06/04/2010

Uomo/Donna: parità di diritti o uguaglianza di ruoli umani e sociali?

Ogni demagogia e autoritarismo illiberale si fonda sulla mistificazione dei concetti che animano il dibattito sociale. Quello della parità di diritti a tutti gli individui è il classico esempio. Cristo non ha mai preteso che il concetto di “siamo tutti fratelli” si limitasse alla nozione latina dei “fratres” escludendo quindi la categoria delle “sorores”. Per parlare del “fondatore” della civiltà ‘Occidentale’ che rappresenta per antonomasia il più fervido emblema della non-violenza e del rifiuto del “potere” per svolgere la sua missione terrena. Madre Natura non ha mai attrezzato l’essere umano di caratteristiche “uniche e indifferenziate” adatte a garantire l’evoluzione del disegno intelligente (che avanza anche grazie al progresso costruito dalla società umana) ma ha dotato l’essere umano (l’”uomo”) di un’intrinseca diversità di maschio e femmina le cui attitudini sia fisiche che psichiche e spirituali contribuiscono in modi peculiari e non surrogabili a costruire la società nel suo complesso di potenzialità e di esigenze.

La Natura sarebbe stata meno dispersiva a costruire una società umana di uguali sulla traccia dei mitologici ermafroditi primigeni ma, l’evoluzione naturale invece si è voluta servire della “diversità” tra esseri umani imponendo loro la fatica di integrare le proprie diverse attitudini per costruire unità socialmente sempre più complesse nel mutuo interesse per la sopravvivenza della specie, la gratificazione individuale e il progresso sociale.

Assumere che l’essere umano femmina sia mosso da “uguali” aspettative ed esigenze dall’essere umano maschio è solo un’astrazione intellettuale che non rispetta la libera espressione dei bisogni psico-fisici di ogni individuo che è sempre “diverso” dai suoi simili a cominciare dalla struttura e dalle pulsioni ormonali che hanno riflessi su ogni altro aspetto motivazionale e relazionale.

La “parità” di diritti civili è altra cosa e si riferisce al diritto di avere la “libera e responsabile” manifestazione delle proprie “diversità”; rispetto per gli altri cui non si chiede di sobbarcarsi gli oneri della propria diversità e rispetto per se stessi pretendendo dagli altri di non essere interdetti dall’assumere responsabilità desiderate il cui onere viene sostenuto dal singolo.

Supporre che il progresso della civiltà sia stato costruito sulla base della prevaricazione tra generi e classi e non grazie ad una disponibilità di doti diverse che hanno consentito di superare le limitate opportunità di successo contro le minacce che incombevano in ogni epoca sulla società umana e ne ponevano in forse la stessa sopravvivenza è un’affermazione semplicista che non tiene in adeguato conto la ricchezza delle doti che compongono il profilo umano e comportamentale di ogni individuo prima di caratterizzare in modo statistico le loro ripartizioni in categorie tra cui è evidente la peculiarità di quella di genere.

Pretendere di imporre dall’alto delle istituzioni più distanti dai primi nuclei sociali (famiglia, clan, sodalizio, squadra, azienda, comune, etc.) più affettivamente prossimi alla maturazione sociale di ogni individuo, una “parità” astrattamente definita sulla base delle aspettative economiche o ideologiche è un atto illiberale che rischia di alienare dalla politica i soggetti più dotati e appassionati dall’indipendenza personale rendendoli ostili anche nei confronti di cambiamenti che accelererebbero invece nuove aperture che la società industriale oggi consentirebbe nei confronti di molti “diversi” dai tradizionali protagonisti che statisticamente sono in maggioranza “maschili” (come anche le Thatcher, le Merkel, le Albright, le Clinton o le Bonino dimostrano) solo per l’inadeguatezza delle tecnologie fino a ora disponibili a fronte dell’ostilità drammatica dello scenario in cui si è sviluppato il progresso civile. Privilegiare le doti di Achille e Ettore o Leonida o Cesare rispetto a quelle di Ulisse, Pericle o Machiavelli o Taillerand e Kissinger è stato imposto dall’urgenza e drammaticità delle minacce per la sopravvivenza della “civiltà” percepita nelle varie epoche come un insieme di usanze più accettabili di altre che tentavano di prevaricarle. Privilegiare le doti maschili sul lavoro e in azienda è stato imposto dal carattere “primitivo” delle tecnologie disponibili fino a oggi.

