale’ sta dando una collocazione culturale del suo mandato di sindaco di Roma caratterizzandola ad azioni di grande respiro nello scenario geo-politico della globalizzazione. La ‘destra sociale’ è stata da sempre nel dopoguerra detentrice del più vasto seguito tra gli elettori che non avevano rinnegato il periodo storico conclusosi con la sconfitta bellica di tutti i vecchi Stati Nazione. Alla fine del conflitto l’Italia politica si è divisa drammaticamente in due; chi riteneva che il ventennio fosse stato ‘male assoluto’ (e rivendicava una propria ‘lotta di resistenza’ ante litteram o vi si accodava per ragioni opportunistiche all’ultimo momento mitizzando una ‘liberazione’ ad opera della resistenza armata e del sostegno ad essa fornito dall’URSS) e chi invece accettava di riconoscere lealmente che la sconfitta bellica fosse stata opera dell’intervento armato anglo-americano e aveva rifiutato l’abiura della recente storia ventennale da parte delle elite monarchiche e finanziarie (continuando a difendere sul campo con una scelta ideale – e magari ‘obtorto collo’ all’insegna dell’insegna nazionalista di ‘right or wrong my Country’ – militando sotto le bandiere della RSI e della XMAS e interpretando quindi la ‘resistenza’ come una guerra civile tra sostenitori della monarchia nazionale o peggio come quinta colonna di un Paese ostile; l’URSS). La RSI aveva ristabilito una continuità programmatica con gli inizi dell’esperienza fascista con la carta di Verona ispirata a un’economia ‘socializzata’. Finito il conflitto quella metà di italiani che sentivano di ‘avere perso la guerra’ e di non potersi convincere invece di ‘aver liberato il Paese’ tramite una rivolta di massa invece che dopo una sconfitta sul campo, fu ghettizzata (l’arco costituzionale ne fu a lungo la razionale strumentale) dall’altra metà che assunse la direzione politica stendendo la costituzione della nuova repubblica in chiave ‘anti-fascista’ e quindi restauratrice della legittimità di un sistema pre-fascista ispirato ai principi risorgimentali ottocenteschi e alle rivendicazioni socialiste ad essi connesse. Entrambi principi che erano ormai tramontati in quanto inadeguati alla mutata realtà sociale del Paese e soprattutto al nuovo contesto geo-politico nel quale poteva svilupparsi il potenziale produttivo di una nazione alle soglie dell’industrializzazione in piena competizione sui mercati internazionali del mondo libero. Si manifestò immediatamente un’incoerenza palese tra quanto era stato realizzato di positivo durante il ‘deprecato ventennio’ (una vera e propria rivoluzione di infrastrutture organizzative e tecnologiche di diffuso beneficio sociale – dall’IRI, alla Previdenza Sociale, al sistema educativo, al servizio postale, alla cantieristica navale, all’industria petrolifera, all’industria aeronautica, all’integrazione del comparto rurale con il distributivo con la Federconsorzi) e il totale diniego di qualsiasi aspetto positivo realizzato dal fascismo (etichettato di ‘male assoluto’). Una seconda incoerenza del nuovo sistema politico fu palese a causa del contesto geo-politico post-bellico che divise i blocchi che avevano monopolizzato la stesura della costituzione in favorevoli all’industrializzazione di libero mercato ed alla Chiesa Cattolica sostenuti dalla sola potenza egemone sullo scenario globale (gli USA) e in sostenitori di una industrializzazione programmata dallo stato e legittimata sulla base di valori sociali prioritari rispetto alle esigenze di mercato competitivo che assunse a proprio riferimento l’unica potenza bellica etichettata di ‘socialismo reale’ (l’URSS) ostile all’egemonia degli USA e governata da un regime palesemente dittatoriale, illiberale e quindi inefficiente. Sorse a questo punto un’ulteriore e incomprensibile incoerenza tra il preteso carattere ‘di sinistra’ di un totalitarismo elitario e satrapico come quello imperante in URSS e il preteso contenuto ‘di destra’ dell’esclusa ‘destra sociale’ del MSI. Tra le due scelte di parte poté collocarsi un movimento politico che si ispirava alla dottrina