04/06/2010

Istituzioni la vera fonte dell’evasione fiscale ‘libertaria’

Di recente Carlo Pelanda ha partecipato a una delle tante sessioni giornalistiche TV che cercano di spiegare come la vera fonte della ‘macelleria sociale’ sia da identificare nell’evasione fiscale.

Il professor Pelanda ha sostenuto con molta chiarezza che, certamente l’evasione fiscale costituisce un problema per ogni regime ma che per contrastarla efficacemente occorre preliminarmente abbattere il peso e l’avidità del fisco pena la prosecuzione dell’evasione e la riduzione della lotta legale all’emissione di ‘grida’ di manzoniana memoria. Pelanda avrebbe forse potuto anche chiarire che, aggredire di petto l’evasione fiscale in modo mediatico-demagogico deriva dal trascurarne la composizione strutturale:

  1. –         30% evasione del mio portiere/idraulico o del suo amico meccanico della municipale di trasporto comunale che mi garantisce la piccola-manutenzione anche nei giorni più festivi dell’anno (fascia ineludibile anche nella Russia Sovietica e componente integrativa di ‘libero mercato’ dei redditi più bassi generati dall’avidità del sistema improduttivo di ‘stato’)
  2. –         30% evasione/elusione dei redditi più elevati dai ‘Briatore’ o ‘Valentino Rossi’ in su che la crescente ‘libera circolazione’ dei capitali e delle persone rende assolutamente legale oltre che legittima e che comunque rischierebbe di tradursi in fuga dei capitali e dei migliori produttori dal paese
  3. –         30% evasione concordata tra utente/professionista che potrebbe essere compressa solo abbattendo l’imposizione fiscale sulle libere professioni e non invece aggiungendo i costi dei controlli corruttibili o aumentando la connivenza tra clienti/fornitori-di-fiducia nel paese-reale che aumenterebbe la distanza col paese-legale
  4. –         10% evasione/legalizzata delle ‘caste parassitarie’ (magistrati, grands commis, notai, giornalisti, generi di monopolio, coldiretti, etc.) che costituiscono le tante ‘clientele’ politiche che impediranno al paese di ammodernarsi dall’interno in attesa di ricevere più moderne ed efficaci istituzioni soprannazionali grazie alla travolgente globalizzazione che fortunatamente sta aggregando in modo crescente tutta l’economia sana e competitiva del paese (come una matassina di spaghetti che riesce ad aggregare ‘consensualmente’ tutta la disponibilità del piatto garantendo una sua ‘logica’ funzionale “l’economia industriale”)

Limitarsi a denunciare l’illegalità dell’evasione e addebitarle ogni fonte di male (la ‘macelleria sociale’ citata perfino dal governatore della Banca d’Italia) non risolve il problema della sua ‘legittimità’ percepita come la sola difesa dallo stato-sceriffo-di-Nottingham da fasce non marginali della popolazione. Se tale ‘percezione’ sociale (su cui si fonda ogni consenso politico) fosse infatti di dimensioni limitate ai rari stravaganti sempre presenti in ogni regime non potrebbe costituire né minaccia per le istituzioni che si nutrono di fisco né per le loro iniziative di presunta efficacia contro la ‘macelleria sociale’.

Nei regimi in cui non esiste un eccessivo divario tra paese legale (le istituzioni) e paese reale (i produttori) la evasione fiscale risulta commisurata alla ‘percezione’ dei risultati conseguiti dallo stato nelle sue iniziative a beneficio del paese (immagine, credibilità, sviluppo, sicurezza, cultura, infrastrutture, assistenza, etc.). Anche sotto regimi autoritari la credibilità dello stato è misurabile tramite la limitatezza dell’evasione e il successo di iniziative volontarie a-tema come l’emblematico ‘oro alla Patria’ indice della fiducia nella politica autarchica del regime fascista.

Anche nei regimi più totalitari invece come nella Russia sovietica l’evasione fiscale garantisce sostegno alle forme di ‘libero mercato’ che sono spesso le uniche a garantire coi loro apporti ‘illegali’ di beni e servizi agli utenti finali la sopravvivenza del regime stesso (‘mercato nero’, contrabbando, ‘orti familiari’, ‘lavoro nero’, cambia-valute, etc.).