La verità è che ogni individuo sia esso maschio o femmina è dotato d’un capitale umano che è un insieme di attitudini fisiche, psichiche e spirituali che pretendono di ricevere gratificazione nella relazione sociale e che costituiscono la scala dei bisogni che animano la disponibilità di ciascuno ad impegnare le proprie risorse di energia. Molte di quelle attitudini derivano dalla struttura fisica dell’individuo. Queste diversità si possono ridurre grazie a un’opportuna riorganizzazione del lavoro in ogni ambiente (famiglia, clan, team, azienda) inserendo tecnologie che riducano la preminenza degli aspetti materiali su quelli intellettuali dai processi produttivi. È per questo motivo che occorre procedere a una costante sostituzione delle macchine all’uomo in ogni processo produttivo anche se ciò costa agli addetti onerose fasi di riqualificazione e di rischio per il reddito. L’aspirazione a un maggiore reddito e a un lavoro meno usurante e più qualificato rispetto alle doti più personali di ciascuno costituisce la motivazione che spinge ognuno ad affrontare il rischio del nuovo e a rifiutare la permanenza in ruoli tradizionali “protetti” da leggi politically correct.

Ciò vale per le differenze che distinguono in modi evidenti perfino alle “menti sottili” i maschi dalle femmine nelle mansioni operaie. Finché l’operaio non venga “liberato” da quelle sue mansioni disumane grazie alla sua sostituzione con i “robot” la cui gestione nella catena di montaggio richiede un profilo operaio dotato di conoscenze e percezione più sofisticata dell’insieme del processo produttivo.

Ma lo stesso vale per tutti (maschi o femmine) che devono spesso rinunciare a gratificare proprie aspettative di libera manifestazione della creatività e della ingegnosità personale per aderire a frustranti e ripetitivi tipi di prestazione dei propri contributi al buon funzionamento e al successo del lavoro di gruppo cui li vincola la insoddisfacente divisione del lavoro (in famiglia, nel clan, nel gruppo, in azienda).

Dalla esplosione della fase industriale della civiltà ‘Occidentale’ si è potuto assistere alla crescente liberazione dell’”uomo” dalla schiavitù. Non dettata da ragioni etiche ma in linea con esse. La liberazione degli schiavi dalle piantagioni dei latifondisti confederati fu sollecitata da due ragioni: la meccanizzazione della raccolta dei fiocchi dalle piante e la disparità del valore aggiunto umano tra piantagioni a ciclo stagionale e miniere e acciaierie a ciclo continuo.

Il finanziamento del futuro progresso civile imponeva di aumentare la resa del lavoro umano nei processi produttivi di allora. La tecnologia industriale lo rendeva pragmaticamente possibile.

L’inserimento delle femmine in mansioni produttive maschili fu imposta da due fattori: la dimensione dei due conflitti mondiali che impose di sacrificare al fronte intere generazioni di maschi e chiamare le femmine (e i prigionieri) alla produzione bellica e logistica e la sofisticazione delle tecnologie che permettevano anche alle femmine di concorrere a particolari missioni belliche.

La liberazione dei maschi dai compiti protetti in Patria permise di raddoppiare il potenziale professionale disponibile per l’esplosione dei processi produttivi a fronte della domanda post-bellica che altrimenti non avrebbe potuto essere soddisfatta con la stessa rapidità di crescita del reddito globale.