sociale della Chiesa e che, in epoca pre-fascista, era appena nato (quindi mai sperimentato sul campo in epoca ottocentesca) e che, in epoca fascista, aveva svolto un seppur limitato ruolo di autonomia politica grazie al sostegno del Vaticano. Questa compatibilità con le aspettative post-belliche libertà di religione e libertà di intraprendere e con le aspettative sociali di diffusa crescita di benessere economico del ceto sociale cresciuto sotto il fascismo (piccola borghesia impiegatizia e commerciale e mezzadri) diede a quel movimento politico credibilità come portatore di una ‘terza via’ tra il libero mercato ‘selvaggio’ e il ‘socialismo reale’ totalitario e anti-cattolico. La scelta della ‘terza via’ inoltre consentì a quel movimento politico di servirsi di tutte le efficienti strutture organizzative dello stato fascista e della maggioranza dei suoi addetti che non potevano condividere il ‘dogma costituzionale’ dell’antifascismo come ‘male assoluto’. La ‘terza via’ in economia venne gestita da leader politici formatisi culturalmente sotto il regime fascista e i suoi criteri di stato-guida e fu legittimata dalla dottrina sociale della Chiesa e poté quindi riproporsi politicamente nel contesto post-bellico come ‘centro’ rispetto al blocco popolare social-comunista che si etichettò ‘di sinistra’ e ai neo-fascisti che, per risulta, furono etichettati ‘di destra’ (pur richiamandosi essi ai principi ‘sociali’ della RSI). Nacque quindi il ‘mito’ della tuttora vitale e popolare ‘destra sociale’. Grazie ai sostegni delle strutture create dal fascismo ed agli aiuti USA in chiave anti-URSS il naturale sviluppo industriale ebbe due manifestazioni di grande successo, i patti agrari con la creazione dei piccoli produttori rurali (Coldiretti) e la ricostruzione che alimentò una nuova classe di industrie dotate da elevata flessibilità e competitività. Lo sviluppo della ricchezza e la sua immediata diffusione a tutti gli strati sociali consentì di finanziare programmi di sviluppo decisi centralmente e messi in pratica dalle strutture industriali fasciste (IRI e Agip-ENI). Ciò consentì ai tycoon di stato di corrompere il legislativo per agevolare con la programmazione industriale i propri scopi aziendali. La corruzione si tradusse in clientelismo nelle assunzioni e nei finanziamenti privati ai partiti e ai loro sindacati. Nell’impossibilità ideologica di ‘traghettare’ al governo la ‘destra sociale’ e attuare quindi la ‘politica dei due forni’, il movimento politico egemone in Italia (definito catto-fascista dai social-comunisti) fu costretto gradualmente a negoziare in modo illiberale ed extra-parlamentare una partecipazione al potere dei social-comunisti (il consociativismo) grazie a sotterfugi dialettici quali le ‘convergenze parallele’ incomprensibili non solo all’estero ma soprattutto all’elettorato che, consapevole dell’abusiva esclusione illiberale della ‘destra sociale’ dalla partecipazione al governo del Paese e consapevole degli aspetti positivi del fascismo come presunto ‘male assoluto’ per ‘dogma costituzionale’ e crescentemente insofferente dei costi del clientelismo insostenibile parassitismo in epoche di scarso sviluppo economico, gradualmente si è distaccato dai tradizionali movimenti politici dell’’arco costituzionale’ ormai inadeguati a proporre soluzioni credibili e idonee a soddisfare le nuove aspettative sociali. Si è creata una crescente attesa di ‘novità politica’ che ha dato adesione a movimenti inesistenti in precedenza (Lega Nord) o emarginati illegittimamente negli schemi dogmatici e poco credibili della costituzione repubblicana (autonomia socialista di Craxi e, successivamente, Berlusconi e infine la ‘deprecata’ ‘destra sociale’ che fu infatti finalmente ‘tragettata’ da Berlusconi e portata dai suoi leader più astuti, Fini, e rappresentativi, Alemanno, fino al recente successo elettorale). Possiamo a questo punto tornare alla analisi politica iniziale. Nell’attuale contesto geo-politico della globalizzazione, la dottrina della ‘destra sociale’ risulta la più adeguata a svolgere l’unico