06/03/2010

Immortalità dei miti in Italia

Ascoltavo una trasmissione di Radio ilSole24Ore condotta da Roberta Giordano con la partecipazione di Monica Guerritore in cui in stile “progressista” si abusava di luoghi comuni del tipo di: “Largo ai giovani!”, “Cambiare le classi dirigenti!”, “Premiare il merito!”, “Frenare l’esodo dei cervelli!”. In realtà si tratta tutte di espressioni prive di contenuti concreti i quali dovrebbero invece essere riferiti a proposte pragmatiche verso aspettative realistiche.

La struttura dell’economia italiana discende da un’intricata rete di relazioni economiche e sociali che trova il suo equilibrio nell’assetto attuale in cui la preponderante offerta occupazionale risiede nel tessuto delle PMI a carattere familiare costrette fino a ieri a ricavare il proprio fatturato nell’indotto produttivo dei gruppi di più grandi dimensioni i quali, a loro volta, ricavano il loro reddito a spese della produttività dell’indotto (per conservare la competitività sul mercato) ed a spese del contribuente (grazie ai sostegni erogati dallo stato ai loro investimenti per l’innovazione tecnologica ed organizzativa imposta dalla concorrenza sul mercato).

I professionisti che servono in concreto a questo consolidato sistema produttivo nazionale non sono quelli che risultano invece adatti al sistema USA, francese, britannico o tedesco. Gli imprenditori in Italia offrono occupazione scegliendo il profilo professionale e umano dal quale ritengono possa derivare un maggiore valore aggiunto. Nessuna azienda in Italia lesinerebbe di spendere per appropriarsi di un tipo di macchinario o di impianto produttivo benché costoso qualora fosse convinto che le sue maestranze, nel contesto del suo mercato riuscissero a ricavarne maggiore competitività, produttività e redditività. Se le aziende in Italia non assegnano adeguata priorità agli investimenti in professionalità più sofisticate culturalmente vuol dire che non ritengono che sia la carenza di quel profilo professionale a impedire la crescita della competitività della loro azienda sul mercato.

Ciò vale anche per ciò che concerne il comparto dei servizi pubblici. Anche lo stato in senso lato si compone di aziende che per quanto improduttive e parassitarie, detengono un saldo ruolo nel sistema economico nazionale. Lo stato offre occupazione parassitaria a una metà delle famiglie. Chiudere lo stato per impiegare quelle risorse in modi meno parassitari  creerebbe un trauma economico e sociale insostenibile sul piano della stabilità politica che è necessaria per garantire continuità al graduale ammodernamento del sistema produttivo industriale. Le risorse astrattamente risparmiate non potrebbero essere investite nell’innovazione tecnologico-organizzativa del sistema industriale nazionale per la perdita di stabilità politico-istituzionale del Paese.

È un ruolo tutelato perfino dal sistema legislativo-istituzionale e dal connesso sistema di prelievi fiscali e sostegni finanziari che alimenta il complesso sistema produttivo di cui fanno parte i gruppi industriali di più grande dimensione (statali o privati) e il loro indotto produttivo di PMI locali.

Ammodernare questa struttura industriale scarsamente competitiva solo dando spazio a professionisti di più giovane età (sia in politica che nell’industria) o dotati di una formazione più sofisticata di quella che serve per garantire la lenta e graduale innovazione del sistema nazionale garantendo continuità alla stabilità politica del contesto istituzionale è una pura utopia.

L’innovazione tecnologica è imposta alle aziende dalla crescente competizione sul mercato internazionale. La richiesta delle aziende che abbiano raggiunto adeguati livelli di competitività produttiva di nuovi servizi dello stato a sostegno delle loro nuove esigenze di penetrazione sul mercato internazionale seguirà a quella prima fase di innovazione tecnologica. Solo dopo avere ricevuto migliori servizi dal sistema statale le aziende potranno dedicare adeguata priorità ad ulteriori ammodernamenti organizzativi che, a loro volta, richiedono una fiscalità e servizi finanziari adeguati a quell’impegno riorganizzativo prima di essere attuati in pratica. Finalmente e solo dopo avere verificato la credibilità dei servizi dello stato e della finanza e la loro adeguatezza a sostegno della redditività dell’investimento, l’azienda potrà valutare la maggiore convenienza a “sostituire” i professionisti reperibili in modo tradizionale sul mercato nazionale con altri più sofisticati culturalmente e più costosi ma più redditizi nel nuovo contesto.

In definitiva si può affermare che frasi del tipo “Largo ai giovani!” siano solo utili ai vecchi per conservare il loro potere resistendo all’innovazione che viene imposta a ogni Paese dalla sua partecipazione a un mercato che riesca a imporre con la sua concorrenza priva di tutele “politiche” il graduale ammodernamento del sistema industriale-istituzionale nazionale. Un sistema in cui “tout se tien” in cui il sistema parassitario dello stato è parzialmente funzionale alla sopravvivenza della gradualità, continuità e stabilità del sistema sociale nel corso d’un cambiamento che inevitabilmente deve avvenire sul medio termine. Ogni accelerazione non può che essere propagandata come “rivoluzione” ma genera inevitabilmente un periodo di caduta del reddito e un conseguente periodo di restaurazione del vecchio sistema produttivo. Nel quale forse possono trovare posto professionisti giovani come età ma impossibilitati a prestare più avanzate prestazioni culturali. È successo in ogni epoca e sta accadendo anche oggi sotto la pressione della globalizzazione. Occorre attendere che il sistema industriale riesca a modificarsi autonomamente (anche coi fallimenti, le delocalizzazioni e la loro pressione sulle istituzioni affinché si adeguino alle nuove esigenze imposte dalla competitività del sistema nazionale sul mercato internazionale) perché i giovani professionisti possano trovare adeguate gratificazioni nel loro Paese. Fino ad allora essi devono restare parcheggiati all’estero e scegliere se andare a formare la popolazione “nazionale” del futuro (UE o blocco USA/UE) come prima di loro hanno fatto gli emigranti nelle Americhe oppure restare occupati all’estero come un tempo i pugliesi o i calabresi facevano spostandosi in Germania o a Milano o Torino per rientrare per le ferie o in quiescenza al loro paese di origine. Niente cambia realmente tranne le migliori condizioni di vita che la realtà odierna offre ai nostri giovani professionisti!