Insomma occorre riflettere sul fatto che è lo stato a doversi guadagnare la credibilità delle sue prestazioni che giustificano la legittimità del suo ruolo ed il consenso politico attribuito dai produttori-tassati alle leggi emesse ‘legalmente’ dalle istituzioni statali indipendentemente dal tipo di regime vigente. Se lo stato e le sue leggi perdono credibilità per la inadeguatezza dei risultati, per eccesso di ruolo o per eccesso di costo ciò che prevale nel paese reale è la ‘percezione’ di ‘illegittimità’ di qualsiasi strumento ‘legale’ istituito dallo stato per condurre le sue politiche; che esse siano liberali o totalitarie è un fatto irrilevante.

L’ammasso del grano della Federconsorzi di matrice fascista fu percepito come un enorme fatto socialmente utile e generò maggiore consenso nell’opinione pubblica al regime illiberale. Così come avvenne con molte altre riforme imposte autoritariamente dal regime (riforma Gentile, riforma Rocco, distribuzione delle terre ai reduci, bonifica delle terre paludose, battaglia del grano, Cinecittà, EIAR, costituzione dell’IRI, creazione dell’AGIP, creazione dell’Ala Littoria, istituzione di colonie e tubercolosari, istituzione di ‘case chiuse’, etc.).

Proseguire in regime di crescente integrazione dei mercati (dalla CECA al MEC all’UE) a conservare carattere monopolista statale a Federconsorzi, IRI, ENI, Alitalia, FS, Poste diventa sempre meno sostenibile come ruolo sociale dello stato rispetto alla ‘macelleria sociale’ dell’avidità privata. Diventa sempre meno credibile che, in assenza delle poste statali i recapiti di corrispondenza e di merci a domicilio possa subire degradi di prezzo o qualità data la crescente sostituzione odierna dei molti DHL, FederalExpress, SDA, UPS e data la tradizione degli operatori privati che in tutto il mondo dalle origini hanno anticipato il servizio statale di passeggeri, merci e corrispondenza da WellsFargo, Thurm und Taxis, Pony Express.

Se scade la credibilità del ruolo monopolista dello stato e vi si aggiunge la percezione di eccessivi costi, di scadente qualità dei servizi e di sfruttamento del servizio come fonte clientelare di potere politico, è molto difficile evitare il consolidarsi della convinzione che la ‘legalità’ del servizio sia ‘illegittima’ in quanto non si potrebbe guadagnare il ‘legittimo’ consenso in sede referendaria. L’illegittimità del paese legale cresce nella ‘percezione’ dei produttori ed essi cercano di tutelarsi dalla percepita avidità del fisco con ogni mezzo a loro disposizione in funzione del lavoro da essi erogato sul mercato in forme le meno ‘controllate’ possibile. Il mercato nero e il lavoro nero fuggono le istituzioni sindacali che vengono percepite come conniventi col paese legale e quindi fonte di oppressione para-fiscale con le loro provvidenze a scopi socialmente utili. La cosiddetta ‘macelleria sociale’ diventa quindi solo un’astratta definizione difficilmente attribuibile a chi si trova estraneo al paradigma dettato dal paese legale. Il paese reale riesce a fornire soluzioni ‘locali’ più efficaci alle aspettative di servizi socialmente utili colle più illegali e fantasiose forme di lavoro nero (badanti, aiuti domestici, fisioterapisti, etc.). La lotta all’illegalità diventa allora una costante azione di ‘legalizzazione’ delle soluzioni illegali tramite sanatorie. È un costante inseguimento di addomesticare una fantasia privata che deve invece ricevere soluzione da una responsabile creazione di ‘servizi privati’ qualora vigesse un libero mercato del lavoro nel paese. Un’ulteriore alienazione del paese reale dal paese legale che cerca invece di tutelare i privilegi di soluzioni ‘legali’ ma insoddisfacenti o non più ‘sostenibili’ economicamente se non con tassazione ulteriore.