ruolo credibile riconoscibile allo stato, quello di ‘mitigare’ i disagi indotti sulla economia locale dall’internazionalizzazione dell’economia. La sua ispirazione (originaria della RSI) di intervento programmatorio sull’economia non è possibile né credibile, tuttavia è credibile la sua attenzione al porre in essere ogni possibile ‘resistenza’ nei confronti di ripercussioni troppo traumatiche sul piano sociale di decisioni che ormai vengono prese all’estero sia in sede di Unione Europea (Brussels e Francoforte) che altrove (Wall Street e ONU). Alemanno sta intelligentemente, e con la grande credibilità derivatagli da questo patrimonio ideale conservato vivo dalla ‘destra sociale’ attraverso il tramonto delle ideologie ‘di sinistra’, stabilendo le relazioni interne ed estere che si manifestano essere le più appropriate alle esigenze di Paesi e istituzioni considerate ‘per dogma costituzionale’ aliene al libero mercato e alla globalizzazione in spirito ‘Occidentale’ liberal-democratico: la Chiesa di Roma con la sua dottrina sociale, Israele coi suoi insediamenti di kibbutz nel territorio del futuro stato palestinese, gli USA e i suoi interventi geo-politici nel mondo islamico. Alemanno ha capito che la globalizzazione sotto l’egida del libero mercato offre all’Italia e in particolar modo alla sua personale visibilità politica di sindaco di Roma opportunità di svolgere un ruolo redditizio sia sotto il profilo industriale sia sotto quello politico. Sta compiendo in tale direzione encomiabili passi da statista acquisendo un’immediata credibilità come futuro primo ministro o ministro degli affari esteri. Infatti le esigenze di tutela dal disagio indotto da decisioni di gruppi multinazionali sulle economie locali si possono rivendicare con credibili rivendicazioni espresse da un Paese in cui il tessuto industriale è in preminenza costituito da piccole e medie imprese caratterizzate da un grado elevato di flessibilità e creatività industriale come l’Italia e Israele. Le stesse esigenze di tutela sociale dalle ripercussioni di investimenti strategici multinazionali può portare a stabilire forme di naturale cooperazione industriale internazionale tra quel tipo di aziende sia in Israele sia in Paesi di imminente industrializzazione quali quelli di religione musulmana ad iniziare con un debito ‘rodaggio’ e verifica di fattibilità in Medio Oriente. Una Palestina autonoma non può nascere se non accetta i criteri della liberal democrazia e del libero mercato per suo interesse di sviluppo economico e per interesse geo-politico che orbita su quella area regionale da parte di USA e di Chiesa Cattolica. Essa deve quindi accogliere gli insediamenti di kibbutz sul suo territorio non come offesa alla propria ‘sovranità politica’ ma come forme di cooperazione al suo sviluppo industriale da parte di uno stato ormai non più ‘ostile’ ma in pacifica relazione estera. La Chiesa di Roma con le sue tradizionali strutture di cooperazione allo sviluppo internazionale sia laiche che religiose non può che sostenere la nascita di un tale spirito di cooperazione tra stati ispirati da religioni del Libro che migliorerebbero il contesto nel quale dirimere in modo non conflittuale gli interessi di più stretto contenuto religioso in Terra Santa. Le esigenze geo-politiche USA di affidare ruoli regionali di attuazione delle politiche decise in sedi centrali (ONU, FMI, WTO, FAO, NATO) per ragioni di convenienza economica e politica si prestano ad affidare a un Paese che, come l’Italia in cooperazione con Israele, con la Chiesa di Roma e con i Paesi islamici che siano ideologicamente non radicali, risultano tecnologicamente credibili e industrialmente non competitivi con l’economia industriale USA e ciò in particolare dopo i consolidati nuovi rapporti geo-strategici intercorsi tra USA e Vaticano. L’Italia post-resistenza ha insomma grandi opportunità politiche e Alemanno ha un’occasione preziosa per diventare in tempi rapidi il Ronald Reagan (compassionate conservativism) o il Blair (liberismo sociale) sullo scenario geo-politico del Mediterraneo