Il finanziamento dell’attuale periodo di crescita civile avviato dalla globalizzazione industriale richiede che quella maggiore offerta di lavoro venga impiegata a sofisticare grazie alle disponibili conoscenze scientifiche e tecnologiche l’organizzazione del lavoro su base soprannazionale. Ciò impone che il capitale di sensibilità umane e creative delle donne (ma anche del capitale meno “maschile” degli uomini), che è restato fino a oggi sacrificato dalla grossolanità dei processi produttivi industriali, venga “liberato” dai suoi tradizionali vincoli per istituire pragmaticamente nuove relazioni sul posto di lavoro capaci di sfruttare appieno il potenziale di energie psichiche che costituisce il preponderante “valore aggiunto” dell’essere umano alla crescita di reddito e di progresso civile.

Non sono le leggi astrattamente etichettate di politically correct da menti sottili generalmente nullafacenti a creare le condizioni di questo salto di qualità della civiltà ‘Occidentale’. È il mondo privato dell’industria che sta già da decenni creando gli strumenti organizzativi più innovativi per la riorganizzazione dei processi produttivi e più attraenti per tutta la società umana in quanto consentono una diversificata adesione locale e individuale a schemi comportamentali che siano in grado di gratificare in modo personalizzato i vari tipi di priorità dei bisogni maturati da ogni individuo a seconda del suo profilo individuale cui concorrono sia le doti intellettuali, sia quelle strutturali, sia quelle ormonali, sia infine quelle etiche che ciascuno deve ispirare a un modello trascendente ma in piena libertà per quanto concerne i tempi e i modi di maturazione.

Olivetti a Ivrea e nelle sue fabbriche aveva cercato (come molti altri tycoon del 1800 e del 1900) di rendere la produzione più affettivamente partecipata dalla comunità locate e dai gruppi di lavoro. La fedeltà aziendale, la motivazione al successo di gruppo, la partecipazione proattiva alla qualità totale, la assertività nelle comunicazioni interne e verso l’esterno dell’azienda, la customer satisfaction, la customer fidelity, la partecipazione azionaria sono tutti esempi di ricerca di nuove relazioni umane sul posto di lavoro che mirano a soddisfare la redditività dei processi industriali sia migliorando le prestazioni degli addetti, sia le relazioni coi fornitori, sia quelle coi consumatori/utenti.

Le dosi di psicologia applicata al lavoro che vengono iniettate nei processi produttivi quotidianamente sono permesse dalle conoscenze scientifiche che migliorano la conoscenza sulle aspettative psichiche dell’uomo e dalle tecnologie sempre più “liberatorie” che consentono di scavalcare ogni tipo dei vecchi residui che ancora ostacolano le relazioni umane sul posto di lavoro obbligando al rapporto face-to-face anche nei confronti di profili umani non a noi affini per natura. Il lavoro a domicilio e free lance consente a ciascuno di prestare servizio al gruppo indipendentemente dalla sua apparenza o gradevolezza relazionale e comportamentale. L’esecuzione del pensum più attagliato al suo profilo professionale può essere sviluppato a domicilio così come ordinare beni e servizi di consumo a domicilio o richiede collaborazioni da partner eventualmente interessati al problema in questione.

Pretendere di imporre universalmente la “parità” a profili umani motivati dalle aspettative più difformi non è il mezzo istituzionale più adeguato a sfruttare il potenziale di flessibilità che invece le aziende stanno usando per adeguarsi al salto di progresso industriale in corso. “Sindacalizzare” le donne, i bambini, i meno abili autorizzando nel contempo l’aborto degli individui afflitti da sindromi inabilitanti (come la sordità di Beethoven o la cecità di Bocelli) non sembra un modo di realizzare il progresso della civiltà ‘Occidentale’ se se ne vuole tutelare il pragmatismo unitamente alla crescita etica delle condizioni di vita ispirata al vangelo nel pieno rispetto del primo principio della libertà: la separazione del peccato dal reato.

Non si può imporre l’adesione a comportamenti etici per legge, se ne può solo stigmatizzare l’eventuale assenza di sensibilità sociale.